Quando nel 1992 Daniel Dayan e Elihu Katz pubblicarono Le grandi cerimonie dei media1, definendo l’evento mediale come
categoria centrale nella definizione del nuovo statuto del rapporto fra
media e pubblico, i termini “globalizzazione” e “virtualità” non
godevano della diffusione attuale. Pure, i due studiosi colsero un
punto fondamentale, scegliendo come esempi, per articolare il loro
discorso, fra gli altri, il primo viaggio sulla Luna e le nozze del
Principe di Galles e Diana Spencer2. E sicuramente uno degli eventi
più importanti nella storia dell’umanità è stato lo sbarco sulla Luna
nel luglio 1969, come altrettanto significativo (anche se solo per la
storia dei media) è stato quel matrimonio – e la successiva morte della
principessa.
Paragonabile alla scoperta dell’America, lo sbarco lunare, e al
primo volo aereo, non solo per il superamento di un limite naturale
ritenuto invalicabile, ma per la rottura simbolica che ognuno di questi
eventi ha rappresentato. Con un paio di differenze, nel caso della
Luna: sbarcando sul nostro satellite, gli astronauti americani hanno
chiuso con la modernità e inaugurato il futuro, quello che solo
gli scrittori di fantascienza e gli studiosi più visionari avevano
immaginato; ancora, e forse cosa ancor più importante, lo sbarco lunare
è anche il risultato di un enorme progresso nello sviluppo e
nell’applicazione delle tecnologie della comunicazione, e il vero
evento fondativo del “villaggio globale”. Chiunque avesse un televisore
lo tenne acceso, in attesa della visione in diretta, seppur da
lontano, delle riprese dal modulo lunare; la partecipazione fu
assoluta, emozionata e totale. Chi assistette, si trovò di fronte a uno
di quegli avvenimenti che trasformano in pieno l’immaginazione in
realtà. O almeno questa fu l’impressione. Forse fu proprio allora che
la televisione cominciò a “uccidere la realtà”3. Sì,
perché a qualcuno il dubbio sulla realtà di
quell’impresa è venuto, o almeno ha provato ad
innescarlo.
Intanto, in un film del 1978, Capricorn One di Peter Hyams4,
si ipotizza che, dopo una lunga preparazione, la NASA, mentre sta per
lanciare verso Marte una navicella spaziale, a causa di un guasto è
costretta a annullare la spedizione, simulare e spacciare il falso
come realtà. Il film è sicuramente frutto del clima nato in America
dopo lo scandalo Watergate, e dà voce alla diffidenza montante nei
confronti delle comunicazioni di massa e delle manipolazioni che
possono realizzare. Ma non si può dimenticare che già nel 1975 era uscito negli USA We Never Went to the Moon,
di Bill Kaysing, pubblicato anche in Italia nel 1979, e che già
esprimeva gli stessi dubbi nei confronti del potere e della possibilità
di costruire, grazie alla tecnologia, una presunzione artificiale di
realtà5.
La domanda che si pone Kaysing, ex direttore delle pubblicazioni
tecniche presso la Rocketdyne Research, l’azienda che progettò e
costruì i motori dei razzi che apparentemente portarono le navicelle
Apollo sulla Luna, è, grosso modo, questa: “Siamo sicuri che l'uomo sia
veramente andato sulla luna? E che la missione lunare non sia stata una
truffa della NASA da 30 miliardi di dollari perpetrata per mezzo degli
ultimi ritrovati tecnologici, delle più spinte conoscenze delle
telecomunicazioni e dei migliori effetti cinematografici?”6 Il
problema in sé, a dire il vero, è abbondantemente ozioso.
Rischia cioè di generare una di quelle situazioni di regressum ad infinitum, come in La vita è sogno di Calderon de la Barca, quindi da evitare assolutamente. È
interessante invece da un altro punto di vista: quello dell’intreccio
dell’evento giornalistico sicuramente spettacolare, con un prodotto
della fiction altrettanto – almeno nelle intenzioni della produzione –
spettacolare, e poi dell’intervento di un critico che, in qualche
misura, dà voce alla diffidenza del “pubblico”. Il fatto è che l’allunaggio fu di per sé un
evento spettacolare, perché fu visto in televisione e perché toccava
uno dei nodi simbolici ed emozionali più profondi dell’umanità. Il film
di Hyams, il libro di Kaysing non fanno altro che rafforzare, ribadire
questa dimensione. Le stesse riflessioni si possono fare a proposito
della parabola di Diana Spencer, delle sue nozze e della sua drammatica
morte, visto che anche su questa sono state ricamate ipotesi di tutti
tipi – che coinvolgono anche direttamente, fra l’altro, figure legate
all’informazione: i fotografi, i giornalisti.
E così si fonda la fusione fra cronaca e fiction, fra informazione
ed estetica, nell’era del sapere per immagini, a fare da premessa
all’era del virtuale, a tenere salda e rinnovare la relazione fra media
e opinione pubblica. In effetti, alcuni aspetti del rapporto fra
informazione e pubblico messi in primo piano da questi esempi ci sono
sempre stati, sul piano della forma, su quello dei contenuti. Su
quello della forma, perché se “le masse”, il pubblico, è sempre stato
pronto a farsi prendere all’amo dalla notizia sconvolgente, dal
titolone iperbolico, nella stessa maniera il suo senso comune l’ha
fatto sempre, almeno un po’, dubitare delle informazioni trasmesse dai
media. Sul piano dei contenuti, perché sono pochi i temi fondanti,
radicali, che legano l’informazione al pubblico, e hanno a che fare con
gli archetipi più primitivi del nostro immaginario: Eros e Thanatos,
declinati in tutte le forme possibili del conflitto, della conquista,
del tradimento, dell’abbandono e della passione. E nel dubbio sulla
verità dello sbarco lunare, come in quelli sulla morte della
principessa Diana ne ritroviamo sicuramente qualcuno. Così,
grazie a quello che potremmo anche considerare come il “mito fondativo”
del superamento della Modernità, la conquista della Luna e l’ingresso
nella virtualità, ormai è diventato parte della nostra vita quotidiana,
della nostra cultura, della nostra visione del mondo associare sempre
più automaticamente il termine “giornalismo” al termine “spettacolo”,
addirittura inteso come “fiction”. D’altra parte l’informazione
giornalistica, nella sua pretesa di descrivere la realtà sociale e
fattuale, è sempre prosperata su un equivoco – su cui sarebbe ozioso
chiedersi se coltivato ad arte o meno: quello del rapporto fra la
“verità” e i punti di vista, le opinioni, le convinzioni.
La sociologia – disciplina che si occupa della stessa sfera, ad
esempio, nemica del senso comune com’è, ha già risolto da tempo la
questione: la realtà è un costrutto sociale, e quindi – possiamo
aggiungere – la verità, qualsiasi cosa voglia significare il termine, è
un fatto socialmente determinato. Ma qualche precisazione
significativa, piuttosto che liquidare la questione con un’alzata di
sopracciglia o un gesto della mano come quello che serve ad allontanare
un insetto molesto, vale la pena di farla. Intanto, il giornalista –
della carta stampata o dello schermo – è un emittente di messaggi
rivolti a destinatari che spesso sono lontani dal luogo dove si
svolgono i fatti di cui il cronista parla, e quando vi è abbastanza
vicino è difficile che abbia voce in capitolo. Poi, raramente questo
destinatario ha voglia di andare a controllare la veridicità di quanto
gli è stato riferito. Insomma, la dimensione giornalistica della conoscenza è – quantomeno – effimera, se non fungibile. Rischiamo
di cadere, tuttavia, con queste affermazioni, proprio in quella
dimensione di senso comune che vogliamo evitare, per cui si rende
necessario andare più a fondo, e cercare di spiegare (spiegarci) queste
affermazioni che sembrano così palesi. Partiamo da una premessa:
seppure il termine “fiction”, nel glossario della postmodernità
televisiva italiana, venga usato per indicare certe narrazioni seriali
televisive, in realtà in origine significa racconto di finzione,
narrazione: tutti i romanzi, i racconti, prima stampati, poi
audiovisivi (Brancato, 2007). E, in effetti, il giornalista racconta.
Racconta storie presunte vere, prese dalla realtà, dalla vita
quotidiana nei suoi aspetti tendenzialmente più piccanti, bizzarri,
grotteschi, feroci. Le notizie interessanti sono quelle che rompono con
la normalità, l’ordine, la regolarità, i costumi e gli usi correnti.
Quelle che hanno a che fare in qualche misura e maniera col perturbante. Sennò non sono notizie. E per far questo dovrà pure usare una grammatica.
Parente, naturalmente, delle grammatiche del racconto, così come
ipotizzate dagli studi sulla narrazione e la letterarietà. Questi
studi hanno precedenti solidi. Senza scomodare Aristotele, possiamo far
riferimento al Novecento, e a quegli studi e modelli che, partendo dal
formalismo russo si sono trasferiti nello strutturalismo e nelle
ricerche della semiotica. Partendo da Vladimir Propp, passando per
Roland Barthes e Tzvetan Todorov, per arrivare a Umberto Eco e altri.
Perché la narrazione ha le sue regole, che hanno a che fare con i
meccanismi di connotazione e denotazione, con le presupposizioni, con
le figure retoriche, con la pragmatica della comunicazione. Solo che
il giornalista, rispetto al narratore – che sia un romanziere, o un
regista – ha molti più vincoli. Non mi riferisco tanto alla deontologia
professionale, per cui dovrebbe raccontare storie vere, non solo
verosimili, quanto quelle legate alla gestione del tempo e dello
spazio. Anche in questo caso, queste due categorie sono sovrane. Il
giornalista ha poco spazio, su cui scrivere, se si tratta di un
giornale, o parlare, se si tratta di televisione o di radio, e ha anche
poco tempo a disposizione per comporre i suoi “pezzi”. Ma deve
fornire comunque tutte le informazioni necessarie perché il lettore,
l’ascoltatore, lo spettatore, capiscano. E quindi è costretto a usare
le figure retoriche: le iperboli, le metafore, ad esempio. E c’è
sempre il rischio che il destinatario del messaggio, come è logico,
prenda per referenziale ciò che è metaforico, iperbolico. Perché sta
consumando cronaca, non fiction.
E così si slitta verso la fiction, verso lo spettacolo. E la
distinzione fra le due sfere si riduce sempre di più. Il
fenomeno, naturalmente, si amplifica nell’era dei media
elettronici, e poi della simulazione, della virtualità.
Dell’iperrealtà, come scriveva Jean Baudrillard. E
non penso tanto alle “bufale” in senso stretto, alle notizie false
spacciate come vere. Come la famosa foto del cormorano inzuppato di
petrolio, per esempio. Quanto alle sovraesposizioni, alle
estremizzazioni dovute alla necessità di fare presto, di colpire subito
l’attenzione – quindi l’immaginazione – del destinatario. E così
torniamo ad una dimensione sempre più vicina alla fiction, nel senso di
una distanza dal reale che produce forse verosimiglianza, ma non
“verità”. Ancor più nell’era del digitale, in cui la manipolazione è
sempre più facile, perché è più che possibile costruire immagini
sintetiche, e/o modificare quelle catturate alla realtà. E posso
ragionare su due esempi, uno preso dalla cronaca di qualche anno fa –
ormai storia, con i tempi che corrono – uno preso dall’immaginazione
cinematografica.
Negli anni Ottanta in una scuola superiore della provincia
bolognese, avanti con i tempi da molti punti di vista, all’inizio della
primavera era abitudine organizzare una settimana, orgogliosamente, e
forse ambiziosamente, definita “di didattica alternativa”, in cui si
rompeva la logica dell’orario normale per organizzare dibattiti,
cineforum, laboratori. In questo dono che studenti e professori si
facevano – in quei tempi, in quei luoghi – non c’era nessuno degli
obiettivi o dei bersagli che poi si sarebbero fatti pressanti in
seguito: dispersione scolastica, legalità, e altro. Era un modo per
offrirsi qualcosa di diverso. Per cui, nel 1984 (serendipity?), fra proiezioni de Il cacciatore
di Michael Cimino, laboratori di lavorazione del cuoio, dibattiti sulla
pubblicità, venne inserito un dibattito sulla prostituzione cui
dovevano partecipare, insieme a un magistrato, uno psicologo, un
sacerdote (sic!), due prostitute, fondatrici a Pordenone di un comitato
per i diritti civili. La cosa, non si sa come, arrivò alla stampa. I
quotidiani non si fecero pregare a prendere le proverbiali lucciole per
lanterne, e di un topolino si fece una montagna. Articoli a stampa,
corsivi, dibattiti: due ore di discussione diventarono “una settimana
di lezioni di sesso”, la scuola si trovò ad avere due presidi, a
diventare da istituto per ragionieri a istituto per geometri. Insomma,
la verità si allontanò e si nascose. Gli studenti per una settimana
bloccarono la scuola, e tutto finì con una grande manifestazione
cittadina in un cinema bolognese (il Settebello: ancora serendipity?).
All’evento
mancò solo il gonfalone del Comune, e avremmo avuto una precoce
versione postmoderna di Bocca di rosa di Fabrizio De
André. A
pensarci bene, se – come sostiene qualcuno, e siamo nello stesso ordine
del discorso – la nascita della maturità mediale italiana è segnata
dall’episodio di Vermicino (la prima lunga diretta non stop della
televisione italiana) nel 19817, il battesimo del bisogno di reality show
avviene nella bassa emiliana immaginata dai media nella primavera del
1984, fra studentesse di Castelmaggiore e belle di notte di Pordenone,
a partire dall’immaginario provinciale di una italietta restia a
sparire, ben rappresentata da film come La liceale seduce i professori, con Gloria Guida e Alvaro Vitali8. Posso
a buon diritto misurare la distanza fra i fatti e l’affabulazione che
ne fece l’informazione, perché ero lì: ero uno degli insegnanti della
scuola. E feci una cosa: da buon sociologo della comunicazione (allora
in erba) proposi ai miei studenti di raccogliere i quotidiani, e
monitorare quanto e come l’informazione fornita differisse dalla realtà
delle cose. Da questo lavoro (i cui materiali conservo gelosamente)
nacque anche una pubblicazione a spese della Provincia di Bologna,
intitolata naturalmente Lucciole per lanterne9, e in cui
provavamo a definire una eventuale “grammatica dell’articolo
giornalistico”, le cui conclusioni ho sintetizzato più sopra.
Oggi, a distanza di tanti anni, altre riflessioni si affacciano. Intanto,
che l’applicare al formato dell’informazione come “racconto” le
grammatiche della narrativa, rappresenta solo un primo livello di
analisi. È necessario accedere ad un altro livello, quello della pragmatica della
comunicazione, e quindi di come il tipo di comunicazione che si
istituisce fra i media e il pubblico influisca sul rapporto fra loro,
producendo una relazione particolare, che incide in modo specifico sul
sistema costituito dalle intenzioni dell’emittente e dalle attese del
ricevente di messaggi. Ancora, diventa cruciale riflettere sulle
eventuali differenze fra allora e oggi, in termini di evoluzione di
questo rapporto, anche sulla base dell’enorme sviluppo che i media di
massa hanno avuto da allora. Nell’episodio delle lucciole a
Castelmaggiore è evidente la forza di una comunicazione che tocca un
interdetto potente, il sesso e tutto ciò che vi è collegato. I giornali
– e anche la TV – diedero la possibilità di scatenare
nell’immaginazione del pubblico sogni (inconfessabili) e incubi
(paranoici), giocando sull’intreccio che si sarebbe innescato fra detto
e non detto, fra comunicazione e metacomunicazione. Ma contemporaneamente sdoganarono lo stesso interdetto, aprendo la strada alla futura gestione da parte della TV del trash e dell’intimità, su cui prosperano reality e talk show. Il
tutto, sulla base di un antico meccanismo, che dalla sfera del magico
passa alla sfera della cronaca: “Non è vero ma ci credo” diventa “Non è
vero ma posso crederci”.
Perché sarebbe divertente se fosse vero, perché mi fa
piacere crederci, perché… perché no? Perché
anche se la cronaca pretende di parlare del mondo reale, in effetti
parla di mondi che non conosciamo direttamente, di cui abbiamo nozione
“per sentito dire”, molto più vicini agli universi del sogno e della
fiction, in cui tutto, dunque, è possibile. Perché, insomma, comunque tendiamo/possiamo immaginare che certe notizie presumibilmente sono vere. Dico presumibilmente, perché il problema reale è qui: nello statuto di verità che
assegniamo alle informazioni che riceviamo. E che oggi viaggiano sempre
più indissolubilmente insieme alle immagini che vediamo.
E qui ho bisogno di porre alcune premesse. Mi aiuterà il riferimento a un film, The Truman Show di Peter Weir, in particolare la scena in cui il regista della soap di cui Truman è l’inconsapevole star accetta di essere intervistato dal pubblico planetario che segue la trasmissione. All’intervistatore,
che gli chiede come è possibile che il giovane non si sia mai accorto
di nulla, Christof, il “creatore” di Truman, risponde: “E perché
dovrebbe? Noi accettiamo la realtà del mondo così come ci si presenta10. Una traduzione in senso letterale del concetto sociologico di “realtà come
costruzione sociale”, realizzata però attraverso la dimensione
produttiva dell’industria televisiva – e la complicità degli spettatori
– ai danni (o perlomeno all’insaputa) del protagonista di questa stessa
realtà.
Noi accettiamo la realtà del mondo così come ci si presenta… Questa è la frase chiave del bellissimo film di Weir. Nel
film la frase è relativa al fatto che per il protagonista è stata
predisposta una realtà materiale artificiale in cui viene collocato sin
dalla nascita, così da credere che sia la vera realtà. Scoprirà alla fine che le cose stanno diversamente. Fra
l’altro, l’indotto, per così dire, comunicativo del film è altamente
significativo. La pellicola è stata descritta come un riferimento a 1984 di
George Orwell
11, parlando di “Grande Fratello”, producendo così un doppio
errore: quello di scambiare un mondo opprimente e fondato sul controllo
collettivo con un mondo in cui una sola persona è eventualmente
oppressa, e in più è inconsapevole di far parte di un inganno. Altro
esempio della sciatteria e faciloneria della via giornalistica alla
produzione della conoscenza. I reality show, quelli veri,
come pure tutti quei programmi di confessioni in pubblico, di
esibizione dell’intimità, pongono semmai il problema della “verità”
degli eventi proiettati o narrati “fuori campo”, “dietro le quinte”,
realizzando una versione nuovissima del rapporto fra realtà e finzione12.
Per noi cittadini dell’Occidente abituati ormai a conoscere gran parte della realtà per sentito dire, la realtà è anche – se non solo – quella che ci viene trasmessa dagli schermi. Per cui, appunto, attribuiamo alle immagini uno statuto di verità sicuramente maggiore rispetto a quello che attribuiamo alla parola scritta o “detta”. Fra l’altro, questa presunzione di verità è con grande chiarezza sintetizzata da Rudolf Arnheim13. Noi siamo infatti abituati a dire: “Sento il suono di quel violino”, ad esempio, o anche “Sento l’odore di quelle rose”, ma diciamo anche “Vedo quell’albero”, non “Vedo l’immagine di
quell’albero”, anche se in realtà è corretta la seconda frase. Perché
fra noi e il mondo c’è sempre una mediazione, costituita dai nostri
organi di senso, ma anche dalla visione del mondo che abbiamo,
che è il frutto della socializzazione, del nostro inserimento nella
rete di significati che collettivamente la società in cui viviamo
costruisce e si dà.
E c’è un altro grosso “ma”. Già quando le tecnologie di registrazione e riproduzione delle immagini erano analogiche, era possibile “manipolarle”. Oggi, col digitale,
è addirittura possibile produrne di totalmente “di
sintesi”, segni del tutto privi di un referente reale. Possiamo
creare dei veri e propri idoru, il termine giapponese per idolo, di cui scrive William Gibson nel romanzo omonimo
14. A questo punto il dubbio su quello che vediamo diventa inestricabile, quasi metafisico, come – giusto per rimanere all’oggi – nella narrativa di Philip K. Dick, o come nel romanzo di Stephen King L’uomo in fuga
15. Perché,
mettendo da parte tutti gli entusiasmi sull’allargamento della
democrazia grazie a internet, alla rete, alla circolazione delle
informazioni, un dato rimane cruciale: Fin quando fra emittenti dei messaggi e loro intenzioni e
riceventi degli stessi e loro aspettative regnerà l’asimmetria attuale,
non potremo mai essere sicuri che le tecnologie della comunicazione
siano al servizio di una informazione completa e veritiera. Perché,
al di là di tutte le discussioni tradizionali sulla possibilità o meno
di avere una informazione veramente “obiettiva” – l’alibi da sempre
terreno di conflitto fra stampa, pubblico e altre agenzie - bisogna
accettare il fatto che la verità, come la realtà, sono sempre il frutto di una negoziazione che riguarda il senso da dare alle cose, e che avviene sempre a livello sociale. Tutto dipende da quanto la società – ormai globalizzata: la comunità degli uomini – partecipa effettivamente a questa negoziazione.
1. Dayan, E. Katz, Le grandi cerimonie dei media,
Baskerville, Bologna, 1993.
2. Nelle
pagine che seguono citerò indifferentemente eventi e dati
relativi all’Italia e all’Occidente in genere: tengo
conto del fatto che negli anni Ottanta del secolo scorso,
l’Italia è stato uno dei paesi in cui più
forte è stata la sperimentazione in ambito
televisivo, e quindi mediale, per il ruolo trainante che questo
medium ha avuto.
3. Cfr. A. Fattori, L’insostenibile trasparenza dell’anima, in “Quaderni d’Altri Tempi” n. 11.
4. P. Hyams, Capricorn One, USA, 1978.
5. B. Kaysing, Non siamo mai stati sulla Luna, Cult Media Net, Roma, 1997.
6. Cfr. www.marcostefanelli.com/luna/.
7. Il 13 giugno del 1981, alle 7 del mattino, milioni di telespettatori italiani assistono impotenti alla morte di Alfredino Rampi.
La Rai trasmette in diretta da ben 18 ore a reti unificate la
lenta agonia del povero bambino, precipitato alle 19 di due
giorni prima in un pozzo artesiano di soli 30 cm di diametro, ma profondo ben 30 metri, lasciato sconsideratamente aperto alle porte di Roma. È una grande tragedia, come purtroppo tante altre simili che capitano in ogni angolo del pianeta. Ma questo dramma ha qualcosa di speciale. Diventa un evento mediatico, un racconto per immagini del vano
tentativo di salvare una vita umana, che indirizza l'eterno flusso
televisivo sulla strada del dolore in veste di intrattenimento. Sul luogo della tragedia accorrono con il presidente Sandro Pertini
centinaia di persone che fanno una ressa inutile, nani e volontari dal
fisico minuscolo che cercano di calarsi nel pozzo per afferrare le mani
di Alfredino. Invano... Dal punto di vista narrativo, come nota lo storico Giovanni De Luna,
la diretta di Vermicino è il primo mix tra generi televisivi differenti, in particolare tra informazione e fiction: una inedita commistione tra le istanze relative al conoscere - legate all'informazione - e quelle relative al "partecipare emotivamente e passionalmente", tipiche della fiction (…) La tragedia di Vermicino non è servita dunque a riflettere
sull'opportunità di trasmettere casi dolorosi in tv, o meglio, su come
trasmetterli, ma è servita solo a sdoganare questo nuovo genere di
spettacolo basato sulla sofferenza. Questo strano caso di real tv conclusosi con la morte di Alfredino
non ha insegnato nulla ai responsabili della Tv: è stata solo il pass
per uno sciacallaggio senza altro fine che quello di far lievitare gli
ascolti. Da: Blogosfere, “1981, a Vermicino nasce la TV del dolore”.
8. Mariano Laurenti, La liceale seduce i professori, 1979.
9. A. Fattori, Lucciole per lanterne, suppl. al n. 6 di “Tinta Unita”, ITC di Castelmaggiore, 1985.
10. P. Weir, The Truman Show, USA, 1998, il corsivo è mio.
11. G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano
12. Cfr. S. Brancato, Senza fine, Liguori, Napoli, 2007, pagg. 6 – 7.
13. R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 2006.
14. W. Gibson, Aidoru, Mondadori, Milano, 1996.
15.
S. King, L’uomo in fuga, Sperling & Kupfer, Milano, 1997; Cfr. “Quaderni d’Altri Tempi” n. 5.
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