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Il giudizio dei mostri. Il fantastico italiano e i suoi lettori | seconda parte | di Vittorio Frigerio
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Pare qui di trovarsi davanti ad un’illustrazione
dell’indecisione del fantastico delle riviste studiate da
Foni, dove sentimenti e immagini sfumano nella vaghezza, dove
soprattutto ci si “appaga” a buon conto
d’evocazioni schematiche alle quali si fa finta di credere,
per stare al gioco. Allora, il “sideshow”,
che funziona come uno dei moduli d’ispirazione essenziali di
questo genere di racconti, appare come una metafora convincente di
quella “paraletteratura” che di
lui si nutre5.
E qui l’analisi di Foni ritrova certi
aspetti della critica di Zolla sottolineando la capacità di
questo genere di comunicazione di sorpassare il discorso razionale,
creando situazioni di comunicazione distorte dove
l’“andare oltre”, la scoperta
d’altre realtà, promessa dalla finzione, diventa
al contempo una perdita di realtà vissuta:
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Tramite la
comunicazione visiva (i sempre esagerati banner),
verbale (il mirobolante lessico dell’imbonitore) e un
linguaggio non verbale capace di superare la soglia
del razionale, lo spettatore partecipa allo stravolgimento delle leggi
naturali e sociali, a una messinscena che è però
“trasgressiva” e “regressiva”
(Foni, 298).
L’aspetto regressivo traspare in numerosissimi esempi nelle narrazioni riassunte o citate da Foni, nel ritorno “alla primitiva condizione ferina” dell’uomo “nelle giungle urbane dei ‘misteri’” (Foni, 93), nel confondersi sadomasochista dello spettatore con l’oggetto della sua fascinazione e del suo ribrezzo – le figure di cera, per esempio, con le quali il lettore desidera in fondo oscuramente immedesimarsi – la “materializzazione” del trascendente offerta dallo spiritismo che mette alla portata di chiunque il contatto con l’aldilà attraverso semplici procedimenti meccanici. L’abbondanza stessa di queste finzioni nella cultura popolare dell’epoca esaminata – abbondanza in seguito dimenticata dalla storia letteraria, ed effettivamente occultata dalla rappresentazione del fantastico italiano come raro passatempo di pochi autori di nicchia – solleva tuttavia alcune questioni che esulano forse dalla sfera stretta della letteratura, ma che meritano d’essere esaminate se si concede che la letteratura, come ormai dimostrato da studi decennali, è inseparabile dal sociale6. Appare infatti quasi stupefacente che una produzione così considerevole e così estesa, largamente apprezzata e richiesta da vasti strati della popolazione, abbia potuto svilupparsi durante gli stessi anni che hanno visto la guerra italo-turca e la colonizzazione della Libia, la Prima guerra mondiale e i suoi immani massacri, l’ascesa del fascismo e la conquista dell’Etiopia, e che tali avvenimenti non vi abbiano lasciato nel migliore dei casi che tracce infime. In quanto a incubi, e oltretutto largamente condivisi grazie a quella notevolissima conseguenza dell’unità nazionale che è stato il servizio militare obbligatorio, si fatica a trovare di meglio. Tuttavia, nessuna allusione a essi traspare da questi testi dove paura, terrore e fascino si sprigionano esclusivamente da una gamma limitata di situazioni, coniugate con maestria in mille modi diversi e pur sempre identici da tanti autori spesso meno inesperti di quanto si possa credere, ma comunque uniti in ciò che appare come una scelta coerente di distacco dal reale. Ma non è in fondo ridicolo rimproverare al fantastico la sua distanza dall’esperienza quotidiana? O suggerire, senza neppur credere in qualche oscura teoria della cospirazione, che il mistero tradizionale (esso stesso per lo più in realtà vuoto di significati) sia rimpiazzato dalla semplice mistificazione, che la “magia” descritta dai racconti delle riviste agisca come una magia nera sullo spirito dei lettori, che un genere intero sia puramente distrazione narcotica? In ciò almeno, per tornare un’ultima volta a Zolla, la letteratura fantastica delle riviste popolari non si è distanziata per nulla da quella delle grandi firme rispettate dalle istituzioni e dalla critica: I romanzieri italiani hanno offerto i simboli del male al loro popolo? Assai di rado. Chi ha detto come furono sradicati i contadini italiani anche quando restarono sulla loro terra? Chi ha dettto come furono distrutte le comunità dall’unificazione? Chi ha detto l’orrore dell’emigrazione nelle Americhe, la tassa sul macinato, la coscrizione obbligatoria come furono di fatto: piaghe d’Egitto, sterminio di primogeniti e distruzioni di raccolti e riduzioni in servaggio? Chi ha detto che cosa fu la crudeltà della borghesia italiana, lacrimosa edificatrice di obbrobri di marmo, invasione di Unni? (Zolla,132) Se nessuno ha detto questo, né i grandi né i piccoli, né i cultori dell’“art pour l’art” sempre ben visti dalla borghesia (e ancor oggi dalle antologie), né i fabbricanti dell’industria culturale altrettanto ben accetti, potremmo perlomeno accontentarci di aver identificato un campo dove “alto” e “basso” si ritrovano in perfetta uguaglianza. Al di là di questa semplice equivalenza nella futilità, viene più spontaneo aderire all’opinione di Claudio Gallo, che ritiene che “alcune di queste opere, metaforicamente, offrono un’immagine non paludata della società in cui viviamo, ne comprendono meglio le angosce, i problemi e i travagli7” (Foni, 309). Le maschere consunte della narrativa di genere evidenziano molto di più di quanto non celino, e i mostri delle fiere esprimono senza remore i loro giudizi impietosi sul pubblico che li osserva strabiliati, così come su chi da loro si distanzia, altezzosamente nauseato. |
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[1] (2) |
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5. Il termine paralittérature
(che Crovi nella sua introduzione qualifica non a torto di “assurdo nome“ [XI]) deve la sua fama soprattutto allo studio di Daniel Couégnas, Introduction à la paralittérature (Paris: Seuil, 1992), che lo usa come sostituto meno offensivo di definizioni quali sous-littérature o infralittérature. |
Per una critica degli usi
e degli abusi possibili di questo termine mi permetto di rinviare al mio articolo “La paralittérature et la question des genres“, in Le Roman Populaire en Question(s) (Limoges : PULIM, 1997, 97-114). |
6. Vedesi il percorso della
“sociocritique” francese, da Jacques Dubois a
Pierre Bourdieu passando da Pierre Zima, Claude Duchet, Robert Escarpit e Pierre Macherey.
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7.
Il corsivo è nostro.
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