Il senso del cognome è per definizione
ciò che socializza la persona con i suoi stessi antenati
attestandone contemporaneamente l’esistenza di fronte alla
società. Infatti, se è vero che esso risulta in
apparenza più generico, è anche vero che, nella
sua collocazione sociale, paradossalmente, assume e fornisce una
maggiore identità rispetto al nome, quest’ultimo
definendo una sorta di ‘finta’ individualizzazione. Mercier
e Camier. Due cognomi, o forse, alla francese, dovremmo dire nomi,
dalla desinenza che indica spesso un mestiere. Se si fossero chiamati
Pierre e Jean, per citare due appellativi tra i più noti,
quanti Pierre e Jean, in senso formale, avrebbero potuto o potrebbero
esserci? Invece qui il cognome, necessariamente legato soltanto in
senso virtuale a una loro discendenza, presuppone certo una possibile
ascendenza: un padre Mercier, un nonno Mercier, un bisnonno Mercier, e
così via, e ugualmente per Camier. Entriamo subito nella
contraddizione all’interno dei due personaggi protagonisti e
di questa stessa opera beckettiana; infatti il cognome, che sembra dare
uno spessore genealogico, decreta qui una doppia assenza, o mancanza.
Totalmente estranei, fino alla narcosi, dai tratti dichiaratamente meno
confidenziali, si muovono con la loro propria specificazione sociale
tramite i passi e l’andatura di una negazione sociale:
estranei persino l’uno all’altro.
Accadeva allora, ora a Mercier, ora
a Camier, di sprofondare talmente nei propri pensieri che la voce di
uno, riprendendo il discorso interrotto, era impotente a strappare
l’altro alla sua meditazione, o a farsi udire. Oppure
accadeva che, giunti simultaneamente a conclusioni sovente opposte, si
mettessero simultaneamente a parlare. Succedeva spesso, in questi casi,
che uno cadesse in catalessi prima che l’altro avesse potuto
terminare il proprio resoconto. Di tanto in tanto si guardavano,
incapaci di pronunciare una parola, completamente svuotati. Fu alla
fine di uno di questi torpori che rinunciarono a spingere
più avanti la loro ricerca, almeno provvisoriamente.
(Beckett, 1971, pag.20).
Non si tratta quindi di un’assenza di
interiorità nei termini di una meditazione o rielaborazione
interiore; mentre al parlare distonico la letargia si aggiunge come
elemento di ulteriore straniamento, subentra la supposizione di un
mondo interiore – seppure di
un’interiorità quasi del tutto ignota, persino a
se stessa – con il verificarsi di una concentrazione su un
punto, sorta di vuoto pieno: il pieno della meditazione, il vuoto del
contenuto. Eccoci così di fronte all’ulteriore
contraddizione tra apparenza e realtà ipotetica , la cui
scenografia – per usare un termine la cui derivazione
teatrale denuncia tutto l’irrealismo
dell’antiromanzo – si configura vagamente come
città o paesaggio di campagna presente allo sguardo, entro
il cui spazio gli incontri e le conseguenti relazioni sono puramente
accidentali. Guardando poi al campo d’azione si visualizzano
mezzi di trasporto, luoghi e situazioni che presuppongono un mondo; i
personaggi si trovano in un ambiente, vivono in un contesto collettivo,
ma nonostante con questo si trovino ad interagire se ne distaccano
ancora di più proprio attraverso la stessa interazione.
Assoluta solitudine, persino dell’uno rispetto
all’altro, quindi, in un mondo che nel frattempo va avanti da
sé, avendo una sua esistenza, magari più
incolore, nell’ulteriore sottolineatura della loro radicale
estraneità. Al senso della differenza si affianca
il senso della fuga: apparendo anche come un girare intorno a se
stessi, o forse una serie di false partenze con false mete, il viaggio
di Mercier e Camier è un vagare che comprende in se stesso,
in un incessante, circolare conferma, anche i presupposti di
allontanamento, di fuga, di distacco. Esiste un senso centrifugo
rispetto alla base, da o verso un punto di partenza. Senza
psicologizzare – i personaggi volutamente sono vagabondi a n
dimensioni – individuando una motivazione generica, forse una
diffusa insoddisfazione, o di non-contatto, essa si identifica come
trampolino di lancio per un ipotetico tentativo di sganciamento, di
abbandono. In ogni caso una partenza per sfuggire/distaccarsi da
qualcosa, che in questo caso sembra identificarsi con il perimetro
della città. Ma, al bando di ogni conforto, con un senso di
espansione della stessa partenza il viaggio permane nella condizione
interiore. Muoversi eventualmente sul posto poi, in realtà
non è soltanto precisamente segnare il passo, ma anche una
sorta di percorso, pellegrinaggio entro cui si sposta sempre il senso
della meta: la meta sfugge continuamente. In tutt’altra
realtà e fatte salve le ovvie, ciclopiche, differenze,
avvertiamo il castello di Kafka come presenza incombente, mai
raggiungibile: si va al di là di una meta che non appartiene
nemmeno più alla consapevolezza di chi si sposta.
Comportando sì una zona spaziale, ma che indica un partire
senza mai (rag)giungere. In ogni caso –
anche se l’ignoto potrebbe forse qui prefigurare quanto
verrà visto pur mancando una dichiarata intenzione di
‘partire per’, o addirittura la partenza mancare
del rapporto, non in termini naturalistici, di
io/dove/perché/come – quello di Mercier e Camier
è e rimane un viaggio sufficientemente lecito –
dal punto di vista della liceità dell’assunto
– e lecitamente contrapponibile a quello tradizionale, al
viaggio ottocentesco che porta a una dimensione di un esperire ben
definito. Non siamo di fronte a due giovani ricchi rampolli inglesi che
intraprendono viaggi di impianto conoscitivo impostati
sull’accrescimento dell’esperienza vitale e di
quella culturale.
Fu un viaggio di nessuna
difficoltà materiale, senza mari o frontiere da superare,
attraverso regioni poco accidentate anche se deserte per collocazione
geografica. Restarono a casa loro Mercier e Camier, ebbero questa
inestimabile occasione. Non dovettero cimentarsi, con maggiore o minor
fortuna, con modi di vita stranieri, con una lingua, un codice, un
clima e una cucina bizzarri, in ambienti che avessero, dal punto di
vista della somiglianza, un sia pur minimo rapporto con quello a cui
l’infanzia prima e l’età matura poi li
avevano abituati. (ibidem, pag.7).
Lungo questa direzione, per così dire obbligata, la
disarmonia con gli oggetti diventa anche una sorta di sfiducia nella
possibilità di operare su e verso una realtà,
nella sua stessa accezione pratica e pertanto di spostamento. Il duo
sembra avere un rapporto antagonistico con le cose, mentre gli oggetti
assumono una specifica funzione memoriale e non pratica come patrimonio
di ricordi che perdono così il loro valore d’uso
per diventare valore di memoria. Infatti, se da un lato ogni singolo
oggetto si perde nel vago proprio perché manca del suo
valore d’uso, dall’altro questo elenco privo di
funzionalità concreta assume una visibilità
maggiore poiché possiede un suo spessore, funzionale al
personaggio proprio nel momento in cui sparisce il suo valore
strumentale.
Oggetti talmente inutili da volersene liberare, È
come soffiarsi il naso, disse tra sé. (C’est
comme si je me curais le nez, se dit-il. Beckett, Paris,
1970, pag.89) – rispetto all’originale “pulirsi
il naso” si è optato per una traduzione che appare
più consona anche se meno letterale), da
abbandonare dopo averli ammucchiati e ricordati e dimenticati in una
soffitta; e sono le tasche di un indumento a diventare e ad essere la
soffitta in cui si raccoglie e si evoca una vita intera.
– Non abbiamo lasciato
niente nelle tasche, almeno? – disse Mercier. –
Biglietti forati di ogni tipo, – disse Camier –
fiammiferi usati, su dei pezzetti di margine di giornale
tracce obliterate di appuntamenti irrevocabili, il classico mozzicone
di matita spuntato, qualche foglio sporco di carta igienica, qualche
preservativo di dubbia impermeabilità, cioè della
polvere. Tutta una vita insomma. (Beckett, 1971, pag.86).
Ma attraverso questa enumerazione, elenco anche compilativo di
oggetti che sembrano concreti ma rimangono soltanto
l’enunciazione di se stessi – con funzione di
ricordo, appunto – si manifestano, quasi sotto gli occhi,
tutte le azioni, i verbi sottintesi, addirittura comportamenti a
matrice sessuale. Ma qui si verifica uno scatto, per così
dire, in avanti: i personaggi hanno una memoria – gli oggetti
mancano di una funzione di uso al presente ma, accidentati e ormai
inservibili, in qualche modo sono stati fruiti attraverso una funzione
proiettata verso il passato dell’oggettistica stessa e di
conseguenza del personaggio stesso – e ciò sembra
ricollocarli nella definizione del tempo in cui vivono. Insieme
di rottami di realtà, dunque, di personaggi, persone, forse
di romanzi. Ipotesi di un’allusione, seppure archeologica, a
tutto quello che è il romanzo tradizionale attraverso le sue
stesse vestigia fisicamente messe a nudo. Intanto, l’ideale
riflettore puntato su Mercier e Camier, primo piano in senso
strutturale piuttosto che narrativo, sorta di dettaglio ideale e ideale
di un dettaglio, sembra sottolineare il fatto che la realtà
è decostruita e non costruita; che la realtà
sembra decostruire piuttosto che costruire. Permane sempre una
sensazione molto sottile, difficile da descrivere, dove si danno per
scontate le nozioni realistiche e le azioni quotidiane attraverso la
cui riconoscibilità scatta facilmente
l’identificazione. È sempre come se, in una
a-storia in cui succede tutto ma non succede niente, ci fosse uno
sfuggente ma chiaramente percettibile effetto totale,
straniato-straniante, composto di nulla ma anche di materiali
spiccatamente particolareggiati e realistici, ancora una volta
tutt’altro che irriconoscibili. Citazioni ironiche, frasi di
buon senso, quasi proverbiali – 1) La mancanza di
denaro è un male. Ma può diventare un bene. 2)
Ciò che è perduto è perduto. 3) La
bicicletta è un gran bene. Ma utilizzata male può
diventare molto pericolosa. (ibidem, pag.93) – si
surrealizzano verso un costante lievitare in una dimensione altra
– quella di quest’opera – che, seppur non
ben definita, li ingloba derealizzandoli. Compreso quel formalismo
dialogico – …le presento le mie
scuse… lei non deve prenderlo nel senso
sbagliato…Le rinnovo le mie scuse…e le dico
addio. (ibidem, pag.83) – che fa da contraltare
alla pseudoarroganza, presente a volte tra loro:
– Un attimo –
disse Camier. – Che
rottura – disse Mercier. –
Dove andiamo – disse Camier. –
Non riuscirò mai a liberarmi di te? – disse
Mercier. (ibidem, pag.118).
Non precisamente personaggi che si muovono nel vuoto o in
un’ambientazione falsa, quindi, ma una sorta di mondo,
esserci-non-esserci, collisione, luogo-non luogo in cui si verifica una
sorta di urto, si inciampa, si prendono testate, circondati e immersi
in una cornice che per sua natura ha una sorta di pseudo
solidità sempre in bilico di tramutarsi in
ostilità. È un mondo che mostra una certa forma
di durezza in senso fisico, estranea a chi vi si muove
nell’immobilità, scenografia e ambiente, per un
verso, ma sempre qualcosa che si presenta sotto le specie di potenziale
pericolosità o conflitto. Eppure, nonostante tutto,
nell’opera non viene mai negata, seppure fantasmaticamente,
una sorta di presenza della soggettività, nel senso di
identificazione, non certamente come azione e ancor meno come azione
finalizzata, ma come individualità che continua a esistere.
Infatti Mercier e Camier, contrariamente ad altre personae beckettiane,
non sono vittime di uno scardinamento assoluto in termini di
definizione, ma, considerati nel loro effettivo ruolo di motori della narrazione,
emergono dal fondale come personaggi aventi sufficiente forza da essere
protagonisti delle vicende. Protagonisti e vicende che si inseriscono
anche nella ricapitolazione: ogni due capitoli il Riassunto
dei due capitoli precedenti, in una pseudo
matematicità data, stabilita, razionalizzazione-riassunto di
qualcosa che per sua natura non ha niente da riassumere. Operazione
strettamente tecnica che non aggiungendo nulla di
semantico – ogni parola della narrazione essendo
autosufficiente – si rivela soltanto
l’aggiunta di una pseudo sintesi o riepilogo, opposizione o
trascrizione ironica di quei romanzi popolari ottocenteschi, o ancora
precedenti, in cui il riassunto precede e annuncia lo sviluppo dei
capitoli.
:: letture ::
- Beckett S., Mercier e Camier, traduzione di Luigi Buffarini, Sugar Editore, Milano, 1971
- Beckett S., Mercier et Camier, Les
Éditions de Minuit, Paris, 1970
|