Il coniglio, la Luna
e l’arte di Nam June Paik

Nam June Paik
Rabbit Inhabits the Moon
L’arte di Nam June Paik
allo specchio del tempo
Museo d’Arte Orientale di Torino
19 ottobre 2024
23 marzo 2025

Nam June Paik
Rabbit Inhabits the Moon
L’arte di Nam June Paik
allo specchio del tempo
Museo d’Arte Orientale di Torino
19 ottobre 2024
23 marzo 2025


Secondo un’antica fiaba buddhista, il coniglio Usagi sacrifica la sua vita per sfamare un vecchio mendicante. Appena il mendicante accende il fuoco, Usagi-san vi salta dentro per offrirsi in pasto. È in quel momento che la divinità Śakra (nella versione induista) o Ch’ang Ô (nella versione cinese) lo invita a vivere sulla Luna per essere stato “il più gentile di tutti”. È proprio la leggenda del coniglio lunare (in coreano oktokki) il tema sotteso a tutta la mostra Rabbit Inhabits the Moon, tenutasi al Museo d’Arte Orientale di Torino tra il 19 ottobre e il 23 marzo. Questo nucleo tematico, che percorre le culture di tutta l’Asia, dall’Estremo Oriente alla Turchia, prende vita nell’omonima installazione di Nam June Paik del 1996. La figura di Paik è chiave di volta del percorso espositivo. Il suo sguardo unisce Oriente e Occidente, passato e presente. Proveremo ad analizzare alcune delle sue opere in mostra per leggere la sua eredità “allo specchio del tempo”, come questa suggerisce.

Tra passato e presente
Electronic Moon No. 2 (1969) apre la mostra assieme ad altre tre opere video di Paik (Butterfly, My Mix, Global Groove). La loro sistemazione circolare invita lo spettatore a girarvi intorno e fermarsi di fronte ad ogni monitor. Electronic Moon è la prima che gli si pone davanti e la più eloquente: qui la luce lunare si rifrange sulla superficie dell’acqua per restituire tutta la caratteristica fluidità dell’immagine elettronica, ma si riversa allo stesso modo nelle note del Prelude à la Lune di Claude Debussy. In altri termini, riversa l’immagine lunare sia nelle immagini video sia nella musica, in un connubio audiovisivo tipicamente videoartistico. Il legame tra immagine e suono è sostanziale in elettronica. Non a caso, molti tra i più importanti videoartisti sono approdati al video dopo una formazione musicale (oltre a Nam June Paik, per esempio, Robert Cahen e Steina Vasulka). Paik si laurea nel 1956 all’università di Tokyo con l’ormai celebre tesi su Arnold Schönberg, poi vola in Germania e frequenta i corsi estivi internazionali di musica contemporanea a Darmstadt, dove insegna Karlheinz Stockhausen, e poco dopo conosce John Cage.

Nam June Paik: Rabbit Inhabits the Moon (1996). Nam June Paik Art Center, © Nam June Paik Estate.

L’elemento sonoro è dunque centrale in tutto il suo lavoro, alterando e riconfigurando la nozione stessa di musica secondo i principi del movimento Fluxus, a cui Paik si legò fin dagli esordi. Il legame tra Paik e Fluxus è ben rappresentato dal suo Fluxus Island in Decollage Ocean (serigrafia del 1989, da un disegno del 1963), in esposizione a Torino: una mappa concettuale che traccia i confini del movimento annotando i nomi degli artisti sul lato sinistro e diverse considerazioni direttamente sulla mappa dell’“isola”. La mostra lavora sul binomio immagine-suono non solo attraverso la riproposizione delle opere di Paik, ma anche accostandovi installazioni performative più recenti che seguono lo stesso tracciato. Il pianoforte all’ingresso fa parte di Nocturne No. 20 / Counterpoint (di Kyuchul Ahn, 2013/2020), un duetto per pianista e accordatore in cui il primo esegue il Notturno No. 20 di Fryderyc Chopin e il secondo rimuove uno degli ottantotto martelletti dello strumento. A ogni esibizione, un martelletto viene meno, fino alla completa dissolvenza del suono nel solo rumore corporeo del musicista a contatto con i tasti. L’operazione non può che farci tornare in mente il lavoro di John Cage sul silenzio, ma anche e soprattutto quell’attitudine alla reinterpretazione, scomposizione e riattivazione di opere del passato tipica di Fluxus e di Paik.

Ahn Kyuchul: Nocturne No. 20 / Counterpoint 2013/2020. Performance, scultura, installazione: pianoforte, matita su carta stampata. Nam June Paik Art Center, © Nam June Paik Estate.

Sempre di Paik è anche la ricerca di quel territorio liminare, ben esplorato nella collaborazione con Charlotte Moorman, tra musica e performance, in cui il gesto scomposto del musicista si riconfigura in un altro orizzonte di significato. La formazione da violoncellista di Charlotte Moorman e le sue capacità performative influenzarono con forza l’immaginario di Paik e allo stesso tempo la resero l’interlocutrice perfetta per il suo progetto artistico. Il connubio tra i due è ben rappresentato in una sala successiva. Tra le altre, una fotografia di Human Cello (1965): la Moorman suona una corda che Paik tiene in tensione sulla sua stessa schiena. È sempre Moorman ad aver suonato numerose versioni di TV Cello. Ricordiamo in particolare quella del 1976 alla Art Gallery of NSW di Sydney, in cui performò per la prima volta anche Sky Kiss: fuori dall’Opera House, suona il suo vero violoncello sospesa in aria da alcuni palloni ad elio. Il corpo in Paik è corpo performativo e trasformato, mutato dalle sollecitazioni tecniche del presente. Proprio il suo continuo rimodellamento sottolinea il passaggio da ciò che era e ciò che è. Nella mostra a Torino, un imponente uomo vitruviano emerge dal muro della seconda sala: è la sintesi perfetta del ponte che unisce passato e presente, in cui elementi tradizionali trovano altra forma nella loro nuova veste tecnologica. Si tratta di Ecce Homo (1989), in cui il busto e gli arti umani della tipica sagoma leonardiana sono sostituite da dispositivi tecnologici (tv, radio, telecamere, fotocamere).

Nam June Paik: Candle-tv (1990). Edizione dell’artista dalla versione del 1975. Courtesy Fondazione Bonotto, © Nam June Paik Estate.

Nella sala successiva, non è il corpo a cambiare, ma la luce stessa, seguendo principi analoghi e contrari. In un angolo, la Candle TV nella sua versione del 1975: la scocca vuota dell’apparecchio televisivo ospita al suo interno una candela. Laddove ci aspetteremmo la luce artificiale della tv, ecco invece la fioca luce naturale. Come prima il corpo umano era riconfigurato con dispositivi tecnologici, ora il dispositivo tecnologico è ripensato con gli occhi del passato. La candela, oltre al gioco ironico con lo spettatore, così, crea due ponti diversi. Il primo unisce oriente e occidente: la candela è anche oggetto di meditazione zen, dal momento che meditare alla sua luce è una pratica buddhista. Il secondo unisce passato e presente: l’intensità della luce, come anche quella di ogni monitor, si misura in “lumen”, che idealmente corrisponde proprio a una candela. Inserire una candela al centro di un televisore equivale a riportarlo alla sua unità di misura primaria, a ridurre l’oggetto alla sua unità minima e indivisibile, in qualche modo legata ad un mondo in cui la televisione ancora non esisteva. A differenza di quanto visto con Ecce Homo, il legame che Paik crea con Candle TV non si limita solo a riconfigurare il passato, ma anche un elemento della sua cultura d’origine.

Tra Oriente e Occidente
Nella stessa sala di Candle TV, l’ambiente è cambiato radicalmente. Dal soffitto pendono delle decorazioni bianche ricamate. Ai lati di esse, su due pareti opposte, i ritratti di un guardiano del rito (Bupsa) e di una sacerdotessa (Manshin), Kim Keum-Hwa, entrambi scattati dal fotografo Chan-ho Park. Tutto, nella sala curata da Kyoo Lee, evoca l’atmosfera di un tempio sciamanico coreano. La sacerdotessa è protagonista del rituale sciamanico riprodotto in loop su uno dei due schermi adiacenti: è il 2006, Paik è appena morto e Kim Keum-Hwa celebra il rituale per la sua scomparsa (Goodbye Nam June Paik: Kut by Kim Keum-Hwa, 2007). Di fronte ad esso, un secondo cerimoniale fa da contrappunto al primo: Beuys e Shaman (1990) è realizzato invece da Paik per la scomparsa dell’amico artista, in un cortocircuito in cui Paik è allo stesso tempo celebrato e celebrante. Stampata sul muro, una didascalia inizia con una sua frase del 1963: “Odiavo il mattino e lo odio ancora. Lo sciamanesimo è la regina della notte, un banchetto da brivido di fine autunno”.

La serie fotografica Shrine riproposta in uno degli allestimenti della mostra. Fotografia di Chan-ho Park. © l’artista.

Il 1963 è l’anno della sua prima, leggendaria mostra personale. Exposition of Music – Electronic Television ospitava quella che è considerabile la prima installazione a noi pervenuta nella storia delle arti elettroniche, ossia la celebre 13 Distorted TV Sats. Ciò che è interessante ricordare in questa sede non sono i tredici televisori, ma la testa di toro sanguinante che accoglieva i visitatori all’ingresso: nella tradizione coreana segna il confine tra il mondo secolare e quello sacro e attesta dunque il legame diretto tra Paik e la sua cultura d’origine. Lo stesso Paik aveva descritto l’esposizione come una forma di cerimonia sciamanica tradizionale coreana (kut). L’inedita veste tecnologica con cui è riconfigurata porta Kyoo Lee a definirlo “tecnosciamanesimo”. Proprio come la testa di bue apriva un varco verso un altro mondo, questa sala è propedeutica a quella appena successiva. Qui vediamo per la prima volta Rabbit Inhabits the Moon: il coniglio in legno osserva l’immagine della Luna sullo schermo di un televisore.
L’installazione riflette il legame fortissimo tra Paik e la cultura orientale attraverso una sua riappropriazione su più livelli. Innanzitutto, l’opposizione tra la scultura in legno e la scatola elettronica sancisce un forte contrasto tra il più tradizionale e semplice dei materiali e il frutto della téchne novecentesca. In secondo luogo, il connubio tra Luna e televisione traduce un astro carico di significati emotivi e letterari in un medium recente, freddo e lucido. Assieme a Candle TV, è la summa di un linguaggio “capace di tenere insieme aspetti mediatici legati ai riti di una società capitalistica e commerciale e principi rituali legati alla tradizione culturale e sciamanica coreana” (Musini, 2024). Come ricorda Sandra Lischi, Paik aveva già avanzato questo parallelismo definendo la tv come “Luna di vetro” (Lischi, 2021) e realizzando numerose installazioni quali Moon is the oldest tv (in più versioni dal 1965) ed Electronic Moon, di cui la seconda versione in mostra a Torino.

Il ricorrente tema lunare. Da sinistra: nel monitor di Rabbit Inhabits the Moon, nel dipinto Avalokiteśvara (“acqua e Luna”) risalente al XIV secolo e nell’opera Moon jar dell’artista coreano Dae-sup Kwon installata nella mostra, un raffinato esempio di vaso tradizionale coreano.

Il tema lunare ha chiara derivazione orientale, come attestato dalla “giara lunare” in una sala precedente. Si tratta di un particolare tipo di ceramica nota per l’assenza di decorazioni e la rotondità imperfetta, come il corpo celeste da cui prende il nome (Moon jar, di Dae-sup Kwon, 1952).  Nella stessa sala di Rabbit Inhabits the Moon, invece, la luna è riproposta in un antico quadro risalente alla dinastia Goryeo (918-1392), Avalokiteśvara (“acqua e Luna”). Avalokiteśvara è il bodhisattva della compassione, ossia una figura del buddhismo che ha raggiunto l’illuminazione (da bodhi, “illuminazione”, e sattva, “essere vivente”) e rinuncia al Nirvana per aiutare gli altri. Figura fondamentale, è venerata in Cina come Guanyin (“colei che ascolta i lamenti del mondo”), in Corea come Gwaneum e in Giappone come Kannon. La Luna è rievocata dalla luce divina di cui risplende e dalla sua aureola tonda, dalla delicata trasparenza del suo velo di seta e dal volto compassionevole. Secondo Manuela Moscatiello:

“Tutti questi elementi traducono pittoricamente la tradizionale definizione della manifestazione di Avalokiteśvara «come Luna piena». Essa è una figura lunare salvifica e portatrice di fertilità in cui l’elemento acquatico è collegato alla sua mistica dimora in Corea, […] sulla costa orientale del paese, […] il tempio di Naksansa”
(Moscatiello, 2024).

L’elemento dell’acqua è strettamente legato alla Luna nella cultura buddhista. Quest’ultima vi si riflette spesso in innumerevoli fiumi, proprio come l’immagine di Avalokiteśvara si manifesta nelle menti dei viventi. È in questo senso che possiamo comprendere la scelta di Paik nella prima opera che abbiamo incontrato. In Electronic Moon No. 2, la Luna elettronica non si mostra nella sua silhouette, ma nella luce riflessa sul pelo dell’acqua. Allo stesso modo, possiamo interpretare anche la superficie riflettente del pavimento: lungo tutta la mostra, il suolo che calpestiamo è interamente lucido e specchiante, in una continuità liquida che richiama la simbologia su cui fa perno l’esposizione e le caratteristiche più intrinseche all’immagine video. Oggetti e spettatori vi si specchiano come la Luna sull’acqua. La sala centrale ci pone quindi di fronte all’esplicitazione dei suoi temi: Paik, il coniglio, la Luna. A quest’ultima possiamo collegare anche l’acqua. Ciò che resta più sotteso e implicito, però, è l’utilizzo che ne ha fatto Paik durante la sua carriera. Le opere a lui precedenti e successive esposte in mostra riescono a creare un dialogo in grado di farci arrivare alla risposta. Il nucleo fondamentale della questione risiede attorno al concetto di kut, la cerimonia sciamanica coreana che abbiamo già accennato. Essa è, in effetti, una vera e propria forma di teatro partecipativo in cui antropologia, teologia e drammaturgia convivono. Dalle parole di Kyoo Lee:

“In genere, la sequenza del kut prevede una serie di atti di vocalizzazione terapeutica guidati da sciamani, il cui copione aperto si propone di ridurre il dolore o il lutto non elaborato di una persona o di un gruppo di persone […]; la pacificazione mediata degli spiriti turbati associati alla persona che soffre o al lutto in questione […] comporta l’ingresso di altre divinità vagamente correlate che aiutano a creare vibrazioni gioiose più amichevoli”
(Kyoo Lee, 2004).

Esso implica danze e canti carnevaleschi, travestimenti, macellazione di animali, mangiare, bere, ridere, piangere. In questo modo, il kut diviene un momento conviviale e di dialogo tra figure ancestrali o storiche e i presenti, tutti connessi attraverso lo sciamano, vero medium e tramite del discorso cosmico. Ebbene, il medium, è dunque ciò che media tra le persone e le cose, proprio come i media novecenteschi. Come la tv. In questo senso, afferma Kyoo Lee, l’immagine video diviene in Paik un “tecno-kutpan”, ossia una versione tecnologicamente determinata del kut, di cui Paik è sciamano, o meglio, “tecnosciamano”. In altri termini, Paik elettrifica il sistema di comunicazione e le circostanze della cerimonia sciamanica tradizionale coreana in un ecosistema mediale fatto di immagini, suoni e azioni, anche apparentemente distanti, in contatto diretto tra loro e con gli spettatori grazie alla sua interferenza. Torna in mente una delle prime opere osservate lungo il percorso, posta in cerchio appena dopo l’ingresso. Global Groove (1973) è la prefigurazione del panorama televisivo del futuro. Un numero di canali quasi infinito viene idealmente trasmesso da stazioni diverse della terra. La possibilità di saltare da uno all’altro è alla portata di un click. Il taglio netto da uno spettacolo all’altro è un accostamento di montaggio netto che anticipa, di fatto, lo zapping televisivo, ma replica anche l’attività sciamanica di mediazione tra cielo e terra. I passaggi senza logica apparente tra un canale e l’altro ne sottolineano e accentuano per contrasto le differenze culturali. È il caso, ad esempio, del montaggio alternato tra la sfrenata musica rock’n’roll e la suonatrice navajo, o dell’accostamento tra la performance di Charlotte Moorman e la danza tradizionale coreana. Nam June Paik è lo sciamano del kut planetario, in diretta mondiale, per spettatori passati e futuri.

Letture
  • Kyoo Lee, “Per la regina della notte”. Il tecnosciamanesimo di Nam June Paik e i suoi echi transcoreani, in Davide Quadrio, Joanne Kim, Anna Musini, Francesca Filisetti (a cura di), Rabbit Inhabits the Moon. L’arte di Nam June Paik allo specchio del tempo, catalogo della mostra (Torino, Museo d’Arte Orientale, 19 ottobre 2024-23 marzo 2025), SilvanaEditoriale, Torino 2024.
  • Sandra Lischi, La Luna di vetro, Pisa University Press, Pisa 2021.
  • Manuela Moscatiello, “Moon is the Oldest TV”. Un persorso lunare nell’arte coreana tra passato e presente, in Quadrio, Kim, Musini, Filisetti (a cura di), Rabbit Inhabits the Moon, cit.
  • Davide Quadrio, Joanne Kim, Anna Musini, Francesca Filisetti (a cura di), Rabbit Inhabits the Moon. L’arte di Nam June Paik allo specchio del tempo, catalogo della mostra (Torino, Museo d’Arte Orientale, 19 ottobre 2024-23 marzo 2025) SilvanaEditoriale, Torino 2024.
Visioni
  • Kyuchul Ahn, Nocturne No. 20 / Counterpoint, 2013/2020 (in mostra).
  • Kim Keum-Hwa, Goodbye Nam June Paik: Kut by Kim Keum-Hwa, 2007 (in mostra).
  • Dae-sup Kwon, Moon jar, 1952 (in mostra).
  • Charlotte Moorman, Nam June Paik, Human Cello, 1965 (in mostra).
  • Nam June Paik, Electronic Moon No. 2, 1969 (in mostra).
  • Nam June Paik, Global Groove, 1973 (in mostra).
  • Nam June Paik, Ecce Homo, 1989 (in mostra).
  • Nam June Paik, Fluxus Island in Decollage Ocean, 1989 (in mostra).
  • Nam June Paik, Candle TV, 1990 (in mostra).
  • Nam June Paik, Beuys e Shaman, 1990 (in mostra).
  • Nam June Paik, Rabbit Inhabits the Moon, 1996 (in mostra).
  • Avalokiteśvara “acqua e luna”, XIV secolo (in mostra).