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Gli Usa sono un paese per vecchi valori... i dollari
di Maria D'Ambrosio

coenL’individuo è la categoria emergente, il prodotto di maggior successo della grande industria del moderno e del postmoderno. La sua esistenza, al di là di ogni ontologica propensione al Da-Sein, all’Esser-ci, è un disordinato flusso di coscienza che si riflette e prende forma nei molteplici spazi di vita che abita, attraversa, naviga e costruisce. Lo statuto mobile dell’identità dell’individuo, del cittadino metropolitano, corrisponde alla mobilità dei rapporti che questi stabilisce con i luoghi e con gli altri. La libertà di movimento, e quindi la possibilità di intrecciare legami anche al di fuori del proprio mondo di origine, segna per ciascuno l’estensione della propria mappa mundi che, così, segue itinerari non sempre già definiti. Un esempio e forse una metafora di questa mobilità (che qualcuno definisce anche come instabilità) è rappresentata dalla struttura delle metropoli di tutto il mondo (New York, Tokio e Shangai fra tutte): queste infatti si estendono lungo assi stradali perpendicolari che disegnano una fitta pianta reticolare che sembra invitare al transito e quindi a un continuo spostamento da una parte all’altra. Le strade invitano ad essere percorse, e velocemente. Le piazze, i fori, i templi, i teatri, le accademie, le arene hanno invece rappresentato sin dall’antichità classica il luogo pubblico che ciascuna città si è data per riunirsi a convegno, per incontrarsi e ‘fare comunità. La libertà individuale è un valore che si lega all’idea del movimento e del cambiamento e che, evidentemente, trova nella strada il suo topos1. L’appartenenza e la comunità sono valori che evocano permanenze e legami forti.  
Se si intende trovare un luogo di elezione per l’individuo, quello forse lo si può rintracciare negli Stati Uniti d’America che del loro self-made-man (l’uomo che si fa da sé) hanno fatto la loro stessa icona, uno slogan che rappresenta un mondo di valori su cui si sono costruite leggi, istituzioni, economie, cultura, e che ha prodotto sogni, il sogno americano, alimentato guerre e conquiste, radicato e diffuso il senso del business e del mercato.
L’America – gli Stati Uniti d’America - celebra i suoi miti e lo fa servendosi soprattutto di cinema e letteratura che, da sempre, hanno reso l’impero americano un modello e un sogno: il sogno di conquista, di forza, di libertà. Modello, sogno, impero, che con l’11 settembre 2001 abbiamo visto letteralmente e simbolicamente crollare. Ascesa e crollo, potremmo dire, di una confederazione di stati tenuti insieme ancora oggi dal mito del dio denaro, e prima dall’oro, l’argento, il petrolio. Oro, argento e oro nero che regolano da qualche secolo l’economia mondiale, facendo del dollaro poi la moneta di scambio da utilizzare per tutte le transazioni del mercato globale. Ora le cose sono cambiate, eppure i bigliettoni verdi nell’immaginario collettivo suonano ancora come simbolo di una potenza economica, sociale e culturale che esporta democrazia e sa garantire benessere per tutti. Dollari: ovvero l’archetipo, tutto americano, del potere e dell’avere come misura dell’essere. E dollari che tornano spesso nelle storie raccontate da scrittori e registi americani e che fanno da elemento narrativo chiave per animare o risolvere trame che vedono a duello il buono con il cattivo. 

L’amico col nemico. Il forte contro il debole.
Dollari dunque: la posta in gioco o meta da conquistare, misura del valore e della celebrazione dell’eroe. L’eroe americano, testimonial del consumo e del potere d’acquisto, che fiero e sicuro, e solo, attraversa a cavallo (e poi in treno, in nave, in moto, in auto) praterie, deserti e spazi immensi. Quasi senza confine. 
E c’è un legame strettissimo tra questi spazi e lo spirito, selvaggio, di un’America che rimane comunque inafferrabile nelle sue contraddizioni, nei suoi valori: nell’idea di giustizia che pure genera la pena di morte (oltre che un sistema penitenziario che  ammette la tortura), nel bisogno di sicurezza che produce ed esporta guerra (oltre che una diffusa e domestica abitudine alla detenzione di armi). È l’America liberale e liberalista che fa della centralità dell’individuo il modello societario dominante che pure fa i conti con differenti forme di malessere e di disagio, che lasciano tracce profonde, segno di una silenziosa produzione di follia e di violenza (non solo metropolitane). D’altronde, il paradigmatico pragmatismo americano fa rima con individualismo e modernismo, che insieme hanno reso la categoria del soggetto e della realtà come espressioni del loro presente, già carico del loro atteso futuro. Il presente di un uomo del quale non importa da dove venga, ma solo dove stia andando.
Sarà per questo che Cormac Mc Carthy, titola il suo romanzo – tremendo, la cui tremenda storia fa da soggetto e sceneggiatura dell’ultimo film di Joel e Ethan Coen – Non è un paese per vecchi. No Country for Old Men
Il romanzo di Mc Carthy è del 2005. Il film dei Coen è del 2007. Uscito in Italia nel febbraio nel 2008. Academy Award 2008 come miglior film, migliore regia, miglior attore non protagonista (Javier Bardem), migliore sceneggiatura non originale.

Non è un paese per vecchi. Ma quale paese. E quali vecchi?
Certo: lungo tutto il film, si avverte la firma del racconto di Mc Carthy. È la sua America, il suo Texas, che incontri e ti lascia senza respiro. Per poter assaporare tutto il suo gusto e retrogusto, amaro, che sa di follia e sa di violenza. E di morte. 
Eppure la maestria dei Coen nell’aderire così bene al testo di Mc Carthy, ovvero, in maniera sotterranea, a quella America la cui bellezza e vastità ti lascia un profondo senso di vuoto e di paura, sta nel proporre uno sguardo capace di cogliere pure l’umanità di tanta violenza o di tanta follia omicida. L’uomo, il cacciatore, solo, sotto un sole furioso che tramonta tra le montagne e copre i corpi esangui e rivela l’orrore della sete di denaro. Il denaro, i dollari, che tornano anche in questa storia a muovere i protagonisti e molti altri. E che smuove questioni più profonde: la sfida tra parole date come un giuramento. Il valore di una vita. La furia del pensiero che corre veloce come un proiettile di fucile. La falsità degli accordi tra spietati uomini d’affari, per niente disposti a dividere il bottino ma determinati a riappropriarsene quando questo arriva per caso e per errore nelle mani della persona sbagliata. Il nostro uomo.
Cosa vorrà dirci l’America con i suoi cantori contemporanei? L’America che racconta la banalità del male. E si consente di guardare ai suoi padri, di sentire il peso della loro storia e dei loro insegnamenti. I vecchi, quindi, che nel romanzo e nel film appaiono sono il padre e il nonno dello sceriffo-voce narrante. La Giustizia e la Legge, hanno quindi forse bisogno dei padri, delle loro origini per essere legittimate. Così come un paese di interrogarsi sulle proprie origini. Lo stesso paese che ha bisogno di sognare. E fa sognare lo sceriffo di questa storia, lo fa tornare indietro nel tempo, con suo padre, a cavallo per le montagne. Nel sogno il padre va più avanti e, nel buio e nel freddo, accende un fuoco.

È il sogno ed è anche l’ultima scena del romanzo e del film.
Certo, va detto, che sono il fuoco, il freddo e il buio che torneranno nel romanzo successivo di Cormac Mc Carthy, La strada. Ma è il fuoco che ciascuno prova ad accendere o a cogliere nello sguardo dell’altro. Ed è pure il fuoco che in tanto buio, vissuto e narrato, ciascuno prova ad accendere, senza aspettare di ‘trovare l’America’. Perché l’America che ci hanno raccontato forse non è mai esistita. Non si è ancora compiuta. Se uno dei suoi candidati alla Presidenza, Barack Obama, parla del colore della pelle, della sua pelle nera, come di uno stigma che ancora produce discriminazioni ed esclusioni.
Ma, Mc Carthy e i Coen, non parlano del colore della pelle dei protagonisti. Si intuisce siano tutte un po’ scurite dal sole del deserto. Ma più scura e nera è l’America che incarnano. Come scuri, e neri, non più verdi, e sporchi, di sangue, sono i dollari che si passano di mano in mano. 
Il denaro: quel forte e duraturo interesse che pare accomunare il genere umano e i suoi dannati affari. Che siano le guerre, il narcotraffico o altro. Sempre questione riconducibile a un malloppo, a un prezzo, a qualche milione di dollari.
Ma forse l’America dei Coen e di Mc Carthy si sta ancora chiedendo quanto è stato alto il prezzo di guerre come quella in Vietnam (o quella ancora in corso in Iraq e in Afghanistan): le ferite sono ancora fresche nella memoria dei reduci. Lo sguardo di Chigurth, l’assassino psicopatico del romanzo, ne è un esempio. È quello di una generazione cui è stata tolta la gioventù e che cerca una giustizia assoluta, una risposta al proprio bisogno di sognare. Ma anche una generazione cui è stato negato il diritto della vecchiaia per la necessità di dimenticare il passato che sa solo di dolore, orrore, e morte. Una generazione che forse ha trovato nel cupo e nel calore del sangue il segno che tiene unite vita e morte. Come la doppia faccia di una moneta con cui possiamo scommettere. E vincere. Ma non va sempre così perché in questo realtà e finzione si corrispondono: le storie non sono sempre a lieto fine. Non finiscono sempre come vorremmo. E questo è anche il motivo di tanta e diffusa paura che – come nelle storie western di Mc Carthy – però non impedisce di sconfinare, di sognare, di lottare. 


 

:: note ::

1. La strada come topos di una generazione ribelle, la Beat Generation, che sarà ereditato dalla cultura giovanile
degli anni Sessanta e Settanta, trova nel romanzo di Jack Kerouac On the road (1957, The Viking Press, New York, tr. it.,
Sulla strada
, Milano, Mondadori, 2007) il suo manifesto più famoso che contaminerà cinema e letteratura facendone
un genere di grande appeal per le nuove generazioni.