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[ conversazioni ]
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Robert Wilson,
uno sguardo oltre il possibile delle cose
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Robert Wilson e Bernice Johnson Reagon, foto in alto a sinistra di Brinkoff/Mogenburg - La tentazione di Sant’Antonio, foto di Stephanie Berger
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Il suo lavoro ha sempre attenzioni, citazioni e componenti di matrice pittorica (oltre che formalmente architettonica). Anche in questo suo spettacolo ha tenuto presente riferimenti pittorici? Tipo i rifacimenti pittorici maturati dal lavoro di Flaubert (su tutti il napoletano Domenico Morelli) oppure, al di là del romanzo, ha ripensato le iconografie della tradizione dedicate alle Tentazioni (in particolare Bosch)?
Il mondo è come una biblioteca. Attingo da ogni fonte: esterna o personale.
Quando metto in scena un lavoro parto sempre dallo spazio. Poi creo la struttura
temporale. E quando, alla fine, tutti gli elementi visivi sono a posto, avrò creato una cornice che i performers potranno riempire. Se la struttura è solida, allora troveranno libertà al suo interno.
Spesso le persone mi chiedono di cosa parla il mio teatro: solitamente rispondo
che non lo so. Se sappiamo cosa stiamo facendo, non c’è alcuna ragione per farlo. Il mio lavoro è formale, nella maggior parte dei casi. Non è interpretativo. Secondo me l’interpretazione non spetta al regista, all’autore o all’artista: l’interpretazione spetta al pubblico.
Le fasi del mio lavoro mi sono estremamente chiare: ho cominciato con alcuni “lavori muti”, quelli che la critica francese ha definito “silenzi strutturati”. Mi ha sempre interessato ciò che si colloca tra l’arte e la vita. Semplicemente, mi piace considerare il mio teatro come il lavoro
di un artista.
Rimanendo dentro il tessuto delle citazioni o delle metamorfosi di
contaminazione tra arti differenti, il suo teatro è stato pioniere nel lavorare con una tensione continua verso l’elettronica, il cinema, gli audiovisivi, il digitale. Dalla centralità di Deafman Glance (del 1970, lo spettacolo che l’ha fatta conoscere in Europa, spettacolo di luci ed ombre di sorprendente
avanzamento visivo che fu potentemente osannato da Aragon); passando all’opera multimediale tridimensionale (Monsters of Grace, del 1998), fino a giungere alla sua nutrita produzione di video (su tutti i
magnifici e tecnologicamente avanzatissimi
Voom Portraits) il suo sguardo scenico si è immediatamente nutrito di “immagini-movimento”. Una pratica oggi molto diffusa e seguita da giovani e meno giovani
sperimentatori contemporanei. Qual è il suo giudizio o la sua lettura verso questo paesaggio teatrale che fa della combine
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tra scena e schermo una costante. Ritiene che ci sia innovazione oppure moda oppure “già visto” oppure…
Il mio interesse è lo stesso per il movimento, la parola, la luce, il suono, le immagini. Sono
convinto che il teatro sia il luogo dove tutte le più svariate forme d’arte possono incontrarsi. Ed in questa coesistenza c’è posto per la musica, la danza, la recitazione. Pertanto, il mio approccio è lo stesso verso l’opera e la prosa. Comincio con il silenzio, poi aggiungo il movimento, e per
finire il testo e la musica. Il mio lavoro parte dalla composizione classica e
dalla struttura. In qualche modo, può essere visto come un contrappunto alla libera espressione della musica.
Non vedo differenze nell’approccio ad un’opera e a un dramma. Vedo tutto il teatro come espressione di musica e danza.
Preferisco in ogni caso lavori e costruzioni classiche. L’avanguardia significa riscoprire i classici.
Altro punto di forza del suo lavoro è sicuramente indicato dalla marcata attenzione verso la ricerca sonora, giusto
per fare qualche esempio rimando alla sua storica e solida complicità con Philip Glass (principiata con Einstein On The Beach del 1976), o anche la preziosa collaborazione con Tom Waits nello splendido The Black Rider (1990).
Senza dimenticare i suoi lavori da Bartòk, Schoenberg, Stravinskij. Adesso il gospel, il jazz, l’hip hop. Quindi una miriade di generi e gusti differenti. Cosa rappresenta per lei la musica?
Quando arrivai a New York, ero un giovanotto del Texas e non ero mai stato in un
museo o in una galleria d’arte. In verità non conoscevo molto del mondo dell’arte. E giunsi a New York per frequentare la scuola.
Quando terminai le superiori, andai a vedere gli spettacoli di Broadway e non mi piacquero. Per me erano noiosi. E così andai all’opera e mi piacque ancor meno. Faceva così XIX secolo e grottesco vedere quelle persone comportarsi in quel modo sul palco. E andai a vedere il lavoro di George Balanchine e lì riuscivo ad ascoltare la musica, a vedere composizioni e costruzioni classiche, a vedere l’architettura sulla scena: mi piacevano particolarmente i balletti astratti. C’era così tanto spazio – mentale, virtuale – su quel palco. E poi vidi il lavoro di Merce (Cunningham, ndr) e John Cage e fu la stessa cosa. Ciò che vedevo era importante tanto quanto ciò che ascoltavo ed era così curioso accorgersi di quanto entrambe le cose potessero fortificarsi a vicenda senza doversi necessariamente decorative o illustrare l’un l’altra. |
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