“Perdenti
di successo”, secondo una felice definizione dello
scrittore e critico letterario Alessandro Piperno, più
arguto in questa
seconda veste che convincente nella prima, i personaggi di Lev Tolstoj
scommettono grosse somme alla lotteria della vita. Ma hanno quasi
sempre la vittoria in tasca. Spesso, e non soltanto
tra gli
innamorati, “si gioca per vincere, ma chi vince è
perduto”, come canta
Francesco De Gregori nel brano Cardiologia: il che
equivale a
dire che quando gli dei lo vogliono punire realizzano tutti i sogni di
un individuo. Infatti, sempre che i desideri soddisfatti siano motivo
di autentica felicità, cosa gli resterà dopo? Perdere
per acquistare
credito è il fondamento di tutte le mitologie romantiche
dell’eroe
bello e dannato. È lasciato dalla bellissima moglie, ma
conquista
l’amore della dolce e ingenua Nastasja, il perdente per
antonomasia
Pierre Bezuchov di Guerra e Pace1: ma non è questo
forse il miglior guadagno per un’anima sensibile?
Anna
Karenina2,
l’emblema della donna perduta, esiliata dal consesso della
buona società perché non ha resistito ai begli
occhi del tenente
Vronskj, non sarà forse capace di redimersi davanti al mondo
con il suo
ultimo gesto disperato? Un altro estremo esempio di successo personale,
di vittoria di una perdente, e per di più donna, che
sacrifica la vita
e l’anima, ma riscatta il suo onore. Nichilista
negli anni della
gioventù, e solo in seguito convertitosi alla religione, il
romanziere
russo dell’Ottocento troverà dopo la crisi
mistica, verso la fine della
sua esistenza, la soluzione dei suoi tormenti e dubbi: il paradosso si
risolve per lui nella fede cristiana. Che è poi un modo per
rispondere
all’eterno dilemma, entro il quale si dipana il nostro essere
nel
mondo, tra l’ottimismo della volontà e il
pessimismo della ragione. Agire
per contrastare povertà di mezzi e di spirito,
schiavitù dal vizio e
dall’alcol, sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, si sa, è quasi inutile.
Anche se, di fronte agli irreparabili orrori della realtà,
si può
sempre, come indica Tolstoj sulla scia solidaristica evangelica, fare
il bene per se stessi e per gli altri. Non per conquistarsi la
ricompensa eterna, che non si può essere certi esistere,
quanto per
raggiungere la pace interiore e la serenità. Ed è
forse proprio la
scomparsa del valore di questi obiettivi ad aver messo la
società
contemporanea in bilico tra ateismo devoto e laicismo senza
idealità. Invece
i personaggi di Tolstoj sapevano bene che una sfortunata mano di poker
poteva significare la rovina di un giocatore; e una carestia, un
aumento dei tributi da pagare per continuare a lavorare, o il richiamo
alla ferma militare - che a quell’epoca in Russia durava
venticinque
anni e oltre - portare la disperazione anche nelle case dei
più
timorati mužjkì, i contadini legati alla
terra del padrone, che
vedevano così svanire quel minimo di benessere materiale su
cui si
fondava anche la loro rettitudine morale. Ma sapevano anche che
dedicare la propria vita a Dio, pensando agli uomini, è meno
santo che
dedicare la vita agli uomini, unico modo per pensare veramente a Dio. Così
l’autore dei balli, della vita di società, dei
circoli di Pietroburgo e
di Mosca, delle campagne militari, è quello che meglio
esprime la
natura eroica, ma anche profondamente mite e sensibile, dei suoi
personaggi romantici: pronti a morire per la patria, a sacrificarsi per
lo zar, a innalzare sul più alto gradino la donna amata, a
far carriera
per dare un futuro ai figli, a liberare i loro contadini dalla
servitù
della gleba. E a compiere gesti di elevata saggezza ed
umanità anche se
in condizioni disperate e difficili. Metafora della
modernità,
l’opera di Tolstoj è anche il racconto di una
degenerazione morale. Non
per nulla i suoi personaggi sono quasi sempre sotto lo scacco di un
dramma sociale e personale. Però l’individuo
è capace di non perdere
fino in fondo la sua identità, e in questo consiste il suo
successo. Ma
nell’Ottocento le condizioni di vita, sia dell’alta
società dei nobili,
degli junker, gli ufficiali di carriera, e dei proprietari terrieri;
sia dei contadini, dei soldati e perfino dei servi, non costringevano
le persone all’isolamento e alla perdita di radici di cui
siamo
testimoni ai nostri giorni. Ogni tragedia avveniva sotto lo sguardo di
una comunità che rendeva più sopportabile il
disagio e meno definitiva
la condanna. Inutile sperare nella politica o nella
società,
secondo Tolstoj, ma nel racconto e nel dialogo. Nella dimensione
comunitaria in cui si forma l’esperienza di ciascuno. Non
occorre
essere cristiani come lo fu lo scrittore degli ultimi Racconti3,
quelli dalla fine degli anni Ottanta fino alla morte, avvenuta nel
1910, che descrisse il suo sentire in parabole, fiabe e leggende tutte
ispirate alla religione, per comprendere la virtù
dell’uomo che si
rende protagonista della propria vita attraverso la
solidarietà. Anche
per l’etica laica di un filosofo anticonformista come
Bertrand Russel
“la vita retta è quella ispirata
all’amore e guidata dalla conoscenza”. Ma
oggi, nell’incalzare di un quotidiano tutto psicodrammi e
competizione,
per un perdente, precario che sia, solo sul lavoro o nella sua
esistenza complessiva, si prospettano ben poche vie d’uscita.
Emozioni
e ragione, da sempre regolatrici delle azioni individuali e delle
interazioni sociali, sono spazzate via dalle leggi di utile, fretta,
violenza e terrore. A esse si sostituiscono isolamento, disperazione
individuale e depressione, frutti di quella paura che “mangia
l’anima”,
trasformando i reietti della società in aguzzini di vittime
ormai così
tanto deboli da non avere più nemmeno la forza di rivolgersi
alla
giustizia. (In)azioni di perseguitati e persecutori sono le due facce
di una stessa medaglia: la perdita di significato di
un’istanza ultima
– l’anima, appunto, come vogliono i credenti, o
spirito della natura e
armonia dell’Universo, come ipotizzano i laici –
capace di lenire l’
ansia dei limiti personali, primo fra tutti la morte. Ma uno
sguardo
meno cinico, sfiduciato e disfattista sul futuro richiederebbe
mediazioni sociali, scuola, istituzioni, famiglia e anche social
network, in grado di restituire capacità progettuali a breve
e lungo
termine. Al di fuori della logica che ci ha “trasformati con
i consumi
che sono cambiati”, chiedendoci pesanti contropartite. Tra la
spersonalizzazione indotta dalla realtà virtuale e quella di
pubblicità, marketing e merchandising creatori, secondo la
legge
economica di Jean-Baptiste Say, della domanda per l’offerta
delle
aziende, questa seconda è senz’altro la
più subdola. Quel tanto di
“umano troppo umano” della psicologia dei
personaggi di Tolstoj non è
stato solo superato dalla (fanta)scienza della seconda metà
del
Novecento – con l’invenzione degli androidi, i
robot forse capaci di
“sognare pecore elettriche”, e di cyborg, gli
uomini-macchina celebrati
dalla saga di Matrix4
e costruiti oggi negli Usa, come Iron Man,
un soldato invulnerabile – ma dalla pretesa della
società dei consumi e
della comunicazione in tempo reale di renderci felici con un click.
Quando invece dei media e delle merci l’utente
è solo ostaggio,
visto che, con buona pace di coloro che oggi parlano di
“consumattori”,
la parte in recita è decisa da chi del loro presunto
protagonismo nei
processi di scelta non sa che farsene, se non riempirsi le tasche. Ma
forse, come afferma Alessandro Baricco nel suo ultimi libro, I
Barbari5,
ci troviamo adesso sul crinale di una rivoluzione, di un mutamento, di
una trasformazione epocale, per comprendere la quale avremmo bisogno di
“unità di misura” diverse
dall’anima borghese, che è stato quel terreno
spirituale, lontano da Dio, e tutto interno all’uomo,
inventato dai
romantici dell’Ottocento come condizione necessaria (e
sufficiente) a
giustificare il potere di chi non era né nobile,
né investito da un
ordine superiore per esercitarlo. Questo è esattamente lo
spirito di due secoli fa, quello dell’universo morale di
Tolstoj, nel
quale il dominio di una classe sull’altra si stemperava in
grandi
ideali e slanci verso il prossimo, in atti di filantropia e
beneficenza, oggi si direbbe no profit, una forma di
altruismo che si
ritrova nei personaggi per l’appunto borghesi della sua
epopea. Un’epopea minore, quella dei Racconti,
un microcosmo di piccoli-grandi uomini e degli ambienti dove vivono,
campagna, città o teatro militare, in cui si consumano
però dilemmi
esistenziali eterni. Per i quali, in base alla fede,
c’è una risposta
sola. Anche se la complessità delle situazioni in cui lo
scrittore fa
agire i suoi protagonisti è degna, in molti casi, della
migliore
sceneggiatura di un film, e l’affresco della
società russa
dell’Ottocento delineato nelle sue pagine, preciso fin nei
minimi
particolari. La cui lettura richiede però
un’applicazione e una
fatica impensabili per i linker people, capaci di svolgere
più azioni
contemporaneamente e velocemente, senza approfondirne nessuna. Anche se
non è detto che i loro nuovi modi di costruire un senso
siano poi così
insensati.
::
note ::
1. Lev
Tolstoj, Guerra e Pace, Garzanti, Milano 2003.
2. Lev
Tolstoj, Anna Karenina, Garzanti, Milano 2008.
3. Lev
Tolstoj, Tutti i Racconti, Mondadori, Milano 2005.
4. Andy
e Larry Wachowsky, Matrix, USA, 1999.
5. A.
Baricco, I barbari Saggio sulla mutazione, Fandango
Libri, Roma, 2006.
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