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Maurice Béjart:
pensiero e carne nell‘arte
di Linda De Feo |
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Io crederei solo ad un dio che sapesse
Così parlò Zarathustra, |
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Maurice Béjart, protagonista indiscusso del teatro di danza contemporaneo, ha svolto un ruolo fondamentale nella storia dell’arte europea della seconda metà del Novecento, coniugando ispirazioni avanguardistiche e tradizioni popolari, ripiegamenti introspettivi e proiezioni filosofico-letterarie, pulsioni estetiche e aspirazioni ideologiche. Questo autore raffinato ha percepito i mutamenti epocali in atto e ha incarnato tematiche libertarie, si è proteso verso i desideri delle folle e ha contaminato il valore auratico dell’arte, rivoluzionando e superando i canoni classici del balletto accademico, conservandone la ferrea disciplina, ma contrastandone l’obsolescenza e dissolvendo così il conflitto tra cultura d’élite e cultura di massa. Interpretando il trepidante desiderio di rinnovamento artistico affiorato nel secondo dopoguerra, Béjart ha creato forme coreutiche neoespressionistiche, articolate su musiche concrete costituite da suoni non prodotti da strumenti musicali, ma registrati, riproducenti le voci e i rumori della vita quotidiana. Sussurri e grida hanno dato sostanza sonora all’alienazione e all’incontrastabile incomunicabilità messi in scena in opere come Symphonie pour un homme seul, del 1955, su musica concreta di Pierre Schaeffer e Pierre Henry, balletto che ha rivelato Béjart come danzatore e come coreografo. I vibranti ballerini béjartiani hanno fluttuato e pulsato, espandendosi e contraendosi in appassionati virtuosismi, nel surplus di una semiosi illimitata, magmatica, che, in opere come Le Sacre du Printemps, diretta nel 1959 su musica di Igor Strawinsky, rinviava al recupero del valore apotropaico delle danze tribali. Rimandando al risveglio dei sensi, alla crudezza dell’eros, che scandisce il ritmo ciclico della natura, alla forza primigenia destinata alla perpetuazione della specie, Béjart ha affondato nella materia dell’universo un corpo custode di un sapere originario, produttore di un senso primordiale che precede la coscienza, “radicato nelle particelle e negli atomi della fisica, nelle pietre, nei pianeti, nelle molecole e negli organi della biologia1”. Attraverso l’inestricabile intreccio di pensiero e carne, ha riannodato dunque la conoscenza esplicita, attuata nelle forme della razionalità, corrispondente a mappe superficiali e culturali, alla conoscenza più arcaica, tacita e immediata, corrispondente a mappe antiche, cablate nella biologia dell’individuo2. Le creazioni monumentali, le composizioni plastiche, lo straordinario impatto visivo, la costruzione dell’effetto, arricchito dall’uso di tecniche multimediali, hanno rappresentato tentativi splendidamente riusciti di ridonare linfa a un’arte non alimentata esclusivamente dalla reiterazione della propria stabilità formale, ma capace di riflettere le dinamiche degli aneliti individuali e collettivi che animano i processi reali. Béjart ha imposto una nuova tipologia estetica, con ineludibili richiami alla valenza catartica della danza, al rituale collettivo, al misticismo orientale, alle meditazioni metafisiche, alle suggestioni etniche. La fusione degli orizzonti coreografico, lirico e drammatico ha realizzato l’idea, di ispirazione wagneriana, del teatro totale, dello spettacolo globale, dell’opera come luogo di concentrazione di più forme comunicative, in cui le singole arti concorrono al raggiungimento di un’efficace ricostruzione diacronica e sincronica di differenti immaginari. I balletti béjartiani, fatti di spettacolarità, eclettismo, sincretismo, sono nati dal bisogno di produrre per un pubblico esteso, individuando le esigenze di identificazione della massa fruitrice con modelli culturali alternativi e rispecchiando la complessità di immagini richiesta da consumatori che vivevano sulla propria pelle i ritmi nevrotici della realtà postmetropolitana. Béjart ha celebrato, attraverso la danza, lo sconfinamento della percezione mediale e la liberazione da stili di vita omologanti imposti dalle maggioranze costituite. È stato il perseguimento di un sovraccarico percettivo, esperibile attraverso un modo di vivere più intenso, ma sussunto nella concretezza del corpo, ad animare la ribellione giovanile degli anni Sessanta e Settanta, promossa da una generazione nata immersa nella cultura televisiva, la cui coscienza sociale era in parte una coscienza mediata3. La beat generation, attraversata da rimbalzi tattili, sensibilizzata da carezze elettroniche, scossa da “fremiti fermi”4, ha vissuto la schizofrenia della doppia informazione non genetica, quella alfabetica, lineare, visiva e quella proveniente dai media elettrici, simultanea, acustica5, giocando se stessa sul terreno della rivoluzione personale, dell’ampliamento dell’area della coscienza, dell’acuita intensità sensoriale. Reinterpretando in chiave pacifista Roméo et Juliette, del 1966, o offrendo una versione ispirata all’ideologia guevarista dell’Oiseau de feu, del 1970, i protagonisti béjartiani, rapiti dalle emozioni, in un gioco di tensioni e sospensioni, costituivano i doppi danzanti dei rivoluzionari sessantottini e riflettevano il desiderio di libertà di corpi che, ricondotti al centro della propria esperienza, non tolleravano più gli irrigidimenti provocati dalle consuetudini convenzionali. I ballerini si allontanavano dall’apollinea classicità per spingersi sul terreno dell’estasi dionisiaca, mentre abbandonavano gli spazi teatrali e trovavano collocazione nelle piazze, nei tendoni da circo, negli stadi, riconoscendo il territorio su cui esercitare la propria fascinazione e trasformando fenomeni artistici aristocratici in coinvolgenti spettacoli di massa6. La titanica aspirazione all’immortalità, la bruciante ansia esistenzialistica, la violenta ripercussione del nulla, il dilaniante dissidio con le paure ancestrali, l’orgiastica furia della passione hanno animato un immaginario scatenato dall’esplosione della vita, ma anche dall’evocazione della morte, dalla rivendicazione della sessualità, ma anche dall’angoscia della malattia, come è avvenuto, nel 1997, ne Le Presbytère n'a rien perdu de son charme, ni le jardin de son éclat, su musica di Mozart e dei Queen, il grande successo pop dedicato alle vittime dell’efferatezza dell’AIDS, “metafora epocale”7 materializzata nella quotidianità, che ha trascinato l’uomo nel vortice catastrofico di desideri che l’hanno ucciso. Nell’evocativo montaggio del finale del film di Claude Lelouch Les uns et les autres, del 1981, si incastona perfettamente la mitica immagine ambivalente di Jorge Donn, che, palpitante e seminudo, balla l’incalzante ritmo dell’ardente e sanguigno Bolero di Maurice Ravel, stagliandosi su una luccicante Parigi dominata dalla Tour Eiffel, simbolo dell’effimero che diventa permanente, dell’arte che si trasforma in merce e della vita che si fa spettacolo. Indotti a riflettere sul senso dell’opera di Béjart, nel suo praticare la danza come rigore ascetico e come travolgente istintualità, nel suo nutrire le opere di esperienza vissuta che continua a vivere, nel suo mescolare sublimata trivialità e iperrealistica fisicità, ascoltiamo il racconto di un corpo non antagonista dell’anima, percepiamo l’espressività primitiva e al contempo mediata dall’astrazione della tecnica e cogliamo l’impetuoso, implacabile credo in qualche dio che deve essersi servito proprio di lui per vedersi danzare. 1. Giuseppe O. Longo, Il nuovo Golem, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 98. 2. Cfr. Id., Il simbionte, Meltemi, Roma, 2003, pp. 70, 41. 3. Cfr. Joshua Meyrowitz, No Sense of Place. The Impact of Electronic Media on Social Behavior, 1985, trad. it. di Nadia Gabi, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna, 1995, p. 217. 4. Gabriele Frasca, La scimmia di Dio, Costa & Nolan, Genova, p. 161. I corpi degli spettatori televisivi emulano azioni, interpretano gesti, posture, movimenti colti sullo schermo, mediante una forma di mimica sensomotoria, una sorta di risposta espressa dalla tensione dei muscoli, un “effetto di submuscolarizzazione”. Derrick de Kerckhove, The Skin of Culture, 1995, trad. it. di Maria Teresa Carbone, La pelle della cultura, Costa & Nolan, Genova, 1996, p. 23. 5. Cfr. Marshall McLuhan, Understanding Media, 1964, trad. it. di Ettore Capriolo, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano, 1986, pp. 101, 103, 105. 6. Se è vero che l’autore, elaboratore di dati messi socialmente in memoria, retroagisce a un background antropologico-culturale, e alle strutture categoriali che regolano la coscienza collettiva, è vero anche che sul potere di un testo, nel momento in cui la fruizione ne accende e ne moltiplica i significati, manifesti o latenti, sembrano convergere tutte le teorie sul concetto di finish che il consumatore assegna alla merce, nel quale è dato rinvenire una forza costitutiva dell’intero ciclo produttivo. Cfr. Alberto Abruzzese, Verso una sociologia del lavoro intellettuale, Liguori, Napoli, 1979, pp. 184-185; Materiali di sociologia della letteratura, E. DI. SU., Napoli, 1992, p. 7. 7. Alberto Abruzzese, Metafore della pubblicità, Costa & Nolan, Genova, 1988, p. 73. |