L’immortale compagna di viaggio |
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“Man mano che i reperti archeologici si fanno più frequenti e chiari, e cioè in epoca protostorica, i concetti di immortalità e di vita ultraterrena appaiono profondamente consolidati in tutte le civiltà, come se le loro origini fossero molto più antiche e universali: ciò risulta sia dalla ricostruzione dei costumi dei popoli che ci hanno lasciato sufficienti tracce, sia, in modo inequivocabile, dai testi fino a noi direttamente o indirettamente pervenuti. (…). Nelle antiche culture storiche – mesopotamica, egizia, fenicia o greco-romana – erano contemplati più tipi di immortalità, e quindi di immortali, caratterizzate da natura e ontogenesi diverse. Il primo tipo riguardava (…) esseri costituzionalmente non soggetti a morire, le divinità (…).
Il secondo tipo di immortalità era, invece, proprio dei morti che
avevano attraversato l’Acheronte, o le equivalenti porte del mondo dei defunti;
essi erano immortali nel senso che non potevano più morire, essendo già morti
(…). Oltre a queste due forme di immortalità, che possiamo chiamare entrambe
celesti, i più ambiziosi tra gli uomini … ne hanno perseguito una terza, del
tutto umana: la perpetuazione di se stessi nella memoria dei posteri. Si tratta
indubbiamente anche in questo caso di una forma astratta, che non pretende di
allungare di un solo respiro il naturale ciclo biologico, ma più riscontrabile
di quelle dell’anima o degli dei: ne è dimostrazione il vivo ricordo dei grandi
del passato o dell’immagine dei propri cari estinti (…). Oltre ai tre fin qui citati,
l’uomo ha escogitato un quarto tipo di immortalità, il più umano di tutti;
quello ottenibile con il ricorso a pratiche o rimedi prodigiosi, in grado di
conferire la perfetta salute, l’invulnerabilità e anche l’eterna giovinezza.”[2] Al di là di questo tentativo di
classificazione delle diverse possibili tipologie di immortalità storicamente
proposte, è possibile ancor più sinteticamente sostenere ai nostri fini che le
diverse culture, oltre ad aver costituito gli “strumenti” essenziali per
garantire la sopravvivenza e la perpetuazione del genere umano, sono anche
state – mi si perdoni la necessaria forzatura semplificatrice – il risultato di
quella che qualcuno ha definito una sorta di “autoinganno”,
ovvero un’illusione collettiva di cui gli uomini hanno avuto
bisogno per potersi affermare in quanto specie. Se, per quanto genericamente
esposte, siamo disposti ad accettare tali ipotesi, è possibile altresì
sostenere che ogni società umana è sempre stata fondata su una cultura che, in
un modo o nell’altro, ha finito per legittimare questa sorta di autoinganno derivante dal bisogno umano di immortalità.
Tale atteggiamento, a sua volta, si è sempre manifestato in ogni tempo e in
ogni luogo, attraverso delle forme che potremmo definire (in senso idealtipico) dicotomicamente
variabili tra un modello di tipo magico-religioso ed uno di tipo razional-scientifico. È ovvio che
l’autoinganno che questi due modelli ideali celano,
si rivela pienamente soltanto se si considera il loro contributo alla
comprensione della finitezza dell’uomo, alla sua morte, anche se in realtà esso
pervade e sostiene tutta la cultura della società in cui si manifesta. In quello che abbiamo
considerato essere il primo modello, viene riconosciuto che l’uomo è sempre (o
quasi) per sua natura immortale e che, se ciò non appare evidente è solo per
ignoranza, mancanza di fede o di volontà di sottomettersi ad una qualche
dottrina di derivazione sacra o trascendente di tipo prescrittivo.
Ci sono – è quasi pleonastico dirlo – innumerevoli varianti, che è però
possibile accomunare in base al seguente aspetto: l’uomo, se inserito a pieno
titolo nella comunità, se ne rispetta cioè tutte le prescrizioni di derivazione
trascendente, non è un essere destinato a “finire”. La morte, dunque, non
esiste! Al limite essa è qualcosa di relativo a questo mondo, alla realtà
profana e materiale. Si tratta in questo caso di una immortalità assegnata. Il secondo modello, invece, una
volta accertato razionalmente che l’uomo è un essere destinato alla morte,
propone un altrettanto razionale contrappunto, direttamente derivato da una
legge – quella del progresso – nei
confronti della quale l’atteggiamento generalizzato non si discosta poi tanto
da quello della vera e propria fede. Se l’uomo “crede” e si
sottomette adeguatamente a tale fede, egli sarà in grado di posticipare sempre
più il momento della sua morte, fino ad un tempo praticamente indeterminato. A meno che, a meno che non intervengano
degli imprevisti, degli inconvenienti, come ad esempio potrebbe essere un incidente
o una malattia (che comunque si ritiene, in base alla “fede” suddetta,
dovrebbero essere sempre più prevedibili ed evitabili). Almeno in linea di principio,
nulla potrebbe impedire a questa posticipazione, a questa indefinita estensione
temporale legata all’idea di progresso, di divenire a sua volta “infinita” e
condurre così l’uomo – quanto meno in teoria – all’eternità. Possiamo parlare,
in tal caso, di una immortalità acquisita. Gli strumenti simbolici
utilizzati da coloro che hanno fatto ricorso a tali modelli sono stati i più
diversi, ma anche per essi è possibile trovare due “tipi ideali”: nel primo,
essi sono strumenti di tipo magico-religioso,
comunque legati a ritualizzazioni della realtà che
avevano come punto di riferimento un mondo trascendente, generalmente sacro; il
secondo modello ha invece utilizzato sin dagli inizi gli strumenti che la
scienza gli poneva a disposizione, i più potenti dei quali sono diventati oggi
quelli della “scienza per eccellenza”, la medicina, che hanno finito per invadere
gran parte della vita quotidiana della società occidentale moderna. Per cui, in sostanza, la cultura della morte si è sviluppata
attorno a quattro nuclei tematici di fondo, La morte e l’individualizzazione,
la morte e la percezione temporale, la morte e la memoria, la morte, insomma, e
l’immortalità.
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