Verso lo scadere dell’Ottocento, poté sembrare per un certo periodo
che i confini della scienza stessero per muoversi in maniera
insospettata e che nuovi ed imprevedibili orizzonti accennassero ad
aprirsi davanti agli occhi curiosi dei ricercatori e a quelli
meravigliati del grande pubblico. L’elettricità, forza indescrivibile
ammaestrata da Edison, il “mago di Menlo Park”, attirava le folle alle
esposizioni universali parigine, stupefacendo il pubblico con le sue
innumerevoli e sorprendenti applicazioni, tra le quali il fonografo,
marchingegno capace di conservare la voce delle persone fin’oltre la
loro morte, pareva senza dubbio l’invenzione più straordinaria, tanto
da farlo immortalare da Villiers de l’Isle-Adam in Ève future
epopea moderna dell’elettricità con forti accenti spiritisti (2005).
L’universo non era più vuoto. L’etere degli antichi, che riempiva gli
spazi astrali, pareva infine aver trovato un nome più moderno, essere
stato almeno in parte sfatato, domato, posseduto. Onde e forze
percorrevano il cosmo che l’ignoranza umana aveva creduto spoglio, ma
esse potevano ora essere conosciute, capite, dominate talvolta e
comunque considerate non più alla stregua di potenze superne, ma
piuttosto di spiriti familiari, disposti ad essere ammaestrati. Una
vita insospettata si sentiva agitarsi fin nel profondo di una materia
che nulla aveva più a che vedere con quella, solida e stolida, che i
filosofi materialisti del secolo precedente, i Julien Offroy de La
Mettrie o i Jean-Baptiste-René Robinet, avevano esaltata nella sua
pesantezza arrogante contro i sogni evanescenti dei metafisici. Gli
opposti parevano infine destinati a riconciliarsi. Gli spiriti si
sarebbero presto rivelati conoscibili, decrittabili. Ciò che era stato
nascosto, e per quel motivo solamente ammantato di mistero, sarebbe
uscito all’aperto e si sarebbe mostrato realmente per quel che è:
un’altra forma della realtà, una verità fino ad allora ignorata ma non
per questo impossibile. Tutt’altro. Camille Flammarion
(Montigny-le-Roi 1842 - Juvisy sur Orge 1925) va letto e riscoperto in
quel contesto. L’allor celebre astronomo, il cui libro più conosciuto e
diffuso, De la pluralité des mondes habités, data del 1864 e
potè contare ben trentasei edizioni nello spazio di meno di trent’anni
oltre ad essere tradotto un tutte le lingue principali d’Europa, si
situò in effetti forse più di tanti altri in quello spazio dove
scoperte d’avanguardia e ispirazioni spiritualiste si incontrano e si
confondono. Autore di importanti serie di volumi di Astronomia Popolare,
apprezzati e premiati fin dall’Académie Française, Flammarion è stato
tra i primi ad assumere l’esistenza di forme di vita extra-terrestri e
ad interrogarsi su quali aspetti potesse prendere la vita sui pianeti
del sistema solare, e primo fra tutti sul vicino satellite della terra.
Vicino alle teorie dello spiritista Allan Kardec, egli si sforzò di
compiere attraverso le sue opere “una refutazione non teologica del materialismo contemporaneo”
(Flammarion, 1868, Avertissement de la dixième édition française, c.vo
dell’autore. Le traduzioni dal francese sono nostre). Flammarion,
infatti, frequentò gli ambienti spiritisti parigini a partire dal 1861,
incontrandovi personaggi di rilievo tali appunto Kardec e Papus, e
proseguì da allora i suoi interessi nel campo finchè, nel 1923, venne
eletto presidente della Society for Psychical Research di Londra. Il
suo obiettivo era di sviluppare uno “spiritismo razionale, a uguale
distanza dall’ateismo e dalla superstizione religiosa”, che consentisse
di arrivare “[al]la Religione attraverso la Scienza”. Per lui, in
effetti, il progresso scientifico non si poteva in alcun modo separare
dal progresso morale, e “[...] la questione dell’esistenza d’una razza
intelligente sugli altri globi dello spazio, dell’universalità della
vita nella creazione siderale, dell’unità delle leggi fisiche e morali
nel mondo intero [...] (ibidem)” divenivano problemi strettamente collegati che sarebbero potuti essere compresi solo tutti insieme. Flammarion
insisteva fortemente sull’aspetto prettamente scientifico del suo
operato, tenendo a distinguersi dai sognatori o dai romanzieri che nel
corso dei secoli avevano tentato d’immaginare quali forme potesse avere
la vita sugli altri mondi. Questa ferma volontà di ancorare il suo
ragionamento esclusivamente nell’ambito di quanto l’astronomia e le
scienze potessero farci imparare grazie ai progressi della tecnica,
risalta ancor più nel titolo del suo secondo best-seller, Les mondes imaginaires et les mondes réels,
dove la prima metà è consacrata ad una descrizione che si vuole
obiettiva dei vari pianeti sulla base delle ultime scoperte
astronomiche, mentre la seguente trasporta il lettore attraverso secoli
di fantasticherie pseudo-scientifiche, da Bernard de Fontenelle a Jean
Baptiste Charles Fourier, passando da Immanuel Kant e John Milton, ma
senza dimenticare Paul de Kock, Jules Verne o Edward Bulwer-Lytton.
L’astronomo-spiritista-poeta era ben cosciente della posizione delicata
nella quale si situava e dell’ambiguità inerente al genere dei suoi
scritti. Per questo motivo, si difendeva accanitamente dall’accusa di
voler imitare Dante, Ernst Kircher oppure Emanuel Swedenborg, e
affermava di voler semplicemente estrapolare sulla base del conosciuto
per indovinare ciò che ancora si cela agli sguardi dei ricercatori, e
formulare quelle ipotesi che più tardi nuovi sviluppi delle scienze
avrebbero permesso di confermare. Agli strumenti materiali e ai calcoli
scientifici egli sognava d’aggiungere una terza dimensione dalle
potenzialità enormi:
Al fianco dell’astronomia matematica e dell’astronomia fisica,
che costituiscono i due elementi fondatori della scienza del mondo,
esiste quella che potremmo chiamare l’astronomia speculativa, che
deriva dalla prime due e s’innalza talvolta al di sopra di esse con le
sue viste ardite e i suoi concetti giganteschi. [...] Ma conviene
evitare uno scoglio pericoloso [...] quello che consiste ad addentrarsi
troppo nell’arbitrarietà. (Flammarion, 1870, pag. 3)
Paradossalmente è quello scoglio, non sempre evitato, che dà agli
scritti di Flammarion quel po’ di attualità cui possono ancora aspirare
ai giorni nostri, dopo che le esplorazioni spaziali hanno dissipato
qualsiasi alone di mistero dalle vicinanze del nostro globo. La Luna,
questa “compagna utilissima della Terra” (Flammarion, 1868, pag. 84),
ha attirato particolarmente la sua attenzione. Il satellite del nostro
pianeta affascinava l’autore quasi più per la sua apparente assenza di
caratteri interessanti che per qualsiasi sua eventuale virtù. Egli vi
vedeva “una delle scene più modeste della natura” (Flammarion, 1870,
pag. 9), uno spettacolo umile ma pur sempre da non essere disdegnato.
Priva d’atmosfera, sprovvista d’acqua, assente da essa ogni parvenza di
vita, la Luna poteva sembrare un oggetto quasi interamente trascurabile
agli occhi d’un astronomo dell’Ottocento. Ma la visione di Flammarion
non si ferma alle immagini fornite dai telescopi. Egli guarda al di là
delle semplici apparenze e giudica sulla base d’un ideale che vorrebbe
vedere la vita spargersi e germinare nell’universo intero. La Luna
attuale, ammasso sterile di pietraglie, scompare per lasciare il posto
alla speranza di un avvenire abitato, oppure al ricordo di un mitico
tempo che fu, quando la “vigile sentinella” (pag. 10) della terra era
anch’essa dimora di esseri viventi: “Ai nostri occhi, la Luna ha ben
altro destino da realizzare che quello di orbitare solitaria attorno al
nostro globo. O essa è abitata o è stata abitata, o sarà abitata”
(Flammarion 1868, pag. 83). O per dirla in modo ancora più
dichiaratamente poetico: “Gli astri sono fatti per essere abitati come
i boccioli di rosa sono fatti per schiudersi”(ibidem, pag. 12). Di
fronte al bisogno di rappresentare le forme di vita possibili sul
nostro satellite, Flammarion si guarda bene dal mostrarsi troppo
dogmatico e insiste al contrario nel sottolineare come esse possano
assumere forme, e coscienze, così completamente aliene da essere
irriconoscibili per i terrestri. Rispondendo in anticipo alle critiche
di coloro che potevano chiedere come in un tale luogo potesse esistere
alcunché di vivente, egli prevede sulla Luna una vita del tutto
differente da quella terrestre. Ad ogni angolo dell’universo può così
corrispondere un’esistenza che gli è propria, multipla e varia secondo
l’astro sul quale si è sviluppata e le condizioni della sua esistenza.
Soprattutto, importa di non far mostra di arroganza e di non “giudicare
il mondo intiero col metro della nostra debolezza e prendere la vita
terrestre per il tipo assoluto della vita universale” (ibidem, p.11). Il discorso sulla Luna sviluppato in Les mondes imaginaires et les mondes réels
è tuttavia soprattutto un modo di riportare il lettore dai deserti
seleniti sulla sua terra stessa, e di fargli osservare il suo mondo
alla luce riflessa del suo satellite. Flammarion riprende per
illustrare il suo proposito la divisione proposta da Giovanni Keplero
nella sua Astronomia lunaris, dove “chiama Sub-volves, sotto la Terra, i Seleniti che abitano questa parte della Luna, mentre chiama Privolves, privati della Terra, quelli che abitano l’altra parte. Queste denominazioni vengono dal nome Volva (Colei che gira), nome che i Seleniti, sempre secondo questo astronomo, danno alla Terra” (ibidem,
pag. 13). È nel loro rapporto con la Terra che Flammarion esamina i due
emisferi lunari, giudicando che i Sub-volves beneficiano della vista
maestosa del nostro pianeta, suscettibile di ispirare loro pensieri
elevati e di spingerli alla contemplazione, mentre i Privolves
che risiedono sul lato perennemente oscuro devono aver ricorso ad altri
stratagemmi, e “forse, sotto la loro atmosfera sconosciuta, hanno dei
soli artificiali che accendono per la metà dell’anno” (ibidem,
pag. 29). A partire dalle osservazioni astronomiche, e dalla posizione
della Luna rispetto alla Terra, Flammarion si lascia tentare dal
desiderio di prevedere quali possano essere i rapporti tra gli abitanti
dei due opposti emisferi lunari, e conclude per l’esistenza di “una
distinzione fondamentale nella nazionalità dei Seleniti. Quelli che
abitano l’emisfero privilegiato [quello dal quale si vede la Terra]
sarebbero i nobili; ai loro antipodi risiederebbero i villani”. Egli
s’immagina che la vista del nostro pianeta, coi suoi brillanti colori,
attirerebbe le popolazioni del lato oscuro desiderose di vedere almeno
una volta nella loro vita lo spettacolo che è loro negato. Ma se la
divisione geografica dovesse effettivamente corrispondere a una
separazione sociale, prevede che “forse i pellegrinaggi alla Terra
avrebbero un valore ancora ben più grande, e potrebbero anche essere
proibiti ai plebei”, aggiungendo tuttavia prudentemente: “Di questo
preferiamo non discutere” (ibidem, pag. 23). Questo
trasferimento nello spazio dei conflitti sociali terrestri serve
all’autore per ricordare ai suoi lettori come, vista dalla Luna, la
Francia appaia “quasi invisibile”, (ibidem, pag. 18) e per
supporre che “i Seleniti che contemplano tranquillamente durante le
notti silenziose gli squarci verdi e grigi della Terra, non sospettano
minimamente le battaglie che oppongono tra loro quelle nazionalità
lontane” (ibidem, pag. 19). Lo spiritismo che l’autore
sottoscriveva aveva in effetti un lato progressista molto marcato. Il
socialismo romantico di Fourier e di Pierre Leroux prevedeva già certi
elementi dottrinali poi recuperati dallo spiritismo fin-de-siècle
e adottati per l’essenziale anche da Flammarion. Al disfacimento
sociale causato dall’industrializzazione e dalla società borghese
dominata dall’egoismo, questo proto-socialismo pre-marxiano opponeva
l’idea di un’unione totale dell’umanità al di sopra delle classi, che
trovava la sua espressione più alta nella teoria della reincarnazione
delle anime. Questa visione, metafisica ma non prettamente religiosa,
aveva il vantaggio di emarginare il Cristianesimo – considerato il
braccio spirituale della repressione borghese – per proporre l’idea di
uno sviluppo armonioso degli spiriti di vita in vita, all’interno di
una spirale eternamente ascendente. Jean Reynaud fu probabilmente il
primo, in questo contesto, a rappresentare nel suo libro Terre et ciel
(1854) l’idea di una catena continua di reincarnazioni dove gli animi
passavano da un pianeta all’altro e di vita in vita, in una
progressione inarrestabile verso la perfezione (cfr. Weber, 2007). Il
concetto di pluralità dei mondi abitati sviluppato da Flammarion si
prestava a meraviglia ad un tentativo di collegare logicamente il
progresso materiale e il progresso spirituale, arrivando per finire ad
identificare le forme di vita extraterrestri con le nuove incarnazioni
di esistenze terrestri passate. In uno dei sue tre romanzi a tema
fantascientifico, Stella (1897), l’autore identifica
nell’elettricità la sostanza autentica dell’anima e la forza che
permette la comunicazione tra gli spiriti, dipingendo il ritratto di un
universo dove fluidi imponderabili in perenne stato di transizione
collegano tra loro pianeti, soli e satelliti (Finn, 2007). In questo
contesto dotato di una sua logica interna ineccepibile, dove spirito e
materia superano la loro antichissima opposizione per ritrovarsi in una
“sintesi di tutti i saperi” (ibidem), la Luna di Camille
Flammarion, da pallido, inutile e deserto satellite della Terra,
diventa il primo gradino su di una scala che porterà le anime umane
alle soglie della perfezione.
:: letture ::
Finn, M.R., “Science et paranormal au 19e siècle: la science-fiction spiritualiste de Camille Flammarion”. Dalhousie French Studies 78 (Spring 2007), pp. 43-51.
Flammarion, C., La pluralité des mondes habités: étude où l'on
expose les conditions d'habitabilité des terres célestes discutées au
point de vue de l'astronomie, de la physiologie et de la philosophie
naturelle. Paris, Didier, 1868.
Flammarion, C., Les mondes imaginaires et les mondes réels. Voyage pittoresque dans le ciel. Paris, Didier, 1870.
Villiers de l’Isle-Adam A., Eva futura, Guanda, 2005. Weber, T. P., “Carl du Prel (1839–1899): explorer of dreams, the soul, and the cosmos”. Studies In History and Philosophy of Science Part A Volume 38, Issue 3, September 2007, Pages 593-604. |