“Non posso dimenticare, ma posso perdonare”, confida generosamente
l’esergo che esprime la nobiltà del pensiero di Nelson Mandela e che il
regista e sceneggiatore afghano Siddiq Barmak, direttore dell’Afghan
Film Organization e dell’Afghan Children’s Education Movement, ha
scelto per introdurre il suo primo lungometraggio, Osama, vincitore, nel 2003, della Camera d’Or al Festival di Cannes e, nel 2004, dell’hollywoodiano Golden Globe Award come miglior film straniero. Drammatica
rappresentazione della condizione femminile nell’Afghanistan dei
talebani, quest’opera, girata da Barmak al suo ritorno in patria dopo
l’esilio in Pakistan, rappresenta un terribile atto di denuncia contro
un regime liberticida, espressione di un potere impietoso che ha
tradito il duttile spirito di modernizzazione e le spiccate capacità di
evoluzione che la religione islamica possiede1, per violarne
ignobilmente i valori più intimi. Contraddicendo l’affermazione
coranica che Adamo ed Eva furono creati da Dio della stessa materia e
di uno stesso “unico spirito”2, l’oscurantista egemonia talebana ha
negato la funzione sociale elevata e la missione sacra che la donna è
chiamata a svolgere, essendo, come sostengono le stesse teorie del
radicalismo islamico, titolare di diritti e di doveri, a lei assegnati
da Dio e coerenti con la sua costituzione biologica, mentale e
affettiva3. Vittime dei soprusi dell’efferata barbarie integralista, le
donne afghane, colorate icone senza volto, condannate, come presenze
fantasmatiche, all’invisibilità dai mortificanti abiti tradizionali,
hanno abitato un mondo che sembrava aver smarrito la ragione del suo
stesso essere.
“Mirra e incenso contro il malocchio per le fanciulle di
Samarcanda”, grida, con voce argentina, un giovanissimo e tenero
vagabondo, Espandi, aprendo la prima scena di Osama, facendo
roteare una vecchia scatola di latta fumante e saltellando, con
irrefrenabile vivacità, per le strade di una polverosa e spettrale
Kabul. Un reporter occidentale, del quale si intuisce la presenza
grazie alla presaga telecamera, destinato a esser giustiziato per aver
infranto il tabù di produrre immagini in un paese iconoclasta, inquadra
intanto una manifestazione di protesta di vedove imploranti il diritto
negato di lavorare e dunque di sfamarsi, un imponente, ondeggiante,
azzurro corteo di burka, che viene selvaggiamente soffocato dagli
spietati getti degli idranti. Osama è il falso nome assegnato dal
brioso Espandi a una spaurita ragazzina, che, per poter lavorare
e consentire alla madre e alla nonna di sopravvivere, è costretta a
travestirsi da maschio, affrontando una serie di rischiose
vicissitudini nell’inferno di un massacro senza fine. I magici
arcobaleni evocati dalle favole, nell’accogliente e calda penombra
domestica, sfumano improvvisamente, per non accarezzare più il
dormiveglia della fanciulla, quando i suoi splendidi capelli vengono
recisi da netti colpi di forbici, per mano della dolcissima e atterrita
nonna. In Osama, sospeso tra la cruda fedeltà del documento e
la sofferta passione della messa in scena, tra la scarna essenzialità
del dialogo e l’opprimente tensione del silenzio, si dipana una storia
poetica e brutale nella speranza che il sangue versato, a causa della
tirannia del giogo fondamentalista, possa cessare per sempre di nutrire
il suolo dei tanti campi di battaglia dell’Islam, rappresentati da
quella distesa cosparsa di monconi d’albero bruciacchiati, crepitanti
nell’aria immobile della smorta e opaca luce del giorno di Kabul. La
tragicità del reale afghano, che ha trovato una delle sue possibili
manifestazioni nella negazione della libertà di sguardo alle donne,
rigorosamente costrette a scrutare il mondo attraverso una griglia di
pesante pizzo, una grata di nere ombre che interseca l’aria, non
impedisce tuttavia di immaginare, al di là delle pietre, dei
calcinacci, delle lamiere contorte, una bellezza sepolta nelle rovine
di un paesaggio che fu un tempo fiabesco, mitico, leggendario. Il
dolore si diffonde dai corpi martoriati e dalle anime umiliate dei
personaggi del film ai luoghi ostili, al paesaggio brullo di quella che
fu un tempo la Kabul jan, l’amata Kabul, straziata e infranta,
dove non scintillano più torri e minareti, non esistono più “fontane da
cui gocce di diamante scrosciano su vasche di mosaico” e non
risplendono più “melograni dall’anima di rubino”4. Anche quando, però,
la forza travolgente degli accadimenti, l’asprezza indomabile delle
vessazioni e la violazione vergognosa dell’essere dominano la
dimensione estetica, sembra che Barmak non voglia lasciar sfuggire lo
splendore remoto ai ritagli delle inquadrature, e ne affida
l’espressione della nostalgia alla macchina da presa, capace comunque
di cogliere la nobiltà nella miseria, la dignità nell’angoscia e la
poesia nella disperazione.
Costretta, insieme a tutti i maschi del quartiere, a frequentare la
scuola islamica Madrassa, che è anche un centro di addestramento
militare, Osama, ignara delle modalità di comportamento e delle regole
che scandiscono le preghiere, commette imperdonabili errori, destando
insidiosi sospetti negli insegnanti. L’orrore consumato nei tortuosi
labirinti di fango, l’affannosa ricerca di nascondigli negli anfratti
di una terra desolata, gli angosciosi tentativi di confondere gli
sguardi e di negare la propria apparenza distruggono l’infanzia della
protagonista, ma non riescono ad annientarne il sogno ricorrente, che
la vede saltellante e leggera, gioiosa e libera, e che si ripropone
costantemente, interrompendo la drammaticità del flusso delle immagini
e sospendendo, almeno per qualche attimo, il terrore. Se
l’immaginazione rappresenta ciò che diverge
dalla certezza
della percezione, dalla solidità del quotidiano e dalla
concretezza
dell’esperienza, qui, nel mettere in scena nient’altro che
se stessa,
diventa l’unico strumento capace di restituire umanità,
l’unico modo possibile di vivere l’insopportabile, di
regalare agognata levità e generare effimera illusione,
illuminando,
con i propri riverberi, l’orrida oscurità degli effetti di
un potere
ottuso e ottenebrante. Di fronte a un violento fanatismo, stolto depositario di ogni giustizia e di ogni verità,
osceno in senso etimologico perché contrario alla rappresentazione,
alcune povere cose si caricano di senso, esprimono il reale attraverso
l’irreale e racchiudono una poesia scandita dal ritmo lento e
spasimante della temporalità di chi, dibattendosi in una spaesante
condizione di cattività, anela a ritrovare la propria essenza. Una
ciocca di capelli intrecciata, piantata in un vaso di terracotta,
custodito segretamente, e innaffiata con quel che rimane di una flebo
gocciolante, portata via dalla casa di un morto, disvela la forza
significante di miseri oggetti che richiamano il passato, schivano il
presente ed evocano il futuro. Per fugare i dubbi emersi sulla
propria identità e dimostrare disperatamente l’impossibile, Osama è
obbligata ad arrampicarsi sull’arido albero della scuola religiosa, che
sembra allontanarla dal rumoroso pericolo, accogliendola in un ovattato
e fugace silenzio premonitore, per poi smascherarne irrimediabilmente
la delicata fragilità. E quando, dopo esser stata crudelmente costretta
ad altalenare su un pozzo, barcollante e piangente, invocante, con
struggente disperazione, la madre lontana, viene riappoggiata al suolo
dai rozzi oppressori ormai certi del suo inganno, l’improvviso,
inequivocabile segno dello sbocciare della femminilità si mostra
pubblicamente, mortificandone l’infantile pudore, tradendone l’esile
speranza e trasformando quegli attimi di naturale celebrazione della
vita che pulsa in ineluttabile e orrida predizione di morte. In
quel momento si interrompe per sempre il vibrante e tragico gioco di
sospensioni, reali e immaginarie, della fanciulla, impossibilitata
ormai a librarsi nell’aria, anche solo col pensiero, e spinta invece a
rifugiarsi nell’oscurità di una botola della dimora in cui sarà
condotta, nel vano tentativo di sottrarsi alla vista del vecchio
mullah, direttore della scuola, al quale viene offerta come moglie da
una corte religiosa, che non la condanna alla lapidazione, ma a un
epilogo ancor più crudele, un’inesorabile e disgustosa reclusione a
vita in un disperatissimo harem. Invitata a scegliere il lucchetto
più finemente lavorato, offerto dal viscido marito, prima di vivere, da
innocente fanciulla, la prima notte di nozze e di chiudere per sempre
l’ingresso della propria stanza a tutti meno che al flaccido consorte
dalla barba caprina, negando definitivamente la propria presenza al
mondo, Osama sarà sacrificata a un destino di prigionia, che, nella
sofferenza dello smarrimento, non potrà non ricordarle le angosciose
parole sussurrate dalla madre: “Se solo questa figliola fosse nata
uomo. Se solo Dio non avesse creato la donna…”. Le donne afghane non potranno dimenticare. E non potranno neanche perdonare.
:: note ::
1. La questione richiederebbe un’ampia trattazione. In questa sede basti il rimando a Carl Heinrich Becker, L’Islam come problema, a cura di Giuseppe Di Costanzo, Rubbettino, Catanzaro, 2000, in particolare il cap. III.
2. Corano, versione letterale italiana a cura di Luigi Monelli, Hoepli, Milano, 1983, IV, 1 e VII, 189.
3. Cfr. Sayyid Qutb, Fi Zilal al-Qur’an, ed. riv. in 6 voll., 1981, vol. II, pp. 643, 645 (I edizione 1954). Si veda anche Youssef M. Choueiri, Islamic Fundamentalism, 1990, trad. it. di Loredana Drago, il Mulino, Bologna, 1993, pp. 163-166.
4. Saira Shah, The Storyteller’s Daughter, 2003, trad. it. di Vincenzo Vega, L’albero delle storie, Bompiani, Milano, 2004, p. 9.
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