L’individuo è la categoria emergente, il prodotto di maggior
successo della grande industria del moderno e del postmoderno. La sua
esistenza, al di là di ogni ontologica propensione al Da-Sein,
all’Esser-ci, è un disordinato flusso di coscienza che si riflette e
prende forma nei molteplici spazi di vita che abita, attraversa, naviga
e costruisce. Lo statuto mobile dell’identità dell’individuo, del
cittadino metropolitano, corrisponde alla mobilità dei rapporti che
questi stabilisce con i luoghi e con gli altri. La libertà di
movimento, e quindi la possibilità di intrecciare legami anche al di
fuori del proprio mondo di origine, segna per ciascuno l’estensione
della propria mappa mundi che, così, segue itinerari non sempre
già definiti. Un esempio e forse una metafora di questa mobilità (che
qualcuno definisce anche come instabilità) è rappresentata dalla
struttura delle metropoli di tutto il mondo (New York, Tokio e Shangai
fra tutte): queste infatti si estendono lungo assi stradali
perpendicolari che disegnano una fitta pianta reticolare che sembra
invitare al transito e quindi a un continuo spostamento da una parte
all’altra. Le strade invitano ad essere percorse, e velocemente. Le
piazze, i fori, i templi, i teatri, le accademie, le arene hanno invece
rappresentato sin dall’antichità classica il luogo pubblico che
ciascuna città si è data per riunirsi a convegno, per incontrarsi e
‘fare comunità. La libertà individuale è un valore che si lega all’idea
del movimento e del cambiamento e che, evidentemente, trova nella
strada il suo topos1. L’appartenenza e la comunità sono valori che evocano permanenze e legami forti. Se
si intende trovare un luogo di elezione per l’individuo, quello forse
lo si può rintracciare negli Stati Uniti d’America che del loro self-made-man
(l’uomo che si fa da sé) hanno fatto la loro stessa icona, uno slogan
che rappresenta un mondo di valori su cui si sono costruite leggi,
istituzioni, economie, cultura, e che ha prodotto sogni, il sogno
americano, alimentato guerre e conquiste, radicato e diffuso il senso
del business e del mercato. L’America – gli Stati Uniti d’America -
celebra i suoi miti e lo fa servendosi soprattutto di cinema e
letteratura che, da sempre, hanno reso l’impero americano un modello e
un sogno: il sogno di conquista, di forza, di libertà. Modello, sogno,
impero, che con l’11 settembre 2001 abbiamo visto letteralmente e
simbolicamente crollare. Ascesa e crollo, potremmo dire, di una
confederazione di stati tenuti insieme ancora oggi dal mito del dio
denaro, e prima dall’oro, l’argento, il petrolio. Oro, argento e oro
nero che regolano da qualche secolo l’economia mondiale, facendo del
dollaro poi la moneta di scambio da utilizzare per tutte le transazioni
del mercato globale. Ora le cose sono cambiate, eppure i bigliettoni
verdi nell’immaginario collettivo suonano ancora come simbolo di una
potenza economica, sociale e culturale che esporta democrazia e sa
garantire benessere per tutti. Dollari: ovvero l’archetipo, tutto
americano, del potere e dell’avere come misura dell’essere. E dollari
che tornano spesso nelle storie raccontate da scrittori e registi
americani e che fanno da elemento narrativo chiave per animare o
risolvere trame che vedono a duello il buono con il cattivo.
L’amico col nemico. Il forte contro il debole. Dollari
dunque: la posta in gioco o meta da conquistare, misura del valore e
della celebrazione dell’eroe. L’eroe americano, testimonial del consumo
e del potere d’acquisto, che fiero e sicuro, e solo, attraversa a
cavallo (e poi in treno, in nave, in moto, in auto) praterie, deserti e
spazi immensi. Quasi senza confine. E c’è un legame strettissimo
tra questi spazi e lo spirito, selvaggio, di un’America che rimane
comunque inafferrabile nelle sue contraddizioni, nei suoi valori:
nell’idea di giustizia che pure genera la pena di morte (oltre che un
sistema penitenziario che ammette la tortura), nel bisogno di
sicurezza che produce ed esporta guerra (oltre che una diffusa e
domestica abitudine alla detenzione di armi). È l’America liberale e
liberalista che fa della centralità dell’individuo il modello
societario dominante che pure fa i conti con differenti forme di
malessere e di disagio, che lasciano tracce profonde, segno di una
silenziosa produzione di follia e di violenza (non solo metropolitane).
D’altronde, il paradigmatico pragmatismo americano fa rima con
individualismo e modernismo, che insieme hanno reso la categoria del
soggetto e della realtà come espressioni del loro presente, già carico
del loro atteso futuro. Il presente di un uomo del quale non importa da
dove venga, ma solo dove stia andando. Sarà per questo che Cormac Mc
Carthy, titola il suo romanzo – tremendo, la cui tremenda storia fa da
soggetto e sceneggiatura dell’ultimo film di Joel e Ethan Coen – Non è un paese per vecchi. No Country for Old Men. Il
romanzo di Mc Carthy è del 2005. Il film dei Coen è del 2007. Uscito in
Italia nel febbraio nel 2008. Academy Award 2008 come miglior film,
migliore regia, miglior attore non protagonista (Javier Bardem),
migliore sceneggiatura non originale.
Non è un paese per vecchi. Ma quale paese. E quali vecchi? Certo:
lungo tutto il film, si avverte la firma del racconto di Mc Carthy. È
la sua America, il suo Texas, che incontri e ti lascia senza respiro.
Per poter assaporare tutto il suo gusto e retrogusto, amaro, che sa di
follia e sa di violenza. E di morte. Eppure la maestria dei Coen
nell’aderire così bene al testo di Mc Carthy, ovvero, in maniera
sotterranea, a quella America la cui bellezza e vastità ti lascia un
profondo senso di vuoto e di paura, sta nel proporre uno sguardo capace
di cogliere pure l’umanità di tanta violenza o di tanta follia omicida.
L’uomo, il cacciatore, solo, sotto un sole furioso che tramonta tra le
montagne e copre i corpi esangui e rivela l’orrore della sete di
denaro. Il denaro, i dollari, che tornano anche in questa storia a
muovere i protagonisti e molti altri. E che smuove questioni più
profonde: la sfida tra parole date come un giuramento. Il valore di una
vita. La furia del pensiero che corre veloce come un proiettile di
fucile. La falsità degli accordi tra spietati uomini d’affari, per
niente disposti a dividere il bottino ma determinati a riappropriarsene
quando questo arriva per caso e per errore nelle mani della persona
sbagliata. Il nostro uomo. Cosa vorrà dirci l’America con i suoi cantori contemporanei? L’America che racconta la banalità del male.
E si consente di guardare ai suoi padri, di sentire il peso della loro
storia e dei loro insegnamenti. I vecchi, quindi, che nel romanzo e nel
film appaiono sono il padre e il nonno dello sceriffo-voce narrante. La
Giustizia e la Legge, hanno quindi forse bisogno dei padri, delle loro
origini per essere legittimate. Così come un paese di interrogarsi
sulle proprie origini. Lo stesso paese che ha bisogno di sognare. E fa
sognare lo sceriffo di questa storia, lo fa tornare indietro nel tempo,
con suo padre, a cavallo per le montagne. Nel sogno il padre va più
avanti e, nel buio e nel freddo, accende un fuoco.
È il sogno ed è anche l’ultima scena del romanzo e del film. Certo, va detto, che sono il fuoco, il freddo e il buio che torneranno nel romanzo successivo di Cormac Mc Carthy, La strada.
Ma è il fuoco che ciascuno prova ad accendere o a cogliere nello
sguardo dell’altro. Ed è pure il fuoco che in tanto buio, vissuto e
narrato, ciascuno prova ad accendere, senza aspettare di ‘trovare
l’America’. Perché l’America che ci hanno raccontato forse non è mai
esistita. Non si è ancora compiuta. Se uno dei suoi candidati alla
Presidenza, Barack Obama, parla del colore della pelle, della sua pelle
nera, come di uno stigma che ancora produce discriminazioni ed
esclusioni. Ma, Mc Carthy e i Coen, non parlano del colore della
pelle dei protagonisti. Si intuisce siano tutte un po’ scurite dal sole
del deserto. Ma più scura e nera è l’America che incarnano. Come scuri,
e neri, non più verdi, e sporchi, di sangue, sono i dollari che si
passano di mano in mano. Il denaro: quel forte e duraturo interesse
che pare accomunare il genere umano e i suoi dannati affari. Che siano
le guerre, il narcotraffico o altro. Sempre questione riconducibile a
un malloppo, a un prezzo, a qualche milione di dollari. Ma forse
l’America dei Coen e di Mc Carthy si sta ancora chiedendo quanto è
stato alto il prezzo di guerre come quella in Vietnam (o quella ancora
in corso in Iraq e in Afghanistan): le ferite sono ancora fresche nella
memoria dei reduci. Lo sguardo di Chigurth, l’assassino psicopatico del
romanzo, ne è un esempio. È quello di una generazione cui è stata tolta
la gioventù e che cerca una giustizia assoluta, una risposta al proprio
bisogno di sognare. Ma anche una generazione cui è stato negato il
diritto della vecchiaia per la necessità di dimenticare il passato che
sa solo di dolore, orrore, e morte. Una generazione che forse ha
trovato nel cupo e nel calore del sangue il segno che tiene unite vita
e morte. Come la doppia faccia di una moneta con cui possiamo
scommettere. E vincere. Ma non va sempre così perché in questo realtà e
finzione si corrispondono: le storie non sono sempre a lieto fine. Non
finiscono sempre come vorremmo. E questo è anche il motivo di tanta e
diffusa paura che – come nelle storie western di Mc Carthy – però non
impedisce di sconfinare, di sognare, di lottare.
:: note ::
1. La strada come topos di una generazione ribelle, la Beat
Generation, che sarà ereditato dalla cultura giovanile degli anni
Sessanta e Settanta, trova nel romanzo di Jack Kerouac On the road (1957, The Viking Press, New York, tr. it., Sulla strada,
Milano, Mondadori, 2007) il suo manifesto più famoso che contaminerà
cinema e letteratura facendone un genere di grande appeal per le nuove
generazioni.
|