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[ conversazioni ]
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Zygmunt Bauman:
questa società liquida… l’uomo
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Il consumo sontuoso, viene detto loro, è sinonimo di successo, una strada che conduce direttamente al pubblico consenso
e alla fama. Apprendono inoltre che possedere e consumare determinate cose e
praticare alcuni stili di vita rappresentano la condizione necessaria alla
felicità; e forse anche alla dignità umana.
Se il consumo è l’unità di misura di una vita di successo, di felicità e anche di dignità umana, allora è stato tolto il coperchio sui desideri umani; non c’è nessun limite di acquisizioni e di sensazioni stimolanti che possano procurare
sempre soddisfazione nel modo in cui il
“mantenimento degli standard” promette inizialmente: non ci sono standard da rispettare. Il traguardo si
sposta in avanti assieme al corridore, l’obiettivo si mantiene sempre un passo o due in avanti a colui che sta cercando
di raggiungerlo. I record sono sempre superati, e sembra non esserci mai fine a
ciò che un umano può desiderare. Abbagliati e sconcertati, gli individui apprendono che nelle
imprese nuovamente privatizzate, e quindi
“liberate” che essi ricordano come austere pubbliche istituzioni costantemente affamate di
guadagno, gli attuali manager hanno stipendi che si misurano in milioni, mentre
quelli licenziati dalle loro posizioni sono indennizzati, anche loro in milioni
di sterline, per il loro lavoro sciatto e sbagliato. Da ogni luogo, attraverso
tutti i canali di comunicazione, il messaggio arriva forte e chiaro: non vi
sono norme eccetto quella di prendere sempre più, e nessuna regola, salvo l’imperativo di “giocare bene la propria carta”.
Tuttavia, nei giochi di carte nessuna mano è pari. Se la vittoria è l’unico scopo del gioco, coloro che hanno avuto uno scarso risultato sono incitati
a usare qualsiasi altra risorsa in loro possesso. Dal punto di vista dei
proprietari dei casinò, alcune risorse – quelle che loro stessi fanno circolare ed assegnano – sono legali; tutte le altre risorse, se sono al di là del loro controllo, sono proibite. La linea che divide ciò che è giusto da ciò che è sleale non è la stessa, tuttavia, dal punto di vista rispettivo dei due giocatori,
soprattutto dalla parte del giocatore che
“vorrebbe-essere”, che aspira, e più in particolare dalla parte del giocatore aspirante e incapace, che non ha
accesso ai sistemi legali. Essi possono ricorrere alle risorse di cui
dispongono, se siano riconosciute legali o dichiarate illegali, oppure tirarsi
fuori dal gioco. Quest’ultima mossa, tuttavia, è stata messa in atto dalla seduzione del mercato, ma è impossibile da contemplare.
Il disarmante, sfiancante e opprimente spettacolo dei giocatori insoddisfatti è pertanto un indispensabile complemento all’integrazione attraverso la seduzione in una società dei consumi basata sul mercato. I giocatori incapaci, indolenti, vanno tenuti
fuori dal gioco. Essi sono la spazzatura del gioco, un rifiuto che il gioco non
può smettere di sputare fuori senza macinarlo e senza fermarsi. Il gioco non
avrebbe alcun beneficio dall’arresto della produzione di rifiuti anche per un altro motivo: bisogna mostrare
a coloro che restano in gioco lo spettacolo orrendo della (sola ed unica, come
viene loro detto) alternativa, in modo da renderli in grado e disposti a
sopportare i disagi e le tensioni che le loro vite, vissute nel gioco, portano
in s
é.
Data la natura stessa del gioco ora in corso, la miseria di coloro che restano
fuori da esso, una volta considerata come una piaga provocata collettivamente
che deve essere affrontata con sistemi collettivi, può essere soltanto ridefinita come un crimine individuale. Le “classi pericolose”* sono quindi ridefinite come categorie di criminali potenziali o effettivi. E così le carceri conferiscono ora pienamente e veramente autorità alle fievoli istituzioni del welfare, e con tutta probabilità lo si dovrà fare in misura crescente man mano che la disponibilità di benessere continuerà a ridursi.
L’incidenza crescente di comportamenti classificati come criminali non rappresenta
un ostacolo sulla strada di una società consumistica completa ed universale. Al contrario, essa è il suo naturale accompagnamento e requisito fondamentale. E’ così, è vero, per una serie di ragioni, ma il motivo principale è forse il fatto che coloro che restano fuori dal gioco – i consumatori insoddisfatti, le cui risorse non corrispondono ai loro desideri,
con poca o nessuna probabilità di vincere prendendo parte al gioco secondo le sue regole ufficiali – sono l’incarnazione vivente dei “demoni interiori” tipici della vita consumistica. La loro ghettizzazione e criminalizzazione, la
gravità delle sofferenze che patiscono
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e la crudeltà del loro destino, sono – metaforicamente parlando – un modo per esorcizzare tali demoni interiori e bruciarne le effigi. I margini
della criminalizzazione fungono da strumenti di controllo
“a distanza”: fogne in cui gli inevitabili, ma velenosi effluvi della seduzione consumistica
vengono smaltiti, di modo che le persone che riescono a stare nel gioco del
consumismo non abbiano bisogno di preoccuparsi per la propria salute. Se è così, tuttavia, il primo segno di questa esuberanza di ciò che il grande criminologo norvegese Niels Christie chiama “l’industria-carcere”, e quindi la speranza che questo processo possa essere rallentato, per non dire
arrestato o invertito in una società de-regolata e privatizzata animata dal mercato del consumo, è – a dir poco – lieve.
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Spesso, certi termini costruiti in maniera particolarmente felice e icastica
finiscono per avere un
“successo” che va oltre il desiderio di chi li ha coniati, e finiscono, per una sorta di trickle effect, per filtrare giù dai saggi degli studiosi agli articoli dei quotidiani, fino alle riviste di gossip, perdendo gran parte del loro significato. È il rischio che corrono anche termini come “società dell’incertezza” o “vita liquida”. Vuole chiarircene meglio il senso?
Rischio? Io direi piuttosto che è una fortuna… Dopotutto, i nuovi concetti – prima di tutto strumenti di conoscenza – vengono coniati dai sociologi sperando di aiutare le persone a cogliere il
mutato e mutevole mondo nel quale sono nati, a trovare il loro posto in questo
mondo, ad anticipare loro le sfide che potranno affrontare in futuro, e a
trovare un modo ragionevole per affrontarle. Se
“entrano” nella coscienza pubblica, essi sono inclusi nell’insieme di strumenti utili per la percezione del mondo, l’interpretazione dell’esperienza della vita e l’elaborazione delle strategie per viverla – il sociologo dovrebbe rallegrarsi di ciò: la propria missione è compiuta…
Ma Lei ha ragione, già Adorno e Horkheimer lamentavano il fatto che il prezzo per la vittoria di un’idea è la sua volgarizzazione; e a questo non trovarono un rimedio, per non parlare
della medicina preventiva contro la malattia. L’unica alternativa è quella che in gergo si chiama “torre d’avorio”, che rende i concetti immuni alla banalizzazione ma che, come Ludwig
Wittgenstein tristemente sottolineava,
“lascia tutto così com’è” (ossia, inefficace e insignificante) – ma nel caso di concetti sociologici questa alternativa sfida e nega l’obiettivo di tutta la fatica, anzi la sua stessa ragion d’essere! Ma per “chiarire” il significato intenzionale dei due concetti di cui Lei ha parlato nello
specifico:
piuttosto che di “incertezza”, vorrei parlare di una “triade concettuale” (incertezza, ossia l’imprevedibilità del futuro, precarietà, ossia l’ignoranza circa la solidità del proprio posto nella società e la ragionevolezza delle scelte effettuate e la strategia di vita perseguita,
e
sicurezza, ovvero la certezza del proprio corpo e delle sue estensioni – beni e habitat), che deve essere utilizzata per trasmettere il senso dell’Insicurezza freudiana come parametro fondamentale della moderna condizione umana. Tutti e tre gli
elementi di questa triade, oggigiorno, generano ansia e paura
– ma, come indicava Ulrich Beck, nella nostra società del rischio la natura e l’origine dei rischi non è resa visibile dall’esperienza umana individuale – e quindi l’ansia e le paure possono essere “manipolate” politicamente e commercialmente, “disaccoppiate” dalla loro vera fonte e collegate ad altre cause, “putative”.
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