La storia di Pellegrino Artusi rappresenta quasi un compendio dei vizi e delle virtù della vita culturale italiana in epoca risorgimentale. A iniziare proprio dal perché abbia avuto così tanta fortuna con un ricettario, La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene, considerato poi un po’ da tutti la Bibbia della nostra gastronomia, ma che all’inizio nessun editore volle pubblicare e che lui scelse di stampare nel 1891 in proprio. Dimostrando, con la tiratura di un milione e 200mila copie che raggiunse alla quindicesima edizione, di aver deciso per il (suo e nostro) meglio. Un’opera, la sua, frutto di un paziente lavoro di ricerca e sperimentazione sul campo, con continui aggiornamenti e aggiustamenti, condita da tanti gustosi aneddoti su vita e cibo, capace di superare immediatamente e letteralmente la “prova del fuoco”. Divenne subito un classico, conosciuto in seguito anche come “l’Artusi” e basta, il ricettario per antonomasia sia per chi è fermamente convinto che l’autore abbia riunito le ricette delle tante tradizioni locali di cui sarebbe, secondo alcuni, fatta la nostra cucina nazionale, sia per chi crede che la cucina italiana invece non parli dialetti e sia un unicum con tante variazioni sul tema. Soprattutto si è rivelata un’opera che non tratta di cucina casalinga, come comunemente si crede, sebbene molte signore dell’epoca siano state grate al suo autore per aver insegnato loro a cucinare. Il suo interesse per la gastronomia era motivo di dibattito e di confronto soprattutto con i suoi conoscenti, felici di sottoporre allo scrittore le loro esperienze in fatto di gusto, che si trattasse del modo di cuocere l’uovo con il tartufo o di fargli conoscere cibi nuovi, condividendo così con lui il piacere della buona tavola. Soprattutto il piacere della raffinatezza fino a quel momento riservata alla nobiltà, rappresentò una conquista per il ceto borghese in ascesa.
Quanto al popolo, da questi piaceri allora ne era escluso, come oggi lo sono le vite di scarto, per dirla con Zygmunt Baumann. E dire che, come afferma Will Self, scrittore e giornalista inglese: “Oggi il vero lusso è la fame. Perché, senza, il cibo sa di merda, ragion per cui nell’Occidente ricco la gastronomia è una perversione” (Self, 2011). Se non fu una perversione, per Artusi è forse perché anche lui conobbe in qualche modo la fame. Nato a Forlimpopoli nel 1820, nell’Emilia Romagna pontificia prima dei moti rivoluzionari del 1830 e del 1848 che rovesciarono le dinastie regnanti e imposero le prime costituzioni, in seguito si trasferì, visse e morì a Firenze, coltivando per sempre l’avversione anticlericale nata con l’esperienza dell’educazione pretesca della sua gioventù. Una terra di origine, la sua, nella cui capitale nel Risorgimento si realizzò il più importante laboratorio sociale delle conquiste democratiche. Il triumvirato Aurelio Saffi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Armellini a capo della Repubblica Romana fu, infatti, l’istituzione rivoluzionaria che nella sua breve vita, a cavallo tra il 1848 e il 1849, tentò di abbattere il potere della Chiesa con provvedimenti radicali tra i quali la confisca dei suoi beni, la cancellazione della pena di morte, l’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi maggiorenni. Eppure, anche in questo caso esemplare di massimo potere democratico dell’epoca, la base elettorale si fondava pur sempre sul censo e il diritto di voto universale era ben lungi dall’essere riconosciuto. Il blocco sociale emergente era quello composto dagli industriali del Nord e dai latifondisti agrari del Sud, coloro che stavano unificando l’Italia per sottrarre prerogative e privilegi all’aristocrazia, per esercitare liberamente le proprie attività, agricole, commerciali e industriali, assumendo il controllo della società, del mercato e dell’ordine nelle campagne e all’interno delle fabbriche.
In questo scenario, funzionari, burocrati, avvocati, notabili, intellettuali, studiosi, letterati ebbero il merito, o piuttosto la responsabilità, di codificare le regole di un nuovo modo di produrre – anche se non ancora di consumare nel senso in cui i sociologi lo intendono oggi – beni fino ad allora sconosciuti. Anche Artusi, tipico esponente del ceto medio (nel suo caso prima dedito ai commerci e poi intellettuale), a modo suo lo fece. Soprattutto se si pensa che scrisse un libro dedicato a leccornie e manicaretti di ogni sorta quando a Venezia cantavano “il pan ci manca” e a Milano il generale Bava Beccaris sparava sulla folla che protestava contro il rincaro del prezzo di quello che allora era la base dell’alimentazione per la maggior parte della popolazione.
Artusi ebbe anche una vita piuttosto travagliata, segnata da una sventura di non poco conto e di cui fecero le spese le sue finanze e soprattutto una delle sue tante sorelle. Nel 1852 la banda di Stefano Pelloni, soprannominato il Passatore, fece irruzione nella casa dei suoi genitori dove ancora viveva e, oltre a derubare la famiglia di quasi tutti i suoi averi, causò la malattia mentale della sorella in seguito alla violenza subita da uno dei briganti. Negli anni successivi, ripresosi da questa brutta avventura, Artusi esercitò con successo in Toscana l’attività di commercio di tessuti, stoffe e sete ereditata dal padre fin verso i quarant’anni, quando iniziò a dedicarsi alle sue passioni: la cucina e la letteratura. Il suo milieu diventò quindi quello degli studiosi che si occupavano di belle lettere. L’amico che con poca lungimiranza stroncò il ricettario – “non credo avrà molto esito”, si sbilanciò – era, infatti, un critico di Ugo Foscolo, e Artusi stesso si occupò dell’autore dei Sepolcri oltre che di Giuseppe Giusti. Lui, però, il succeso lo ottenne occupandosi di cibo e di “cucina per stomachi deboli”, in un “manuale per le famiglie” (questo recita il sottotitolo de La scienza in cucina), dando alle stampe uno dei libri più letti di sempre in Italia, accanto ad altri testi immortali come insieme a Pinocchio e I promessi sposi.
A dire il vero il buon Pellegrino avrebbe preferito forse essere ricordato per le altre sue opere, ma queste passarono completamente inosservate. Invece, fu la cucina il teatro in cui espresse le sue doti migliori, non soltanto perché il suo ricettario liberò, emancipò dai francesismi e dagli anglismi i nomi degli ingredienti, delle pietanze e degli utensili con cui erano allora noti, quanto perché ne seppe fare un racconto di vita, un romanzo della commedia umana. Basti pensare alla cura, come è stato già osservato da molti, con cui illustrò tagli di carni e spiegò il loro potere nutritivo, la chimica di alcuni piatti come quella del brodo, a come elargì consigli nutrizionali, tecnici e igienici in senso più ampio e generale, come un moderno esperto salutista. Ma, soprattutto, fu insuperabile per la sua curiosità aneddotica, per la sua capacità di raccontare storie, storie vere, intorno al cibo. Per questo la gastronomia dell’Artusi ha un gusto tutto particolare, sebbene si sia ben lontani, ad esempio, dalla Fisiologia del gusto di Anthèlme Brillat Savarin, nonostante le parole importanti come “scienza” e “arte” contenute nel titolo della sua opera.
Alle radici del ricettario per antonomasia
Un’opera che non è, come molti pensano, dedicata alla cucina di casa, campagnola o borghese. Infatti, anche se i consigli su come realizzarle al meglio sono illustrati con semplicità– questo era il suo maggiore vanto – e condite con numerose informazioni, tutte interessanti ed esposte in tono colloquiale, le sue ricette dimostrano di essere state attinte da un vastissimo campo di esperienza. Costituito non solo dalle sue sperimentazioni pratiche (cucinava egli stesso) e dai suggerimenti dei suoi amici, ma anche dall’assidua frequentazione di ristoranti (per necessità di lavoro dapprima – viaggiava spesso per affari con suo padre – e per puro piacere dopo: quando la sua condizione economica glielo permise andava a passare la stagione estiva ai Bagni di Montecatini Terme e di Viareggio). Il suo scopo era quello di ricreare l’arte dei fornelli attraverso l’esperienza diretta (per “saper far daccapo e far da sé”, come diceva) ed è ciò che lo fa apprezzare ancor oggi, a distanza di un secolo dalla sua morte. E anche se qualcuno fa notare che le sue 790 ricette (475 nel primo manoscritto) sono soprattutto romagnole e toscane (del resto anche qualcun altro aveva “risciacquato i suoi panni in Arno”), esse restano lo specchio della cucina italiana post risorgimentale, cioè unita. Una cucina in cui sono le tradizioni locali – prima ancora che regionali, in un Paese in cui in ogni città si parlava un dialetto diverso, e l’italiano era una lingua veramente per pochi – a essere importanti. Tradizioni che Artusi, uno spirito gaudente, nonostante la sua stessa veemente smentita di essere un grande mangiatore, interpretò con uno stile impeccabile, autentica curiosità e una certa trasversalità, diremmo oggi.
La video copertina del numero 35 di Quaderni d’Altri Tempi che ospitava il dossier dedicato a Pellegrino Artusi in occasione del centenario della sua morte e dal quale provengono anche le illustrazioni.
Infatti nelle osterie e trattorie in cui Artusi si trovava più a suo agio che nei ristoranti di lusso e dove sceglieva in base ai piatti che vi si potevano ordinare, si riuniva di solito una varia umanità che mangiava soprattutto per sfamarsi. Perché la cucina all’epoca non era come adesso, “una moda”: i ricchi per non sporcarsi le mani avevano la servitù e l’eccezione di un Artusi che provava in prima persona le ricette, realizzandole lui stesso a casa sua, prima di passarle alla cuoca, conferma la regola del suo spirito libero. O piuttosto di una parsimonia che gli permise poi tra l’altro di accumulare un discreto capitale. Perché Artusi era un uomo con i piedi per terra che coltivava forte il senso del risparmio in un’epoca di penuria generale di beni e di scarsità di cibo a buon mercato. Quando ogni ricercatezza nel gusto rappresentava il premio di tante fatiche, come la ricerca dei migliori spunti – ingredienti, materie prime, processi – su cui operare. Ricerca instancabile che, insieme alle tante curiosità che resero viva la sua materia, e alla chiarezza nell’esposizione e nei nomi delle ricette, con l’utilizzo di un linguaggio diretto e senza i tanti inutili ornamenti che si leggono oggi nei menu dei ristoranti à la page, non fu solo il frutto della diligenza di un buon padre di famiglia, cosa che Pellegrino non era. Anzi fu proprio da scapolo incallito che egli dedicò anni di paziente lavoro alla sua principale, ma non unica, passione (e l’altra era meno confessabile, ma Artusi lo fece lo stesso). Nei suoi scritti ricordava infatti che la nutrizione e la sessualità, i due maggiori piaceri della vita, sono necessari al genere umano, ma che del secondo non se ne poteva parlare in società pena passare per pervertiti. Quando si dice avere “sani appetiti”.
- Pellegrino Artusi, Autobiografia, Arcigola Slow Food Editore, Bra, 1999.
- Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Edizioni BUR, Milano, 2010. Cfr. anche Edizioni Agnelli, Firenze, 1993 e Giunti, Firenze, 2011.
- Camilla Baresani, Il campanilismo culinario di Artusi, in Sette, magazine del Corriere della Sera, 10 marzo 2011.
- Marco Cicala, Storia di copertina: Tutti a tavola, in Il Venerdì di Repubblica, 4 marzo 2011.
- Franco Della Peruta, Conservatori, liberali e democratici nel Risorgimento, Franco Angeli, Milano, 1989.
- Franco Della Peruta, Milano e il suo territorio, Silvana Editoriale, Milano, 1985.
- Umberto Eco, Il cimitero di Praga, Bompiani, Milano, 2010.
- Marco Malvaldi, Odore di chiuso, Sellerio, Palermo, 2011.
- Gianni Mura, La Bibbia dei fornelli prima di freezer e surgelati, in Il Venerdì di Repubblica, 4 marzo 2011.
- Carlo Petrini, Non c’è mai stato il pensiero unico ma uno stile, in Il Venerdì di Repubblica, 4 marzo 2011.
- Will Self, D. lo chiede a, in D La Repubblica delle Donne, 1 ottobre 2011.