Un postribolo a Santa María,
ascesa e caduta inesorabile

Juan Carlos Onetti
Raccattacadaveri
Traduzione di Gina Maneri

Sur, Roma, 2022
pp. 298, € 18,00

Juan Carlos Onetti
Raccattacadaveri
Traduzione di Gina Maneri

Sur, Roma, 2022
pp. 298, € 18,00


Un manipolo esiguo di puttane male in arnese e il loro magnaccia in marcia dritti su una cittadina per farne la sede di un bordello da tempo progettato e a più riprese rinviato per via di mancate autorizzazioni; un curato e un farmacista/erborista/consigliere comunale a polarizzare lo scontro sul controverso luogo di piacere e perdizione; una vedova matta, così pare, così si dice, assieme alla presenza ingombrante, immateriale ma ingombrante del suo defunto consorte e a quella del giovanissimo fratello di lui, invaghito della cognata ma anche voyeur: non si perde una cavalcata del bullo, esuberante e manesco fratello di lei con una domestica compiacente. Li osserva grazie a una finestra sempre spalancata ma è inconsapevole di essere spiato e non solo spione, poiché malcelato dai rami del rampicante dove si abbarbica per scrutare. Infine, un dottore malconcio, tossico dipendente, a cui spetta il ruolo di intermediario neutrale tra le parti in causa nonché di testimone, assai parziale, delle vicende che accadono. Sono loro, niente più che un pugno di anime morte, o più che altro mai del tutto nate, a far da protagonisti nel romanzo di Juan Carlos Onetti, Raccattacadaveri, un capitolo chiave delle storie ambientate a Santa María, grazie al quale la “missione Onetti” in casa Sur fa un notevole balzo in avanti. Si tratta infatti di una nuova traduzione realizzata da Gina Maneri, già meritevole di aver ritradotto ottimamente La vita breve, il romanzo/genesi dell’intero ciclo. Un’uscita che fa il paio con la riedizione de Il pozzo (romanzo che non rientra nelle storie sanmariane), lasciando ben sperare nel prosieguo dell’iniziativa.

Va aggiunto qualcosa ancora sui personaggi, tutti figli di un dio di cui rimane solo una statua nella piazza centrale, quel Juan María Brausen protagonista del citato La vita breve, l’inventore della città di Santa María. In Raccattacadaveri vanno in scena il sedicenne guardone Jorge Malabia, suo fratello Federico lo sposo venuto a mancare e che continua a ossessionare la vedova Julita, suo fratello Marcos, che beve, suda, scopa e si fa crociato sanguigno della morale. Euclides Barthé è, a sua volta, il sostenitore del postribolo, causa santa e profana. Gli si oppone padre Bergner, il suo antagonista armato di sermoni tonanti quanto basta. Quanto al medico, si tratta dell’onnipresente (nelle storie sanmariane) dottor Diaz Grey, colui che più di tutti conosce l’amaro della vita. È un osservatore discreto e accurato:

“Dal tavolo dov’era seduto, Díaz Grey beveva e li guardava. Vide i grossi deretani degli uomini che traboccavano dagli sgabelli e i glutei rachitici delle due donne. La pioggia ritornava timida, pareggiava i suoi scrosci, rimase fissa come un oggetto annesso alla notte. Sulla costa, attorno alla sapienza, alla sicurezza, alla dissimulata eccitazione di Raccatta, le prostitute probabilmente bevevano mate, facevano domande, soffocavano sbadigli, guardavano consumarsi e spegnersi questa prima serata nella casetta”.

Colorate, spensierate, assai magre o molto grasse, nessuna in fiore, le prostitute sono María Bonita, Nelly e Irene condotte a Santa María da Larsen, detto Raccattacadaveri, o più sbrigativamente Raccatta, l’idealtipo del fallito onettiano. Scivolato oltre la disperazione in un’apatia senza confini, afflitto da un perenne sentimento di rivalsa, lenone di professione, specializzato in merce poco appetibile, prostitute obese o scheletriche, “quelle ormai alle corde per la vecchiaia e la mancanza di un uomo”, da cui il suo nomignolo, parcheggiato suo malgrado a Santa Maria, “paese di merda, buco di cimici”, in attesa di iniziare l’impresa di aprire il bordello promessogli, Raccatta è un anti eroe per natura e vocazione. A costoro si aggiunge sovrana della scena la prosa magistrale di Onetti, abbacinante per consistenza e nitore. È quella parola che ci tiene in scacco e ci conduce in misteri sempre solo accennati, tra ricordi parziali e incerti, in luoghi altrettanto oscuri eppure vividi nelle descrizioni chirurgiche di Onetti. Ecco María Bonita guardarsi allo specchio:

“Non si riconosceva più del tutto; guardava le zone lustre, quelle molli, le linee d’ombra, constatava che in realtà non aveva una faccia e che l’unica cosa che le consentiva di distinguersi era quella fluttuante eccitazione senza motivo né speranza; quella e i grandi occhi cerchiati di nero in cui illanguidivano vecchie pagliuzze gialle. La bocca era ancora fresca, ancora lontana dalla grassezza crescente del mento, dal pezzo a forma di ferro di cavallo che lo separava dal collo”.

Da togliere il fiato e rapirci ogni qualvolta si torna a Santa María. Immergersi nella pagina onettiana, aggirarsi tra le parvenze di vita che ne animano strade e viuzze, locali pubblici e dimore private, comporta, sin dalle prime righe, di ritrovarsi a esserne parte in causa, a condividerne miserie, speranze e fallimenti e a smarrirsi assieme agli abitanti di quel girone dove pare siano collassate assieme la commedia dantesca e quella balzachiana, dove si accalcano tutti i peccatori e gli innocenti del mondo, scambiandosi continuamente di ruolo perché per natura instabili, infinitamente umani. È un passaggio inavvertito, come un metodico avvelenamento portato avanti con piccole dosi quotidiane e che inesorabile conduce a un’alterazione profonda. È sufficiente aggirarsi tra le ombre, l’umidità e il fumo delle sigarette per sentirsi parte di quella piccola comunità, essere partecipi dei suoi segreti e al tempo stesso esserne esclusi, perché è questa la condizione esistenziale del sanmariano: ascoltare, vedere, conoscere in qualche modo, unicamente, frammenti di verità. “Alcune cose sono fatte perché le capiscano certi uomini; altre, per altri uomini” precisa Larsen a Barthé. Le storie a Santa María sono sempre parziali, accennate, inespresse in parte, affidate ai testimoni – i suoi abitanti, i suoi lettori, in fondo è lo stesso, medesima è la loro condizione ­–, per un’infinita interpretazione del tutto arbitraria, beninteso. In questa città a suo modo invisibile, tutti si osservano, ciascuno azzarda a citare il suo resoconto dei fatti, nessuno riesce fino in fondo nell’impresa. Dietro questa commedia divina e umana in sedicesimo (appena un pugno di romanzi e racconti), come un grande orchestratore di destini, c’è l’Autore/Demiurgo che abbozza trame, le abbandona, le riprende in seguito, manovra come marionette le creature che ha concepito per quel luogo immaginario chiamato Santa María, generato per interposta persona grazie al citato Brausen, il protagonista del romanzo/genesi del ciclo, La vita breve.

Un autore che inventa un autore che inventa un luogo in cui realtà (la sua) e finzione finiscono per mescolarsi inesorabilmente. Il big bang al rovescio, l’implosione da cui ha origine l’universo Santa María. Un luogo dove il tempo, tessera chiave del gioco onettiano, è scardinato dal suo procedere ordinario. Sin dalla stesura delle storie, che segue un ordine addirittura inverso, Onetti attenta all’ordine del tempo: Raccattacadaveri data 1964, Per una tomba senza nome, storia che da lì si diparte (dove ricompare Jorge Malabia), risale al 1959, mentre Il cantiere che segue nei fatti narrati la storia del postribolo è del 1961. In fondo, può Dio invischiarsi in sequenze temporali precise, osservarle rispettosamente con la metodicità di un ragioniere? Dio fa e disfa, Onetti pure, ed ecco che la sua voce fa capolino a un certo punto in Raccattacadaveri:

“Ho inventato io la piazza e il suo monumento, ho fatto la chiesa, distribuito blocchi di costruzioni verso la costa, messo la passeggiata accanto al molo, determinato il luogo che avrebbe occupato la colonia. È facile disegnare una cartina del luogo e una pianta di Santa María, oltre a darle un nome; ma bisogna mettere una luce speciale in ogni negozio, in ogni androne e a ogni angolo di strada. Bisogna dare una forma alle nuvole basse che corrono sul campanile della chiesa e sulle terrazze con le balaustrate rosa e crema; bisogna distribuire mobilio orrendo, accettare ciò che si odia, trasportare gente, non si sa da dove, in modo che abitino, sporchino, commuovano, siano felici e sperperino. E, nel gioco, devo dar loro un corpo, bisogno d’amore e denaro, ambizioni dissimili e coincidenti, una fede mai approfondita nell’immortalità e nel diritto all’immortalità; devo dar loro la capacità di dimenticare, viscere e facce inconfondibili”.

Fabbricante di un universo abbastanza ampio da contenere i vizi, i peccati, gli stati d’animo, sofferenze e gioie, le miserie del comportamento umano, le sue disillusioni, Onetti condisce qui e là con tocchi drammatici e cinici (la vicenda di Juanita), oppure grotteschi, la storia legata all’impresa fallimentare di Raccatta e delle sue malandate pulzelle. La vicenda delle lettere anonime stilate per denunciare i frequentatori delle tre impiegate di Larsen agita il registro del grottesco in maniera esemplare, mai sopra le righe.

“Alcune delle scrivane andavano per i trent’anni; ma per la maggior parte erano ragazze che si erano conosciute all’Azione Cooperativa del Collegio. In ogni caso nessuna di loro era la zitellona disperata che immaginava chi apriva le buste rettangolari vergate in inchiostro blu […] Presero a riunirsi, dapprima nella sala che una volta la settimana il Collegio metteva a disposizione dell’Azione Cooperativa; poi nelle stanze di Julita, la vedova di Malabia, nella vecchia casa sulla strada per la Tablada. Fresche e in salute, scambiandosi risate e gridolini, ciascuna difendendo dalla malevolenza delle altre l’essenziale del proprio segreto, facevano progetti, davano e ricevevano notizie succose e poi, fra un sorso di tè e l’altro, arrossendo un poco, con la lingua fra i denti e macchiandosi i polpastrelli delle dita avide che scivolavano lungo la cannuccia verso il pennino, redigevano le lettere anonime, scoprivano senza stupirsi che il sodalizio femminile a cui stavano dando forma era vecchio di secoli”.

Alle missive farà presto compagnia una ronda di sorveglianza della casa del peccato, attivata per annotare con ulteriore precisione l’andamento di quel mercimonio. Neanche tanto velata si legge tra gli affanni dei sanmariani una feroce critica dell’ipocrisia borghese rivestita di cattolicesimo, ma si tratta di effetti collaterali. A contare nell’intera saga onettiana è solo il mestiere di provare a vivere e come ritentarci ogni volta che si erra, immersi in un tempo che non padroneggiamo, sempre fuor di sesto (in fondo, come si vede, siamo tutti abitanti di Santa María), cercando di orientarci tra ricordi, accenni, citazioni, rimandi, ad altre nostre esistenze, segni che Onetti distribuisce con (apparente?) indifferenza, quasi come i sassolini di Pollicino, dando una mano a orientarsi tra i fatti della vita.
Al termine, lasciando una volta ancora Santa María, concludendo la lettura di questo straordinario romanzo, dando un ultimo sguardo a questa città senza peccato perché li ospita tutti, ci si ritrova un po’ come Raccatta al termine della sua avventura “più piccolo del solito, a capo chino, le mani allacciate dietro la schiena, sorretto da quel che restava di uno strano orgoglio”.

Letture
  • Juan Carlos Onetti, Per una tomba senza nome, Sur, Roma, 2016.
  • Juan Carlos Onetti, Triste come lei, Sur, Roma, 2017.
  • Juan Carlos Onetti, Il cantiere, Sur, Roma, 2021.
  • Juan Carlos Onetti, La vita breve, Sur, Roma, 2022.