Giacomo
Saviozzi (Lucca, 1975) ha fatto il grafico pubblicitario
fino al 2005. Poi, in quello stesso anno, ha pubblicato il libro
fotografico Scendo, cambio il mondo… e torno, una
raccolta fotografica in tempo di pace (Non Solo Stampa,
Pisa), dedicato ai movimenti pacifisti. Quest’anno ha dato
alle stampe il suo secondo reportage in volume, L’interruttore
del buio
(Morgana, Firenze), dedicato agli ex manicomi – e alla legge
Basaglia,
che quest’anno compie trent’anni. Lo intervistiamo
sul significato del
suo lavoro.
Il tuo libro esce, volutamente, a
trent’anni dall’approvazione
della Legge 180/1978, forse conosciuta meglio come “legge
Basaglia” dal
nome di Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano che la
costruì e ne
curò il varo. Basaglia si muoveva in una dimensione
fortemente
militante, frutto dello “spirito del tempo”, e
sull’onda dei movimenti
degli anni precedenti e della cosiddetta
“antipsichiatria”. Quanto
ritieni sia rimasto, di quello “spirito” e di
quella militanza? Il
mio lavoro in realtà è frutto di due anni di
ricerche. All’inizio
quando cominciai a pensare di realizzare un reportage sulla
“follia”
non sapevo nulla del trentennale. È stato un caso che mi ha
avvicinato
all’argomento. Più che il caso, come fare a dire
ciò che è caso e ciò
che non lo è? Da Lucca mi sono trasferito a Volterra circa
12 anni fa.
La mia attuale compagna mi portò un giorno a fare una
passeggiata per i
vialetti che circondano i padiglioni dell’ex manicomio.
Doveva essere
un incontro romantico, quei vialetti sono stati ripresi dai volterrani
per fare passeggiate, dagli amanti. Io disattesi le allora aspettative
romantiche e incuriosito da quelle strutture fatiscenti non seppi
resistere ed entrai. Ero completamente ignorante, nel senso che
ignoravo ciò che in realtà fosse la follia e
ciò che in Italia
comportasse. Per me fino a quel momento e per molti anni a venire la
follia era una sorta di condizione poetica. Vivevo in quella specie di
mitizzazione del folle. Amavo Baudelaire, Van Gogh. Da giovane
militante di sinistra non potevo che essere affascinato da Dino
Campana. Le mie letture sulla malattia mentale si limitavano alle
“libere donne di Magliano” del Prof. Tobino un
libro che nonostante sia
scritto molto bene mantiene ancora l’aspetto
“poetico” della malattia
mentale. Da allora però era entrato in
me il germe della
curiosità. Mi resi conto una volta dentro quei padiglioni
che ero in un
“non luogo” uno di quei posti dove lo
scandire del tempo assume un
significato altro. È come se sentissi ancora le grida di
dolore, la
schizofrenia. All’epoca non è che collegai queste
sensazioni alla
malattia, mi affascinava soltanto il posto, così tristemente
desolante
e allo stesso tempo affascinante. Non sapevo che quei muri trasudassero
ancora il fetore di vite spezzate dall’Interruttore
del buio,
come ho chiamato poi il mio libro. Per anni ho tenuto nel cassetto le
mie sensazioni, ho continuato periodicamente a entrare, di tanto in
tanto a fare qualche scatto senza pretesa, a
“raccogliere” sensazioni.
È come se l’umidità di quei luoghi
fosse entrata piano piano dentro le
mie ossa e invece di reumatismi avesse creato quella coscienza e voglia
di denuncia che ho poi compreso successivamente. Gli anni Settanta,
parafrasando Mario Capanna “Formidabili quegli
anni”, sono stati,
nonostante l’epilogo armato, un momento d’intensa
voglia di
cambiamento, la “fantasia al potere”. Gli studenti,
gli operai, interi
settori della società lottavano per “uno stato di
cose che debba essere
instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà
conformarsi. Per un
movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.
Ahimè, figlio
di quella cultura le cose non sono andate così. Anzi si sono
radicalizzate. Adesso che la “follia” è
entrata in me osservo con molta
più attenzione ciò che la circonda e mi accorgo
con rammarico che di
quello spirito, direi “basagliano”, ma sarebbe
riduttivo, con lui a combattere
l’imperante pensiero che voleva i “folli”
rinchiusi, c’era un intera generazione, c’erano
i fotografi Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, che con Morire
di classe
denunciarono le inumane condizioni in cui un’intera classe
sociale, i
poveri, la classe proletaria o sottoproletaria come si diceva allora,
si trovavano a vivere e morire. C’era l’amico
Silvano Agosti con Matti da slegare,
c’era Psichiatria democratica. Di quello spirito a mio avviso
n’è
rimasto ben poco e in pochi settori della società civile.
Adesso ogni
tanto si riaffaccia lo spettro della diffidenza, i mass media cercano
la notizia tra la miseria. In un mondo “migrante”
tutti sono diventati
un po’ più diffidenti. Quei formidabili anni delle
lotte studentesche,
dell’antipsichiatria hanno generato molto spesso false
aspettative e
molti dei protagonisti adesso sono direttori di giornale… e
che
giornali!
Di quegli anni ricordiamo anche film come
Family Life di Ken Loach (1971) e Qualcuno
volò sul nido del cuculo di Milos
Forman (1975). Film di denuncia e di “lotta”, come
si sarebbe detto
allora. Oggi, secondo te, per quanto hai visto girando per i manicomi
con la tua macchina fotografica, c’è ancora
necessità di denunciare e
combattere per la dignità dei “malati di
mente”? Certo che c’è
bisogno di lotta e senza le virgolette! Perché spero che di
lotta si
tratti, certamente non di “lotta armata” che
è stata la fine di un
movimento, ma di lotta sociale, di voglia di cambiamento. Ho
visto i
due film, e naturalmente fanno parte del mio bagaglio culturale, anche
se non rappresentativi del caso italiano. Girando per i manicomi si
percepisce desolazione e abbandono, perché così
sono quelli che ho
visitato. Ho usato quelle strutture per denunciare e raccontare il
passato e inevitabilmente mi sono “scontrato” con
il presente. Da
marzo, data in cui è uscito il libro, sto girando per
l’Italia per
presentazioni e incontri e mi capita spesso di ascoltare testimonianze,
vedere realtà. A volte quello che vedo sono persone
“giganti” che
lottano per cambiare le cose, per dare e ridare dignità a
una malattia
che risponde a una logica perversa: “se sei in grado di
produrre sei
sano, se non sei in grado di produrre sei malato”. Ho
ascoltato
testimonianze agghiaccianti, come quella di una ragazza di Cagliari,
suo padre prelevato nel clamore di una piazza è stato
rinchiuso sette
giorni e legato al letto del reparto psichiatrico (il primario
è stato
rinviato a giudizio) e lasciato morire. La sorella di una ragazza
è
stata dimessa con leggerezza e due ore dopo si è tolta la
vita, e
queste sono storie di un anno fa. In un paese civile quale dovrebbe
essere il nostro c’è gente che ancora
“vive” in strutture che sono in
tutto e per tutto manicomi, ci sono “luminari”
della medicina che
sostengono che la terapia elettrica non faccia male.
C’è a mio avviso
una nuova battaglia da intraprendere ed è quella della
definitiva
chiusura degli O.P.G. (Ospedali Psichiatrici Giudiziari ndr).
Come vedi materiale di denuncia ce ne è purtroppo
più che a sufficienza.
Delle tue foto colpisce la documentazione dei
frammenti – di
cartelle cliniche, di foto, di oggetti, frammisti ad altro o persi in
una solitudine desolante. Frammenti di storie non raccontate,
perché i
loro protagonisti non avevano le parole per raccontarle, o per
l’incuria degli uomini? A Volterra ad
esempio c’è la
corrispondenza negata, le cartoline, le lettere dei malati ai familiari
venivano censurate e il più delle volte non spedite Si sa
bene, che ciò
che è chiuso in una pagina di un libro, in un immagine,
esiste, di ciò
che non resta testimonianza se ne perde le tracce. Una legge dello
Stato prevedeva che gli effetti personali di un malato dopo la sua
morte fossero distrutti. Era come distruggere la prova della sua
esistenza. Ci sono piccoli cimiteri abbandonati lontani dai paesi,
lontani da quelli comunali, dove i malati venivano seppelliti. Questi
molto spesso presentano croci divelte, anonime. Ecco come per quasi un
secolo in Italia scomparivano le persone. Io penso che ciò
sia stato
sottovalutato dalla politica, dai media, e, perché no, dalla
storia.
Il tuo lavoro vede l’impiego sistematico
del B/N. Ritieni questa
scelta formale la più adeguata ad esprimere una relazione
tra il mondo
della follia e lo sguardo che lo osserva perché ne
sottolinea la
drammaticità, o perché la attenua? Oppure? Io
credo che il B/N
sia il linguaggio fotografico per eccellenza. Ci sono generi
fotografici, mi viene in mente lo still-life, quella fotografia al
“servizio” della pubblicità, che
naturalmente impongono l’uso del
colore perché destinati alle pagine patinate. Nonostante sia
stato un
grafico pubblicitario non sono mai riuscito ad esprimermi
fotograficamente con il colore. Non è una forma di snobismo
ma
piuttosto la convinzione che il B/N sia senza compromessi, che sia la
luce, con le sue ombre a “disegnare”
l’immagine. L’osservatore è
“costretto” a riflettere davanti ad
un’immagine, non viene distratto
dai colori. Sono le forme, il messaggio che catalizzano
l’attenzione.
Io cerco di praticare una fotografia che predilige il racconto, il
reportage. Per me scattare è un po’ come scrivere
un libro. Forse se
fossi stato in grado di scrivere avrei potuto fare anche lo scrittore
ma ahimè… Allora la fotografia diventa il mio
linguaggio. Credo in un
linguaggio diretto senza artifici, senza tanti fronzoli.
Nei tuoi viaggi per costruire il reportage da cui
nasce L’interruttore del buio
come si è sviluppata la relazione con le istituzioni? Hai
trovato
collaborazione, attenzione, o al contrario dubbi, diffidenza, chiusura? Tutto
sommato non posso lamentarmi dei rapporti intercorsi con alcune
istituzioni. Vabbè, certo alcune più sensibili
altre meno, ma è
normale. Quando ho iniziato non avevo messo nel preventivo che il libro
uscisse quest’anno che ricorre il trentennale dell’
approvazione della
legge. Ciò naturalmente ha favorito un certo interesse nei
riguardi
dell’argomento. Ho notato che l’interesse maggiore
per l’argomento
“follia” viene piuttosto dalla gente comune, che
molto spesso non
conosce i fatti, non sa cosa sia la legge
“Basaglia”, che addirittura
ignora le condizioni in cui molti malati erano costretti a vivere.
Così
ho scoperto che il mio libro poteva informare e non soltanto
celebrare. Molto spesso quando racconto nelle mie
presentazioni ciò
che ho incontrato, ciò che i testimoni mi hanno raccontato,
molta gente
mi guarda esterrefatta. Io credo che in Italia molto spesso si tenda a
dimenticare troppo in fretta, e ciò mi spaventa
perché credo che sia
importante la memoria.
Anche tu, durante il tuo percorso ti sei imbattuto in
Nannetti
Oreste Ferdinando, “ingegnere minerario astrale”,
in arte Nanof, suo
malgrado sbarcato nel Manicomio criminale di Volterra, autore di un
grande e affascinante graffito, documentato in passato in
più
occasioni. Sappiamo che, condannato all’incuria, sta
scomparendo. Pensi
che questa vicenda possa essere una metafora dell’attenzione
che la
società dedica ai “matti”, a coloro che
portano lo stigma? Ah!
Oreste Nannetti! Io amo chiamarlo il poeta. Per me quel graffito
è un
opera di una poesia incredibile. Oreste aveva capito inconsciamente che
tutto ciò che viene scritto all’interno di una
pagina esiste, ha
costruito così una ciclopica opera artistica. Un graffito
che in
origine riempiva 180 metri circa della parete esterna di un reparto
giudiziario del manicomio di Volterra. Io non l’ho raccontato
molto
all’interno del mio libro. Gli ho dedicato soltanto un paio
di scatti,
questo non perché non lo ritenessi importante, ma
perché credo meriti
un attenzione particolare. In passato ci sono stati interventi
interessantissimi, come non ricordare il bellissimo film di Studio
Azzurro? Sono stati fatti alcuni libri, è stato citato in
molte
riviste, perfino il museo di Art-brut di Losanna è
interessato.
Purtroppo le istituzioni locali se ne sono disinteressate completamente
lasciandolo a se stesso. Il mio lavoro sulla follia mi ha portato a
conoscere Susan Steinberg, una regista e produttrice della BBC di NY
con cui è nata una collaborazione per la realizzazione di un
documentario su Oreste, e ciò mi affascina molto, scavare
dentro il
significato del graffito, cercare notizie sull’opera e il suo
“creatore” mi piace tantissimo. Ogni mio reportage
ancor prima di
svilupparsi in fotografia si sviluppa nel mio studio, tra pagine di
libri, film, tesi. La mia atavica curiosità mi spinge ad
indagare prima
di scattare. Ed è un modo in cui mi trovo bene.
Il tuo percorso ti ha portato ad essere, da grafico
pubblicitario, fotografo impegnato in temi sociali. Il “buon
senso
comune” coglierebbe giusto il senso di un rovesciamento quasi
copernicano di prospettive. A noi viene in mente una riflessione
diversa: il sapere pubblicitario, finalizzato a convincere e orientare
ai consumi, può essere messo al servizio di operazioni
eticamente
più
raffinate? Non penso che il mio percorso di grafico
pubblicitario mi abbia influenzato molto sul modo di pensare, magari
è
un fatto più estetico. Il fatto di essere allenato alle
forme, ad una
corretta presentazione dei lavori mi ha spinto a fotografare con un
certo rigore, prestando attenzione alle regole. È ovvio che
amo anche
stravolgerle ma credo che per addentrarsi nello stravolgimento sia
utile acquisire una padronanza del mezzo molto sicura. L’aver
fatto il
grafico pubblicitario mi ha sicuramente aiutato a confrontarmi con il
messaggio, sul come veicolarlo. Credo che valga il detto:
“conoscere il
nemico per sconfiggerlo”. Non amo molto la
pubblicità nella sua
ideologia del consumismo. È vero però che per
deformazione
professionale, perché certe pubblicità a volte
sono capolavori di
grafica e, perché no, di regia, mi incuriosiscono e
finiscono per
essere l’unica cosa che seguo in tv. Ci sono state
pubblicità che sono
servite come talent scout e hanno “scoperto”
eccellenti attori o
registi. Ci sono pubblicità, basti pensare a quelle
“pubblicità
progresso” che sono fatte per veicolare messaggi positivi e
iniziative
benefiche, che a volte sono veramente affascinanti. Non conosco il
“dietro le quinte” della pubblicità
televisiva ma conosco a sufficienza
quello della carta stampata, e me li vedo quei giovani grafici
pubblicitari in uno studio come quello di Armando Testa a
“creare”, a
inventare nuove campagne pubblicitarie. Penso che in uno studio del
genere ci siano degli ottimi artisti. |