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La lotteria della vita tra Tolstoj e i linker people 
di Daniela Fabro

tolstoj_garbo“Perdenti di successo”, secondo una felice definizione dello scrittore e critico letterario Alessandro Piperno, più arguto in questa seconda veste che convincente nella prima, i personaggi di Lev Tolstoj scommettono grosse somme alla lotteria della vita. Ma hanno quasi sempre la vittoria in tasca. 
Spesso, e non soltanto tra gli innamorati, “si gioca per vincere, ma chi vince è perduto”, come canta Francesco De Gregori nel brano Cardiologia: il che equivale a dire che quando gli dei lo vogliono punire realizzano tutti i sogni di un individuo. Infatti, sempre che i desideri soddisfatti siano motivo di autentica felicità, cosa gli resterà dopo?
Perdere per acquistare credito è il fondamento di tutte le mitologie romantiche dell’eroe bello e dannato. È lasciato dalla bellissima moglie, ma conquista l’amore della dolce e ingenua Nastasja, il perdente per antonomasia Pierre Bezuchov di Guerra e Pace1: ma non è questo forse il miglior guadagno per un’anima sensibile?

Anna Karenina2, l’emblema della donna perduta, esiliata dal consesso della buona società perché non ha resistito ai begli occhi del tenente Vronskj, non sarà forse capace di redimersi davanti al mondo con il suo ultimo gesto disperato? Un altro estremo esempio di successo personale, di vittoria di una perdente, e per di più donna, che sacrifica la vita e l’anima, ma riscatta il suo onore.
Nichilista negli anni della gioventù, e solo in seguito convertitosi alla religione, il romanziere russo dell’Ottocento troverà dopo la crisi mistica, verso la fine della sua esistenza, la soluzione dei suoi tormenti e dubbi: il paradosso si risolve per lui nella fede cristiana. Che è poi un modo per rispondere all’eterno dilemma, entro il quale si dipana il nostro essere nel mondo, tra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione.
Agire per contrastare povertà di mezzi e di spirito, schiavitù dal vizio e dall’alcol, sfruttamento dell’uomo sull’uomo, si sa, è quasi inutile. Anche se, di fronte agli irreparabili orrori della realtà, si può sempre, come indica Tolstoj sulla scia solidaristica evangelica, fare il bene per se stessi e per gli altri. Non per conquistarsi la ricompensa eterna, che non si può essere certi esistere, quanto per raggiungere la pace interiore e la serenità. Ed è forse proprio la scomparsa del valore di questi obiettivi ad aver messo la società contemporanea in bilico tra  ateismo devoto e laicismo senza idealità. 
Invece i personaggi di Tolstoj sapevano bene che una sfortunata mano di poker poteva significare la rovina di un giocatore; e una carestia, un aumento dei tributi da pagare per continuare a lavorare, o il richiamo alla ferma militare - che a quell’epoca in Russia durava venticinque anni e oltre - portare la disperazione anche nelle case dei più timorati mužjkì, i contadini legati alla terra del padrone, che vedevano così svanire quel minimo di benessere materiale su cui si fondava anche la loro rettitudine morale. Ma sapevano anche che dedicare la propria vita a Dio, pensando agli uomini, è meno santo che dedicare la vita agli uomini, unico modo per pensare veramente a Dio.
Così l’autore dei balli, della vita di società, dei circoli di Pietroburgo e di Mosca, delle campagne militari, è quello che meglio esprime la natura eroica, ma anche profondamente mite e sensibile, dei suoi personaggi romantici: pronti a morire per la patria, a sacrificarsi per lo zar, a innalzare sul più alto gradino la donna amata, a far carriera per dare un futuro ai figli, a liberare i loro contadini dalla servitù della gleba. E a compiere gesti di elevata saggezza ed umanità anche se in condizioni disperate e difficili.
Metafora della modernità, l’opera di Tolstoj è anche il racconto di una degenerazione morale. Non per nulla i suoi personaggi sono quasi sempre sotto lo scacco di un dramma sociale e personale. Però l’individuo è capace di non perdere fino in fondo la sua identità, e in questo consiste il suo successo.
Ma nell’Ottocento le condizioni di vita, sia dell’alta società dei nobili, degli junker, gli ufficiali di carriera, e dei proprietari terrieri; sia dei contadini, dei soldati e perfino dei servi, non costringevano le persone all’isolamento e alla perdita di radici di cui siamo testimoni ai nostri giorni. Ogni tragedia avveniva sotto lo sguardo di una comunità che rendeva più sopportabile il disagio e meno definitiva la condanna. 
Inutile sperare nella politica o nella società, secondo Tolstoj, ma nel racconto e nel dialogo. Nella dimensione comunitaria in cui si forma l’esperienza di ciascuno. Non occorre essere cristiani come lo fu lo scrittore degli ultimi Racconti3, quelli dalla fine degli anni Ottanta fino alla morte, avvenuta nel 1910, che descrisse il suo sentire in parabole, fiabe e leggende tutte ispirate alla religione, per comprendere la virtù dell’uomo che si rende protagonista della propria vita attraverso la solidarietà. Anche per l’etica laica di un filosofo anticonformista come Bertrand Russel “la vita retta è quella ispirata all’amore e guidata dalla conoscenza”.
Ma oggi, nell’incalzare di un quotidiano tutto psicodrammi e competizione, per un perdente, precario che sia, solo sul lavoro o nella sua esistenza complessiva, si prospettano ben poche vie d’uscita. Emozioni e ragione, da sempre regolatrici delle azioni individuali e delle interazioni sociali, sono spazzate via dalle leggi di utile, fretta, violenza e terrore. A esse si sostituiscono isolamento, disperazione individuale e depressione, frutti di quella paura che “mangia l’anima”, trasformando i reietti della società in aguzzini di vittime ormai così tanto deboli da non avere più nemmeno la forza di rivolgersi alla giustizia. (In)azioni di perseguitati e persecutori sono le due facce di una stessa medaglia: la perdita di significato di un’istanza ultima – l’anima, appunto, come vogliono i credenti, o spirito della natura e armonia dell’Universo, come ipotizzano i laici – capace di lenire l’ ansia dei limiti personali, primo fra tutti la morte.
Ma uno sguardo meno cinico, sfiduciato e disfattista sul futuro richiederebbe mediazioni sociali, scuola, istituzioni, famiglia e anche social network, in grado di restituire capacità progettuali a breve e lungo termine. Al di fuori della logica che ci ha “trasformati con i consumi che sono cambiati”, chiedendoci pesanti contropartite. Tra la spersonalizzazione indotta dalla realtà virtuale e quella di pubblicità, marketing e merchandising creatori, secondo la legge economica di Jean-Baptiste Say, della domanda per l’offerta delle aziende, questa seconda è senz’altro la più subdola. 
Quel tanto di “umano troppo umano” della psicologia dei personaggi di Tolstoj non è stato solo superato dalla (fanta)scienza della seconda metà del Novecento – con l’invenzione degli androidi, i robot forse capaci di “sognare pecore elettriche”, e di cyborg, gli uomini-macchina celebrati dalla saga di Matrix4 e costruiti oggi negli Usa, come Iron Man, un soldato invulnerabile – ma dalla pretesa della società dei consumi e della comunicazione in tempo reale di renderci felici con un click.

Quando invece dei media e delle merci l’utente è solo ostaggio, visto che, con buona pace di coloro che oggi parlano di “consumattori”, la parte in recita è decisa da chi del loro presunto protagonismo nei processi di scelta non sa che farsene, se non riempirsi le tasche.
Ma forse, come afferma Alessandro Baricco nel suo ultimi libro, I Barbari5, ci troviamo adesso sul crinale di una rivoluzione, di un mutamento, di una trasformazione epocale, per comprendere la quale avremmo bisogno di “unità di misura” diverse dall’anima borghese, che è stato quel terreno spirituale, lontano da Dio, e tutto interno all’uomo, inventato dai romantici dell’Ottocento come condizione necessaria (e sufficiente) a giustificare il potere di chi non era né nobile, né investito da un ordine superiore per esercitarlo. Questo è esattamente lo spirito di due secoli fa, quello dell’universo morale di Tolstoj, nel quale il dominio di una classe sull’altra si stemperava in grandi ideali e slanci verso il prossimo, in atti di filantropia e beneficenza, oggi si direbbe no profit, una  forma di altruismo che si ritrova nei personaggi per l’appunto borghesi della sua epopea.  
Un’epopea minore, quella dei Racconti, un microcosmo di piccoli-grandi uomini e degli ambienti dove vivono, campagna, città o teatro militare, in cui si consumano però dilemmi esistenziali eterni. Per i quali, in base alla fede, c’è una risposta sola. Anche se la complessità delle situazioni in cui lo scrittore fa agire i suoi protagonisti è degna, in molti casi, della migliore sceneggiatura di un film, e l’affresco della società russa dell’Ottocento delineato nelle sue pagine, preciso fin nei minimi particolari. La cui lettura richiede però un’applicazione e una fatica impensabili per i linker people, capaci di svolgere più azioni contemporaneamente e velocemente, senza approfondirne nessuna. Anche se non è detto che i loro nuovi modi di costruire un senso siano poi così insensati. 

 



:: note ::

1. Lev Tolstoj, Guerra e Pace, Garzanti, Milano 2003.

2. Lev Tolstoj, Anna Karenina, Garzanti, Milano 2008.

3. Lev Tolstoj, Tutti i Racconti, Mondadori, Milano 2005.

4. Andy e Larry Wachowsky, Matrix, USA, 1999.

5. A. Baricco, I barbari Saggio sulla mutazione, Fandango Libri, Roma, 2006.