Max Ernst Titolo italiano: Una settimana di bontà Editore: Adelphi, Milano, 2007 Pagine: 497 (416, tavv.b/n) Prezzo: € 38,00
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Una settimana di bontà di Max Ernst Grande febbre visionaria quella dei dadaisti e surrealisti di una Parigi nel trascorrere del Novecento tra gli anni Venti e Trenta nel pieno del proprio vigore avanguardista. E proprio nell’incrocio tra le due avanguardie Max Ernst farà cortocircuitare la propria espressione. Infatti la sua prima adesione è sicuramente Dada (con un occhio verso Marcel Duchamp) e successivamente anche con “la rivoluzione” surrealista avrà punti di vero dialogo (nonostante le saltuarie querelle con un sempre sospettoso André Breton). Frutto di queste contaminazioni e adesioni, è l’opera di Max Ernst (ovvero quell’artista definito da un suo potente sodale di nome Man Ray come colui che “ha ficcato un dito nell’occhio della storia e ha dato un calcio nel sedere alla pittura”). Un autore che ha fatto del disincanto (con punte di soave cinismo) una precisa azione entro cui cogliere l’articolarsi del proprio operare. Non solo dentro il versante visivo, ma anche dentro la dimensione “letteraria”. Stavolta Ernst lo troviamo nella veste di scrittore d’insoliti “romanzi-collage” dove lo spazio del disegno e del lavoro grafico (con o senza didascalie) diventano pienezza di racconto letterario. Certo per uno come Ernst abituato sempre a spiazzare (il rimando vada per un momento alla dimensione di simulacro delle sue “macchine-celibi”, oppure ad opere come L’elefante Célèbes o Edipo re) la sua operazione letteraria non poteva non giocare su temi come attrito e disomogeneità, non poteva non spezzare il dato reale e spingerlo verso l’orlo di un’immaginazione irrazionale. Infatti, il pittore “dell’inconscio animale” (il giocatore di pratiche estreme, il facitore di visioni d’accesa provocazione, il costruttore d’illusorie scatole prospettiche) lo ritroviamo al meglio del proprio azzardo in questa preziosa pubblicazione (Una settimana di bontà) curata da Giuseppe Montesano, che firma anche la nota in postfazione dal preciso titolo “Le sirene cantano quando la ragione si addormenta”. Giunge ancora più significativa, questa edizione, visto che la sua ristampa la si aspettava da più di trent’anni, dopo che era stata pubblicata per la prima volta in italiano da Rizzoli nel 1972 con il titolo Scritture, sulla base di un’edizione del francese Gallimard del 1970. Sono tre i lavori letterari presenti nel volume Adelphi (La donna 100 teste, 1929; Una ragazzina che volle entrare al Carmelo, 1930; Una settimana di bontà, 1934), tre viaggi di fatale attrazione e desiderio dove si rincorrono, in voluttà prospettica, sensualità e candore, slanci di seduzione e romanzi d’appendice, rituali misterici e trionfo d’erotismo (tra D.A.F. de Sade e Charles Baudelaire). Il tutto “narrato” con una tecnica vicina al montaggio cinematografico, fatto di tagli immediati, elissi, dissolvenze. L’operazione letteraria di Max Ernst è un ulteriore “oltraggio” alla staticità della scrittura. Un’azione narrativa vistosamente non lineare, densa di collassi e abusi, insubordinazioni e profanazioni kitsch, riuscendo a proporsi al lettore (sottolinea Renato Barilli parlandoci dell’Ernst scrittore): “… come un fine dicitore, all’apparenza irreprensibile, e attento a rispettare una certa ufficialità, che però rivolge al pubblico divertito rapidi, istantanei ammiccamenti quasi subliminali, col risultato di suscitare il riso più schietto”. Inutile dire che leggendo questi “romanzi-collage” più di un sorriso affiora, più di un’ilare emozione scompone il lettore che vorrà lasciarsi trasportare da questo flusso verbo-visivo, senza dimenticare di conservare un leggero senso di devozione e un piccolo desiderio di volersi perdere in questo non-romanzo tanto bizzarro quanto abissale. Insomma, ancora una volta, Ernst mostra una voluta insolenza che frantuma “la ragione” (in questo caso del feuilleton) e la spinge verso le infinite soglie del grande sogno dada-surrealista. Alfonso Amendola |