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Io sono leggenda da
cinquant’anni, ma qualcosa è cambiato
di Roberto Paura | |
Mettere a confronto il recente film tratto dal romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda con il suo originale cartaceo, è qualcosa di molto più interessante del semplice elencare tutta una serie di differenze, tali da corroborare l’idea che il film di Francis Lawrence basato sulla sceneggiatura del premio Oscar Akiva Goldsman (A Beautiful Mind, Io robot, Il Codice Da Vinci) sia solo lontanamente ispirato al romanzo. Scritto nel 1954 da un maestro della contaminazione tra generi, Io sono leggenda era il veicolo di una ben precisa filosofia di sapore positivista che faceva del vampiro – soggetto privilegiato dell’horror più banale – un elemento antitetico al protagonista Robert Neville, ultimo uomo sulla Terra. Mentre fuori dalla sua casa i vampiri urlano, si uccidono tra loro, appaiono un branco di bestie senza identità, Neville all’interno si prepara la cena, ascolta musica classica e progetta il futuro. È solo apparente la differenza che Matheson propone all’inizio della storia: non passano che poche pagine prima che il lettore si renda conto che, in realtà, Neville e i vampiri sono molto simili, entrambi preda di pulsioni istintive che ne fanno lentamente perdere ogni traccia di umanità. Neville si ubriaca continuamente, non riesce a portare avanti nulla, ad un certo punto tenta persino il suicidio, sparando a casaccio ai vampiri ed esponendosi al loro attacco. Eppure le cose cambiano, il puro istinto di sopravvivenza ha la meglio. Quello che sembrerebbe essere il più basso livello dell’animalità – il desiderio di sopravvivere, piuttosto che di vivere – trasforma invece Neville in un uomo diverso, in un Uomo idealtipico. È nel confrontarsi con l’ineluttabilità della morte che Neville inizia a capire di non poter sprecare la propria vita, di dovervi dare un senso per non rischiare di diventare come i vampiri che combatte, non-morti per definizione e come tali incapaci di comprendere il vero valore della vita. Ecco che quindi Neville, uomo qualunque senza alcuna esperienza scientifica, decide di studiare e comprendere il perché di quello che sta accadendo. Prima lo subiva passivamente, accettando i dettami della superstizione: uccidere i non-morti con i paletti conficcati nel cuore, con le croci, cospargendo di aglio la propria casa, installando specchi. Ora, invece, decide di superare la leggenda, decostruirla attraverso lo strumento della ragione, l’unica cosa che distingue l’uomo dalla bestia. Si reca nella biblioteca pubblica e porta a casa diversi libri di fisiologia, anatomia, psicologia; acquista un microscopio elettronico e comincia a fare studi sul sangue dei vampiri; cerca di costruire teorie scientifiche che spieghino razionalmente le verità della leggenda. A poco a poco, Neville muta completamente: non beve più, acquista abitudini regolari, non prova più il lancinante desiderio sessuale che prima lo frustava. È diventato qualcosa di più di un uomo, appunto il suo idealtipo. Diversamente da quanto avviene nel film, e anche in 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (prima trasposizione americana del romanzo), Neville non cerca una cura per invertire il processo e ricreare l’umanità. Egli sa che questo è largamente al di là delle sue limitate ed umane competenze. Si getta quindi nella ricerca pura, disinteressata, apparentemente inutile: Neville stesso a un certo punto si sente frustrato dalla consapevolezza di aver raggiunto la verità troppo tardi. Eppure sono queste verità, o meglio la verità, a distinguere Neville dalla nuova umanità che si sta sviluppando. Ruth, la giovane donna che appartiene al gruppo degli umani-vampiri – coloro che riescono a convivere col male senza trasformarsi in folli ma mantenendo salde le proprie identità – viene inviata da Neville proprio allo scopo di strappargli le conoscenze che questi ha acquisito nel tempo. Pur convivendo col problema, i nuovi umani di Ruth restano nell’ignoranza, senza alcuna intenzione di ampliare i propri orizzonti e cercare, volendo, una cura definitiva che possa restituire all’umanità la vita di un tempo. Così facendo rompono del tutto con il passato che Neville rappresenta, con la civiltà nel senso che conosciamo; alla civiltà si sostituisce definitivamente la barbarie. È la stessa barbarie che Neville ricorda di aver incontrato, nel periodo della diffusione del contagio, in un grosso tendone sotto il quale si riuniva una folla ormai priva di ogni umanità, un branco senza volontà in preda ai deliri religiosi di un predicatore. La religione, a cui disperatamente si abbandonano tutti nel momento in cui crolla ogni certezza, è non a caso anche una delle debolezze mortali dei vampiri: convinti che il trasformarsi in non-morti sia una punizione divina, i vampiri muoiono alla sola vista di una croce o di una torah. La rottura che Matheson realizza nel romanzo tra la superstizione religiosa e la luce della conoscenza è completa. Questo tema è stato al centro delle riflessioni del regista e degli sceneggiatori del film Io sono leggenda. Intervistato a tale proposito, Will Smith ha affermato: ”Abbiamo dedicato centinaia di ore a parlare delle idee alla base del film. Ci siamo accostati al rapporto tra scienza e fede che individua il fisico Fritjof Capra, il quale elabora il concetto secondo il quale la scienza sta da una parte, la religione dall'altra. Secondo Capra la verità è un cerchio, scienza e fede si rincorrono e finiscono sempre col sovrapporsi. I fisici subatomici e i mistici capiscono veramente il mondo solamente quando si incontrano e si confrontano”. Conciliante a tale riguardo lo stesso regista, Francis Lawrence: “Una delle cose che ci è piaciuta di più nel realizzare questo film è stata la ricerca su come gli esseri umani combattano per andare avanti. Nel film la speranza del protagonista sta nella scienza, mentre quella di Alice nella fede. Alla fine le due cose si fondono perché è giusto che sia così”. Infine lo sceneggiatore, Akiva Goldsman, si sbilancia di più tra le due parti in gioco: “Abbiamo fatto tante ricerche per il film e gli scienziati che abbiamo contattato ci hanno detto che il motore all'interno dei virus è spesso un mistero e un virologo un giorno ci ha detto che là, nel centro, c'è Dio. È molto affascinante questa idea di trovare Dio nella scienza.” Eppure, cinquantaquattro anni dopo la pubblicazione del romanzo, questo nuovo Io sono leggenda proposto sui grandi schermi mostra che qualcosa è cambiato; e il film è la spia di come sia cambiata la società in questo lungo lasso di tempo e di come sia cambiata la percezione comune della dicotomia scienza/fede. Innanzitutto, la punizione divina: il morbo che spazza via l’umanità e trasforma una piccola minoranza di “sopravvissuti” in mostruosi vampiri è generato dalla follia prometeica dell’umanità che si illude orgogliosamente di aver trovato la cura per il “male finale”, il cancro. L’incipit del film è un’intervista alla dottoressa che ha scoperto il santo graal della medicina moderna modificando geneticamente il virus del morbillo. “Avete trovato la cura contro il cancro?”, chiede in conclusione l’intervistatrice. “Sì, l’abbiamo trovata!”, sentenzia superba la dottoressa. Il risultato che ci viene presentato subito dopo è un mondo distrutto. Quello che avviene quando si scherza col fuoco; questa è l’idea di fondo che traspare. Robert Neville è qui un medico militare, uomo-copertina del Times in quanto principale scienziato impegnato nello studio del contagio. Diversamente dall’omologo romanzesco non è affatto un uomo qualsiasi, un self-made-man che lentamente impara a usare la ragione. È piuttosto un uomo abituato a lavorare con gli strumenti della conoscenza, un esperto del settore. L’inversione di ruoli è evidente: mentre nel romanzo di Matheson Neville passa dall’ignoranza alla conoscenza e dunque dalla barbarie alla riconquistata civiltà, nel film il protagonista non trova alcuna soluzione o soddisfazione dalla pura conoscenza scientifica. È l’incontro con la giovane Anna, pia e devota madre di famiglia, che cambia tutte le carte in gioco. Non è un caso se la donna-vampiro trattata da Neville all’inizio del film con un vaccino che non dà esiti improvvisamente guarisce: Anna sostituisce alla fede nella scienza di Robert Neville la sua cieca fede in Dio, che nel suo discorso delirante a mo’ di Giovanna d’Arco gli è apparso in sogno e le ha detto di cercare la “Terra promessa”, dove sopravvive uno sparuto gruppo di uomini normali, eletti salvati dalla bontà celeste. La scena della guarigione della donna-vampiro appare come quella delle risurrezione di Cristo, dove Robert è un novello San Tommaso che crede solo in ciò che può essere sottoposto a una verifica empirica. Robert muore, sacrifica se stesso perché in qualche modo ha capito che non c’è più spazio per lui nella nuova società che sta nascendo. Quella sarà una società basata sulla fede, un nuovo Eden dove non esisterà più il peccato originale, mondato grazie al sacrificio di tutta l’umanità. Robert rappresenta il vecchio, ciò che è ancora legato al mondo caduto, quello della scienza e della tecnica fini a se stesse: due valori nel romanzo di Matheson, due mali assoluti nel film di Lawrence. In tutti i casi, sia nel romanzo che nel film, Robert Neville diventa una leggenda. Ma se in Matheson egli rappresenta l’ultima scheggia di razionalità ormai scomparsa e la sua mitizzazione simboleggia il fallimento dell’impresa disperata di decostruire la leggenda diventando egli stesso oggetto di superstizione, nel film Neville diventa leggenda in quanto è grazie al suo sacrificio che l’umanità può ricominciare a vivere. La fede diventa realtà, la scienza diviene leggenda. |