Viaggio al termine della notte (1932)1 di Louis Ferdinand
Céline è la prima tappa di una straordinaria invenzione letteraria,
resa possibile da un progressivo rimodellamento/disfacimento della
parola e della sua ri-costruzione. Dopo Céline, insomma, la letteratura
non sarà più la stessa. Un’avventura creativa sempre più intrecciata
drammaticamente con le vicende personali dell’autore. Qui, però, non
prenderemo in esame quel febbrile lavorio sull’argot, gli andamenti
sincopati che nelle opere successive ricorderanno sempre più il ritmo
del jazz, e non guarderemo neanche alle discutibili bagatelle
antisemite. Analizzeremo nello specifico i tre concetti portanti del
romanzo: il viaggio, la metropoli/fabbrica, la guerra, partendo dal presupposto che il Voyage ruota intorno al riconoscimento del disastro dell’Io
nel suo rapporto con gli altri, conservando come sfondo la cultura
dell’Occidente e le sue conseguenze. Si è detto che la vita di Céline è
rintracciabile in tutta la sua opera e, infatti, le vicende di questo
suo primo romanzo sono principalmente ispirate a viaggi dell’autore.
Iniziamo dunque dal viaggio, tema delineato sin dalla prima pagina del
testo. Céline lo descrive come la facoltà di utilizzo dell’immaginario,
come l’atto stesso del romanzare. Un’opera che “va dalla vita alla
morte” mentre il resto è relegato, tra la “delusione” e la “fatica”,
all’annichilimento consapevole, alla notte: condizione
esistenziale che conduce gran parte dell’umanità, attraverso la paura,
alla necessità di autoconservazione e alla fuga, che è un’ulteriore
forma di viaggio. Il bisogno di mantenimento dell’integrità del corpo è
del resto un altro dei temi portanti di Céline, influenzato dalla sua
formazione di medico2. I viaggi dovrebbero condurre gli uomini alla
conoscenza del nuovo. Chi parte, è noto, sa da cosa fugge, ma,
aggiungerebbe Céline: “… sa anche cosa trova”: altra umanità, che
persiste costantemente nella propria essenza, che significa essere
“immondi, atroci e assurdi”. Questa particolare visione dell’uomo ha
portato alcuni a descrivere l’opera come nichilista, perché descrive un
agire individuale orientato al semplice soddisfacimento di istinti
fisiologici bestiali. Il determinismo dell’autore è, però, più simile a
quello di un entomologo, che analizza relazioni basate sul
parassitismo, che in natura è funzionale alla prosecuzione delle specie
e all’equilibrio degli ecosistemi, mentre nella società porta al
mantenimento di strutture clientelari e alla sopraffazione
dell’individuo sul suo simile e, talvolta, alla distruzione di habitat.
Sistemi caratterizzati dalla sopraffazione portano di conseguenza al
sospetto, alla necessità di mantenersi intatti e alla paura. Gli
avvenimenti storici durante i quali è ambientato il romanzo vedono la
Francia, grazie ai suoi domini e protettorati in Africa, come una delle
portatrici del cosiddetto “fardello dell’uomo bianco”, teorizzato da
Rudyard Kipling, che l’antropologia dell’autore sovverte completamente.
Céline dirà, infatti, che l’unica, grande differenza tra gli europei e
gli africani è nel clima delle loro terre: il caldo corrode più
facilmente i corpi, il freddo conserva dalla decomposizione, fisica e
morale. Giunto in Africa, Ferdinand osserva le dinamiche di un
tribunale coloniale, dove i funzionari esercitano il loro ruolo senza
avere un preciso titolo di studio o altra competenza, con l’unica
mansione di infliggere pene fisiche agli indigeni. Il periodo storico
in cui il libro fu scritto era del resto caratterizzato, come ogni
epoca, dai suoi grandi temi, dai suoi canoni. Assieme al colonialismo,
c’è la guerra. Il romanzo inizia infatti con un giovane Ferdinand,
“vergine di atrocità”, che si arruola rocambolescamente per partecipare
alla I Guerra mondiale, forse in preda all’euforia che allora aleggiava
attorno al conflitto in fieri, e, vivendolo, dirà che “la guerra era
tutto quello che non si capiva”, espressione che evidenzia un doppio
significato. Da un lato è un risvolto dell’incoscienza del
protagonista, che si troverà ad obbedire agli ordini di individui
esaltati, patrioti della morte, eseguendo sempre compiti di
rifornimento, senza mai vivere in pieno l’angoscia immobile della
trincea. Dall’altro, dichiara che la guerra è infinita espressione
dell’Io umano e dei suoi incubi, uccisione reciproca senza motivazioni. Il
terzo grande tema è la fabbrica, luogo di produzione di ricchezze
nazionali, ma anche di macchinizzazione delle capacità umane, che
Ferdinand sperimenta quando si trasferisce negli Stati Uniti. A prima
vista, il Nuovo Mondo aveva suscitato nel protagonista grande
ammirazione, per la dinamicità degli abitanti e la grandiosità delle
forme urbane, completamente protese verso l’alto, città verticali,
totalmente diverse da quelle d’Europa, adagiate, stanche e apatiche. Un
tema caro alla sociologia, che negli anni Trenta, scopriva la città
come laboratorio di analisi grazie alla “Scuola di Chicago”. Ma la vita
veloce che Ferdinand osserva nella metropoli assume una nuova forma
quando lui viene impiegato in una fabbrica Ford, a Detroit. Gli viene
affidata una mansione che lo tiene lontano dai compiti ripetitivi della
catena di montaggio, ma ugualmente Céline vede ridotto il suo stato a
quello di un primate, e fugge, ritornando in Francia. In lui, i grandi
temi sono delle cornici minime nello spazio dell’opera, che sono però
enormi nel discorso delle loro conseguenze sugli atti umani. Attraverso
un percorso ciclico l’immondo della forma umana diventa poi radice dei
grandi canoni e canone costante. C’è fine all’immondo? Forse no; ma qualcuno non ne è pervaso
pienamente. In Africa Ferdinand conosce Alcide, un funzionario
francese, con una nipotina rimasta orfana che vive in patria, che lui
mantiene a distanza. “L’amore per la vita degli altri fa grande un
uomo, di più della sua povera vita”: il protagonista concepisce
l’esistenza e la fattibilità della solidarietà umana, si commuove per
il coraggio del collega. Non è nemmeno indifferente alle potenzialità
di esistenza dell’amore, come dimostra il congedo da Molly, una
prostituta conosciuta a Detroit, che rivela come la concezione di amore
del protagonista coincida con l’atto di aver cura dell’altro,
mantenendone intatto il corpo. Spesso il dono agli altri è
involontario. Nel manicomio parigino dove lavora, Céline dà delle
lezioni di inglese all’apatico e taccagno dottor Baryton, che comincia
così a scoprire il bello del viaggio, della fuga costruttiva verso la
conoscenza, ma anche quella negativa, lontano dalle responsabilità che
lo legavano alla figlia affetta da un grave ritardo psico-fisico. Il
resto dei sentimenti provati da Ferdinand non sarà che “appena
abitabile”, ed egli vedrà, nelle dinamiche umane vissute, soprattutto
lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dalle colonie alle fabbriche Ford,
fin nella squallida periferia di Rancy. La sezione del romanzo
dedicata ai sobborghi operai parigini, la più lunga dell’opera,
presenta un’umanità affollata di esseri gretti, meschini. I coniugi
Henrouille, che vogliono far rinchiudere in ospizio la vecchia madre
del marito per poterne gestire la ricca pensione, il sudicio Don
Protiste, parroco del quartiere, che organizza il finto incidente
domestico in cui uccidere la vecchia Henrouille, che, accortasi dei
traffici attorno alla sua persona, ha ripreso vigore ed inveisce contro
il mondo. Ferdinand mantiene un atteggiamento di sdegnoso distacco,
assume ippocraticamente il ruolo di medico, anche se in un modo molto
comico, infatti non accetta onorario durante le prime visite, perché ha
vergogna di chiederlo. In seguito, ogni paziente lo congeda
garbatamente dopo ogni visita medica. Anche il mondo accademico che
vede è abitato da individui grami. Qui conosce Parapine, scienziato
velatamente voyeur, desideroso di fare una scoperta scientifica
sensazionale, qualsiasi essa sia, per poter finalmente lasciare
l’istituto di ricerca dove lavora e il suo odiato capo, rinomato barone
universitario. L’uomo sociale è inserito in un sistema di
aspettative, le sue azioni portano a conseguenze, per se stesso e per
gli altri, che sono l’inferno, ma fanno anche da specchio delle azioni
individuali e da mezzo per significarne l’identità: si dice “Io” solo
di fronte all’altro. La dichiarazione di identità è un rapporto
speculare, che porta a definire differenze ed analogie, a confrontarsi
con il proprio doppio. Nell’opera il doppio di Ferdinand è
probabilmente Robinson, il personaggio che vive le sue stesse
avventure, la guerra, l’Africa, Detroit, Rancy, è sempre presente, come
un retaggio, una zavorra, un promemoria di ciò che Ferdinand potrebbe
essere. Ma soprattutto rappresenta il tramite che lo accompagna ad una
consapevolezza, quella che chiude il libro e ne significa il titolo. È
notte, e Robinson è agonizzante, ferito da un colpo di pistola.
Ferdinand, stringendogli le mani, lo vede come un povero disgraziato,
che per tutta la vita ha fatto il furbo, come, del resto, tutti gli
altri. Un uomo, quindi. Le sue parole non sono pietose, ne avrebbe di
più, dice, per un cane. Robinson è più stupido di Ferdinand, meno
istruito, ma è riuscito a morire con una ragione, un motivo valido. Se
la vita umana è un “luogo scomodo” senza scopi, per morire bisogna
trovarne uno che non sia la semplice fuga. La morte è un viaggio che
illumina gli ultimi istanti di vita, per goderne. Al termine della
notte, pertanto, c´è il viaggio che Ferdinand non farà, che il suo
doppio sbilenco è riuscito ad intraprendere, subendo la morte come ha
subito la vita. Quella notte muore una parte di Ferdinand. Di lui
resta il suo involucro, “la carcassa”, che su un molo osserva una
chiatta allontanarsi lungo il corpo del fiume, verso un luogo che il
protagonista non vivrà, perché è giunta la fine dei viaggi. La fine
dei viaggi coincide plausibilmente con la fine delle paure, con il
sopraggiungere dell’apatia. È così delineata la concezione céliniana
del viaggiare, che è infatti il semplice atto, la volontà unica del
cambiamento di luogo, come un’esaltazione del tragitto, che non prevede
un altro fine ad esso collegato. Per cui si avvicinerebbe ad una certa
tradizione, anche picaresca, del romanzo di formazione e di avventura.
Si aggiunge però la condizione dell’umanità e la concezione immonda e
melmosa – più che massificata – che ne ha Céline, che vanificano il
risultato ultimo del viaggio e del ritorno, che è quello di trovare il
nuovo. Il testo perciò è lontano dalle occidentali virtù di
principio e risultato, lontano dall’esaltazione del calcolabile di
matrice weberiana, motore del rinnovamento portato dall’etica
cattolico-protestante. Rientra, come unica forma di certezza, quella
del semplice assurdo umano, immondo e terreno. Un immondo che si
cela spesso dietro la stessa organizzazione sociale, assicurando un
livello di violenza tollerato e sostenibile, operato al livello della
vita privata o professionale, che non accetta intrusioni. Céline riduce
ai minimi termini i fattori di calcolabilità delle azioni umane, che,
in quanto istintuali, sono aperte e non prevedibili, senza però aprire
possibilità ad un facile esistenzialismo da liceale. Il mondo descritto
dall’autore si articola attorno ad eventi storici e sociali
essenzialmente violenti, tra i quali la I Guerra mondiale rappresenta
un culmine per l’immensa portata di morte e lacerazione che lascerà. In
termini complessivi, quello di Céline è un mondo che deve parte del suo
sviluppo e del suo funzionamento allo sfruttamento del lavoro nelle
fabbriche e alle violenze del colonialismo, viaggi di conquista e di
modernizzazione spesso imposta in modalità tiranniche. Una serie di
crudeltà che sarebbero difficili da concepire per un uomo che fa
dell’immobilità il suo stato tipico, che fugge i viaggi, capaci di
narrargli una versione delle verità della Storia. Verità, quella che si cela dietro ai viaggi, che è rivelazione, come scrisse Claude Levi-Strauss nei Tristi Tropici, della “nostra sozzura gettata sul mondo”3.
* Questo scritto trae ispirazione dai lavori del Seminario “Il
canone europeo della letteratura” tenutosi nell’anno accademico
2007/2008 presso la Facoltà di Sociologia dell’Università Federico II
di Napoli
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note ::
1. Louis Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 2005.
2. È da ricordare come la sua tesi di laurea sia dedicata al Dr.
Filippo Semmelweis, colui che sconfisse la febbre puerperale, imponendo
ai suoi colleghi medici di lavarsi le mani prima di visitare le
puerpere. Louis Ferdinand Céline, Il dottor Semmelweis, Adelphi, Milano, 1975.
3. Claude Levy-Strauss, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano, 2004. |