Trevor Watts (sax alto e soprano) è
l’ideatore di alcuni dei laboratori musicali che
nell’arco di quattro decadi hanno reso possible
l’emancipazione del jazz europeo da quello statunitense.
Pochi cenni biografici bastano per confermarlo. Insieme a John Stevens
e Paul Rutherford fonda nel 1966 lo Spontaneous Music Ensemble (SME),
punto di riferimento per tutti i musicisti dell’allora
nascente British Jazz e cardine della scena free europea. Vi
militano, tra gli altri, Kenny Wheeler, Derek Bailey, Evan Parker. Il
decennio di musica firmata SME è solo l’inizio di
un lungo percorso di ricerca. Quasi in parallelo, forma un gruppo in
grado di esprimere al meglio il proprio universo sonoro, gli Amalgam
che, in tredici anni di vita (dal 1967 al 1979) e dieci dischi, mettono
a punto un inedito mix di jazz, musica improvvisata, folk e world
music. Vi partecipano musicisti come Barry Guy, John Stevens, Harry
Miller, Colin McKenzie, Keith Rowe, Keith Tippett, e Liam Genockey.
Un’impresa che tocca i suoi vertici poco prima di chiudere i
battenti con il quadruplo Wipe Out e con Over
the Rainbow. In parallelo è impegnato in prima
fila nel grande progetto di Guy, la London Jazz Composers Orchestra. Vi
collabora sin da Ode, album del 1972. Chiusa
l’esperienza Amalgam, Watts apre una breve parentesi
(1978/79) in trio con John Stevens e Barry Guy. All’inizio
degli anni Ottanta, avvia un’altra grande avventura:
Moiré Music. Un progetto che negli anni ha oscillato dal
trio a un ensemble di 35 elementi, sempre caratterizzato da una
peculiare interculturalità, ancora una volta in netto
anticipo sui tempi. Musica densa di linee ritmiche/melodiche, complessa
e al tempo stesso gioiosa. Sulle stessa lunghezza d’onda
anche i collettivi The Drum Orchestra, The Celebration Band e le
collaborazioni con musicisti e percussioni africani che mettono al
centro ancora il ritmo. Negli ultimi anni ha ripercorso i
sentieri dell’improvvisazione più rigorosa, in
solo (come testimonia il solo World Sonic) o in
compagnia di Veryan Weston, con il quale ha registrato 6
Dialogues. Negli ultimi anni ha lavorato in duo con il
percussionista Jamie Harris (Live in Sao Paulo e Ancestry),
esperienza che può ora dirsi conclusa. Abbiamo iniziato da
qui la nostra conversazione.
Vuoi parlarci della tua
ultima tournée in Brasile con il percussionista Jamie Harris?
Nel 2005 hai registrato un concerto a Sao Paulo di
fronte a un pubblico entusiasta; musicalmente parlando, sono molti i
tuoi contatti con musicisti e paesi dell’America Centrale e
in generale Latina (il Messico, per esempio). Potresti dire che
l’America Latina è, artisticamente, la tua
“seconda patria”?
Questa mia ultima visita in Brasile, nel dicembre 2007, faceva
seguito a un invito al Jazz & Blues Festival al teatro SESI di
Sao Paulo. Il festival aveva in programma molti musicisti blues, per
esempio Stanley Jordan. Per noi era un ritorno, visto che eravamo
già stati in Brasile nel 2005 in una tournée che,
quella volta, ci portò in diverse città. La
nostra musica è stata accolta con molto entusiasmo, e del
resto i miei interessi prevalenti sono stati sempre il ritmo e la
melodia, in particolare un ritmo marcato, una cosa a cui tutti i
pubblici del mondo sembrano molto sensibili; e che in America Latina di
sicuro adorano. Inoltre sono stato in molti paesi dell’America
Latina quali la Bolivia, il Brasile, l’Ecuador, la Colombia,
il Messico, il Venezuela, la Repubblica Dominicana, e più di
una volta, anche lavorando con la mia Moiré Drum Orchestra
(sette elementi) e con cantanti/danzatori/attori del Teatro Negro di
Barlovento in Venezuela: abbamo formato un complesso di 35 elementi
sotto l’egida “Una Sola Voz” che era poi
quella del disco di Moiré Music da titolo With One
Voice. Abbiamo registrato per la BBC e ci siamo anche esibiti
ai festival del jazz di Saalfelden e di Crawley, in Gran Bretagna,
oltre a qualche ingaggio in Venezuela. Ne possiedo alcune registrazioni
private. Un’altra collaborazione importante è
stata con un musicista messicano, Gibran Cervantes, che si è
costruito un imponente strumento dotato di corde e zucche, che si
può percuotere, pizzicare, suonare con
l’archetto… Lui lo chiama lo Urukungolo, e il
complesso in cui lo suona, Enjambre Acustico Urukungolo. In origine vi
faceva parte il percussionista brasiliano Cyro Baptista. Abbiamo
suonato anche con dei musicisti indiani del luogo che erano
lì in tournée. Insomma, ho una relazione forte
con l’America Latina. Ora mi è stato chiesto di
suonare il saxofono in un progetto brasiliano, che
comincerà con un disco. Però una collaborazione
che mi ricorderò sempre è stata anche quella con
i musicisti africani del Sudan al festival di Khartoum.
Ti sono sempre piaciuti
i ritmi e melodie marcati, con un’attenzione speciale agli
elementi percussivi che si ritrovano nelle tradizioni musicali
d’Asia, Africa e America Latina. Si può dire che
il tuo duo presente con Jamie Harris sia una specie di sintesi delle
tue esperienze pregresse, soprattutto del Moiré Music
Ensemble che hai riunito nel 1982?
Il duo con Jamie è stato un distillato, uno studio
continuo di tutti gli elementi ritmici e melodici di cui mi sono
interessato dal 1982 in poi, direi. Questi includono naturalmente
influenze arabe islamiche, africane, latinoamericane, asiatiche e
celtiche. Comunque, dopo l’ultimo viaggio in Brasile, il duo
si è sciolto.
La Emanem ha appena
pubblicato una vecchia registrazione in duo inedita, Bare
Essentials dove tu, al sax soprano, suoni con John Stevens
alle percussioni e alla cornetta. Qual è la principale
differenza fra quest’esperienza (e altre con John Stevens,
p.e. Face to Face) e il tuo duo odierno con Jamie
Harris?
Le registrazioni pubblicate dalla Emanem le ho registrate io
nel 1973-1974. La differenza non è una sola, ma molte. Con
John Stevens era molto spesso questione di sperimentazione pura,
più vicina all’astrattezza del free,
sia pur entro un ambito rigoroso di principî determinati da
John. Quindi il ritmo, come normalmente lo intendiamo, e la melodia,
non ne erano parte intrinseca. Quanto alla musica, la descriverei come
puntillistica. E poi, da allora ho fatto tante di quelle cose che
quello che ho fatto con Jamie non ha la minima somiglianza con quelle
cose di allora. Con Jamie, le influenze erano piuttosto quelle
folkloriche che ho ricordato sopra che non le pratiche
dell’avanguardia moderna. Va però detto che il duo
con John sviluppò molte prassi che si usano ancora oggi,
nella scena dell’improvvisazione, da parte di altri
musicisti. Sono diventate parte di quel linguaggio.
Un altro tuo duo molto
importante è quello con il batterista Liam Genockey, ma non
ne esistono registrazioni. Vuoi descrivere brevemente questa esperienza?
Io ho delle registrazioni di questo duo, magari le
risentirò e chissà che non ne trovi abbastanza da
pubblicare un disco. Per me è stato un duo molti importante
anche perché è uscito da Amalgam. Liam aveva un
senso del ritmo molto forte, ma le sue radici sono nel rock e nel blues
e per questo il duo era molto diverso dai precedenti, ne senso che
lasciammo la musica molto aperta e libera, anche se aveva un contenuto
ritmo-melodico forte ma meno elaborato e strutturato che non il duo con
Jamie, e meno astratto di quello con John. Una via di mezzo.
Come ripensi alla musica
che hai fatto con lo Spontaneous Music Ensemble?
Non ripenso spesso al passato. Sono il tipo di persona che
guarda sempre avanti. Ma quel periodo è stato importante per
tutti noi che partecipavamo allo SME, perché ci permise di
trovare cose nuove e di sperimentare e attraverso il lavoro e la fatica
trovare voci personali come quelle di Evan Parker, di Derek Bailey, di
Paul Rutherford e, se posso, la mia stessa. Abbiamo combattuto e
litigato, ma si sa che le nascite spesso avvengono nel dolore.
Dicci qualcosa di due
tuoi amici che non ci sono più, John Stevens e Paul
Rutherford.
L’anno scorso sono andato al funerale di Paul. Mi ha
rattristato molto vedere quanto fosse diventato infelice. Anche John
era infelice negli ultimi anni, pareva che in qualche modo non avessero
più la forza di combattere.
John, in tutto quello che faceva, metteva un’energia
maniacale, e io avevo come la sensazione che corteggiasse la morte. La
sua vita era una tensione mai interrotta, così pareva; da
parte sua, Paul ha sempre sofferto di depressione. In realtà
sono tanti i musicisti con qualche problema, e in un certo senso la
loro creatività è da lì che viene.
Un’altra
esperienza fondamentale è stato Amalgam. Che giudizio dai,
oggi, di quell’esperienza “free” e
creativa?
Quelle esperienza d’improvvisazione libera o,
com’è il caso di Amalgam, di improvvisazione e di
libertà all’interno di una struttura musicale,
nonché la sperimentazione dell’aggiunta alla mia
voce di chitarra noise (Keith Rowe), basso funky
(Colin McKenzie) e drumming jazz - jazz-rock con
Liam, al momento sembrava perfettamente logica. Credo ancora che i modi
di fare musica siano molti, e ancora mi piacciono le combinazioni che
esorbitano dalla norma e dalla convenzione oppure, nel caso di
complessi convenzionali tipo sax, batteria e basso, che cercano di
interpretarli in maniera originale. Insomma, erano tutte manifestazioni
delle mie convinzioni sulla composizione musicale. Da questo punto di
vista quelle combinazioni sono strettamente collegate a quanto vado
facendo oggi.
La tua evoluzioni ti ha
portato dalla ferocia “free jazz” dei tuoi primi
dischi con lo Spontaneous Music Ensemble al più controllato
visrtuosisimo di quelli più recenti, quali Ancestry
con Jamie Harris. Com’è cambiato in tuo approccio
all’improvvisazione?
È cambiato così: da giovane mi
esercitavo molto ma ero persuaso (erano i tempi in cui
l’improvvisazione era più radicale di oggi) di
dover cominciare ogni mia esibizione con la mente sgombra, ricettivo a
ogni stimolo del momento. Oggi, mi esercito sempre, ma su cose che mi
possono poi servire nell’improvvisazione e per capire in ogni
dettaglio tutte le strutture che decidiamo di sviluppare. Se mi guardo
alle spalle capisco che il mio atteggiamento era piuttosto insolito,
nella fede che avevo nel cominciare, diciamo così, dalla
tela vuota. Altri musicisti, anche nel cosiddetto mondo
dell’improvvisazione libera, già facevano quello
che io faccio adesso. Lavoravano su cose che avrebbero potuto fare nel
contesto dell’improvvisazione. Ingenuamente, io aspiravo a
una forma più pura. Ne consegue che per i critici e il
pubbico era più difficile ascoltare e dare un giudizio di
valore.
Sei un pioniere
leggendario del jazz britannico e hai avuto relazioni musicali con
musicisti dall’avanguardia al mainstream. Hai suonato anche
con molti americani quali Steve Lacy, Archie Shepp, Don Cherry e altri.
Quali ti hanno influenzato di più?
Spero che mi si possa considerare, almeno, come un pioniere
del jazz europeo, non solo di quello britannico. Una relazione
importante si è verificata nel gruppo con il trombettista
Bobby Bradford, che precedette Don nel quartetto di Ornette. Ma quando
arrivai a suonare con questi musicisti le mie influenze le avevo ormai
ricevute. Cominciai ad ascoltare il jazz negli anni Quaranta,
perché mio padre aveva vissuto in Canada e negli Stati Uniti
fra gli anni Venti e Trenta. Anzi, aveva addirittura un passaporto
canadese, come ho scoperto solo ultimamente. Dunque in casa avevamo
tutti quei 78 giri di Duke Ellington, Tex Beneke, Artie Shaw, Nellie
Lutcher, Bob Crosby, Art Tatum ecc. Mi sembra insomma di aver sempre
vissuto con quella musica e, ora, di averne una comprensione immediata,
perché vi sono stato esposto e l’ho suonata
così a lungo. Preferisco quindi non indicare
un’influenza, ma piuttosto la somma dell’ascolto di
centinaia di musicisti in tutti questi anni. Sento una forte
affinità con questa musica, ma la musica mi ha sempre detto:
suona come te la senti, studia, beninteso, ascolta le cose del passato,
ma fa’ come ti senti. Questo è strano,
perché c’è una casa di produzione
indipendente, qui, che si chiama Somethin Else Production, che produce
tutti i programmi di jazz per la BBC, e hanno deciso, nella loro
infinita saggezza, che la mia musica non è più
jazz! Per questo mi trovo, di fatto, bandito dalla programmazione jazz
della BBC.
Sei d’accordo
che il jazz non debba avere di necessità un accento
americano per essere originale e innovativo?
Sì, ma senza le radici di questa musica non saremmo dove siamo oggi, per cui non mi piacciono gli europei quando
fanno gli antimericani tanto per nutrire il loro ego. Perché
non possiamo semplicemente fare il nostro verso, senza preoccuparci che
abbia o non abbia l’accento americano? Ci sono europei che si
scaldano davvero contro una musica che abbia questo accento americano,
se per caso la loro musica non ce l’ha. Credo che in fondo
nascondano un complesso d’inferiorità. Non importa
che cos’è, se suona bene è bello. Siamo
tutti influenzati da qualcosa, visto che non viviamo isolati e la
musica non appartiene a questo o a quello.
Diresti che, a questo
punto della tua carriera, stai ancora imparando?
È verissimo, ed è per questo che
è emozionante e, entro certi limiti, è ancora
sempre una battaglia. Ma è magnifico sentire di aver
conquistato giusto quel pizzico di conoscenza in più
rispetto a un momento prima. Io credo nell’apprendimento
perpetuo e sono sempre ottimista riguardo alla musica, anche se alle
volte le scelte di certi critici o di certi impresari mi lasciano
perplesso, anche se alla fine conta tutto poco, perché
è lo studio della musica che nutre la mia anima.
Cosa pensi
dell’elettronica usata nel jazz? Molti hanno sperimentato
quest’unione e hanno sviluppato una pionieristica
integrazione di jazz, elettronica, musica spontanea. È un
approccio che t’interessa?
Parliamo di elettronica, jazz e musica spontanea. Beh, doveva
succedere. Ma, come in ogni cosa, non c’è nulla di
radicale, una volta che si consideri che ogni cosa viene fuori da
qualcos’altra. Intendo dire che i primi semi di una cosa
simile potrei sostenere che si trovavano in gruppi come Amalgam,
perché se provi ad ascoltare il modo in cui Keith Rowe
tratta il suono in quella musica, e parliamo del 1979, per esempio in Ongoing
Situation, beh, i principî sono già
lì. O pensa a Jimi Hendrix nel rock, ai passi avanti che gli
ha fatto fare. Alla fine qui si tratta solo di tecnologie nuove,
più sofisticate. Come in ogni altra cosa, più che
gli ingredienti per sé conta come li si mette insieme. Ci
sono piatti che contengono gli ingredienti migliori ma non sono buoni:
dipende dal cuoco.
Per finire, puoi dire
qualcosa dei tuoi prossimi progetti o dischi? Qualche riedizione in
vista?
È appena uscito un disco del 1989 della Trevor
Watts Drum Orchestra, Drum Energy, per
l’etichetta Hi4HeadRecs, HFHCD 006. È ripreso live
a Londra. Poi, Nick Dart della Hi4Head pubblicherà un duo del
1999, un pezzo di musica improvvisata da un altro duo, Peter Knight al
violino e io. Il titolo sarà Reunion.
Peter è famoso come volinista “folk” e
soprattutto per il suo lavoro con il gruppo folk/rock Steleeye Span. Ma
lo si sente anche nella Drum Orchestra e in alcuni dischi della
Moiré Music. Infine, c’è una
registrazione del 1985 che la FMR sta per pubblicare, il gruppo
Moiré originale con dieci elementi. La prima volta
l’aveva pubblicato la ARC, l’etichetta di mia
proprietà, ancora in vinile. Oltre a Peter Knight vi suonano
Veryan Weston al piano, Lol Coxhill al soprano e contiene degli ottimi
duetti del percussionista africano Nana Tsiboe e di Liam Genockey.
Progetti: ora che abbiamo sciolto il duo con Jamie, mi trovo in un
momento in cui mi domando: “e ora?”. E quindi sono
emozionato. Nuovi regni da scoprire. Intanto, ogni giorno lavoro sulla
musica.
Traduzione dall‘inglese di Marco Bertoli
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