* New Rome, una distopica visione del futuro di New York, dove la più maestosa delle architetture si oppone a un veemente stato di decadimento sociale, emblema del fantomatico punto di non ritorno. Ma anche dal futuro, l’ultimo film di Francis Ford Coppola, Megalopolis, continua a parlarci di oggi, di una metropoli regolata al ritmo di orologi, la cui eco non permette agli abitanti di distrarsi da quello scorrere incessante. Con questo presupposto l’uomo, arreso di fronte all’inevitabilità del tempo, si illude di avere ancora un qualche potere nei confronti dello spazio, cercando in questo di riprodurre quell’ideale storico di perfezione perduta. Perché New Rome è trasposizione del già visto, già vissuto, di ciò che portò alla caduta di un impero. In una moderna e spettacolare replica della congiura di Catilina, sono le parole dei padri a essere instancabilmente riprodotte dai figli, questi oramai soltanto abili nella passiva ricontestualizzazione. Così l’antichità di Roma e la modernità di New York si incrociano tra simulacri di rovine perdute. Il ricordo diviene fondamentale nel donare finalità a un presente che altrimenti crollerebbe, giacché mancante di significazione in sé: residui che si pongono da limite alla catastrofe, assunti come modalità di sopravvivenza. Questo sfondo “storico” toglie quindi al valore stesso l’originaria eticità per estrapolarne la pura forma estetica, utilizzata come fondale della perdizione più assoluta. Le metafore dell’antico non sono che ornamenti del discorso, sciame di temi senza contesto, senza chiave di lettura: attualizzazione come gesto caratterizzante l’individuo contemporaneo, perché solo così può oggi avvenire la ripresa del passato. I dialoghi stessi del film procedono per ininterrotte citazioni, assemblando un collage che, in quanto tale, non prevede altro che la sovrapposizione di immagini in uno stesso piano, non più distinte secondo un ordine cronologico, piuttosto omogeneo sviluppo orizzontale. Qui agli uomini non è più dato creare, parole altrui per esprimersi, attitudini altrui per muoversi negli spazi.
Protagonista del film, Cesar è un visionario architetto che, nell’utopico tentativo di ristabilire quell’ordine morale oramai perduto nei rapporti umani, sviluppa il proprio progetto urbanistico per ricostruire New Rome. Il discorso vuole allora riferirsi all’America, denunciarla come paese condannato a un perenne stato di eccitazione maniacale, che finisce con l’incanalare ogni energia nell’opprimente necessità di dimostrare un proprio valore. La psicosi contemporanea, figlia della nevrosi moderna, si libera dell’inconscio perché è fondamentalmente libera dal rimosso: se l’unica ossessione è oggi quella prestazionale, ciò può verificarsi perché l’accumulazione viene metabolizzata come necessità di sopravvivenza – ma non per questo cessa d’esistere. Dov’è la soggettività ad avere il compito di mantenere presente la propria esistenza, il mondo stesso finisce con il sopravvivere nel valore attribuitogli da un giudizio puramente estetico. Ma quando è l’immagine a rinnovarsi nell’organo di espressione e rappresentazione del sentimento personale, nel momento in cui l’atto creativo viene sovrapposto a quello riproduttivo, il gesto è inevitabilmente mediato. In una società, quindi, che vede la forma spettacolare come sua struttura più profonda, l’individuo non trae più soddisfazione dal solo possedimento dell’oggetto, necessita di incarnare l’immagine a esso collegata. Se il costume si riduce a pura moda, vuol dire che questa è divenuta in grado di sostituirsi pienamente alla morte: fine della raffigurazione come illusione vitale. L’eterno presente, dato da un incontenibile flusso di immagini, ha potuto concretizzarsi nella quotidianità, porvisi come postulato e al contempo illudere l’uomo dell’esistenza di un’analogia tra comunicazione e dialogo. Come afferma Gilles Deleuze
“L’immagine cinematografica non rappresenta una realtà presupposta, essa è per sé stessa tutta la sua realtà”
(Deleuze, 2017).
In America il cinema è dunque già realtà, non nasce per essere la sua rappresentazione ma estensione, investigazione dello spazio; per poi ricadere, con l’emergere delle forme autoriali europee, in quella del tempo, non viceversa. Megalopolis descrive allora un mondo divenuto oggetto di contemplazione per sé stesso, dove l’annullamento di ogni morale si risolve nel puro godimento verso la propria forma estetica, mentre l’individualità è ridotta a merce di scambio nella riproduzione spettacolare. Qui la lotta con la natura assume anch’essa una forma puramente scenografica, atta a eludere la stasi, vero e proprio allucinogeno in grado di simulare l’atto creativo, che equivale a un’illusione d’azione. Tra déjà-vu e disordini percettivi il tempo continua a lavorare lacerando l’uomo, sovrastandolo, prendendo inevitabilmente il comando della sua soggettività. Dal momento che alla ricezione non può più combaciare una risposta in azione, essa viene allora deviata e investita dai sensi. L’immagine filmica presenta oggi lo scorrere temporale al suo stato puro, rendendosi complessa da delineare se estratta dal flusso: il tentativo che ne deriva è quindi quello di addomesticarne la fugacità sotto il segno del ricordo, individualizzandolo, colmandone le lacune tramite l’identificazione personale.
L’immagine-cristallo deleuziana rappresenta infatti il movimento completamente svincolato dal suo prolungamento motorio; lo stato di coesistenza tra virtuale e attuale, in cui il tempo si mostra come l’unità inscindibile di quel trascorso che persiste, nell’incarnare un presente che non si lascia cogliere. Ma l’oggettiva inattuabilità di un ripristino del passato rende l’istante un tempo in cui nulla avviene, zona d’indiscernibilità perenne. Immagine cristallo dove le facce dello specchio si moltiplicano, presupponendosi reciprocamente. Se il senso unico della figura ancora riflessa nel proprio gesto tenderebbe poi inevitabilmente a respingerla fuori campo, qui invece
“Lo scambio è tanto più attivo in quanto il circuito rinvia a un poligono dal numero crescente di lati […] quando le immagini virtuali proliferano in questo modo, il loro insieme assorbe tutta l’attualità del personaggio”
(ibidem).
Il cristallo è quindi pura simulazione, il tempo come divenire mette in crisi ogni possibile verità: intensità esperienziale vittima di sé stessa, dove il pensiero sfocia inevitabilmente nella follia, negli eccessi. Apertura al possibile tesa alla totalità, alla conquista di una pienezza. Ciò implica però la necessità di rapportarsi a un’immagine non più tendente a rappresentare un insieme, ma che abbia piuttosto come proprio segno quella dispersività che ne faciliterebbe l’immedesimazione. Si tratta della stessa incongruenza che chiederà poi, nel cinema della postmodernità, caratterizzato dal trionfo dell’artificio, di tralasciare la ricerca di una realtà temporale per tornare a concentrarsi sullo spazio, ma inteso non più come localizzazione, bensì estensione. Frammentazioni, piattezza, distorsioni, eppure nulla è lasciato al caso: finzione dettagliatamente costruita per la macchina da presa. Le immagini, che oramai si denunciano come contraffatte, chiedono comunque di essere vissute con intensità, rinunciano a ogni rapporto con la realtà, a ogni sua interpretazione, per dispiegarsi in puro intrattenimento. Quello sguardo riflessivo, critico, che nel cinema moderno invitava ancora lo spettatore a prendere attivamente posizione, a schierarsi per fare dello spettacolo questione etica, procedendo in una ricerca della verità, si risolve oggi nell’estremizzazione del medium caldo, espresso in un’intenzionalità puramente ludica.
La credibilità dell’immagine non viene più difesa, perché passa in secondo piano rispetto alla sua funzione identificativa, immaginativa. Il cinema è oggi per l’individuo più che mai una dimensione a cui potersi ricollegare, come tale si dimostra un mondo ricostruito tramite pubblicità, immagini. Perché si è giunti al punto in cui il realismo riflette inevitabilmente un’angoscia di derealizzazione, misurandosi con la realtà depotenziata dello schermo, dove esiste solo ciò che appare: ad intimorire è il voler ripristinare delle coordinate spaziali, che farebbero inevitabilmente crollare quell’illusione di controllo generalizzata. Se quindi le grandi avanguardie cinematografiche europee degli anni Sessanta, le Nouvelle Vagues, hanno messo in discussione la concatenazione del film al reale per sintetizzarlo sotto forma di immagini cristallo, rendendo possibile tramutare il tempo della nostra soggettività in materia viva in sé stessa; ora, nell’aver inglobato il cinema d’autore nella cultura americana, non si è fondamentalmente fatto altro che spegnerlo di significazione, di quell’indiscernibilità che permetteva di tramutare l’immagine in espressione senza alcuna forma di mediazione. Nell’assorbire quelle eccezionali singolarità sotto forma di standard estetico, si è quindi compiuto un percorso di annullamento di senso, che ha protratto nella cinematografia americana sviluppi solo in ambito tecnologico. La denuncia verso questo groviglio inestricabile di stili che ne deriva, esplode nel film di Coppola.
La rinascita dell’atto creativo inevitabilmente deve allora flettere verso l’utopia, nel tentativo di mantenere la propria autenticità, ma allontanandosi da quella figurazione oramai esausta di significato. L’esperienza di una dilatazione rispetto allo scorrere del tempo, ciò che permette di connettersi al momento presente, è la consapevolezza che contraddistingue Cesar. Nel tentativo di rientrare in possesso della propria specificità, egli non è propriamente un eletto, piuttosto metafora dell’uomo comune nello sforzo di liberare l’individuale potenza creatrice e che, per poterlo fare, comprende la necessità di profetizzare la restaurazione di un dialogo diretto all’interno dell’organizzazione sociale; colui che riesce a concretizzare la propria mancanza nell’esigenza di prendere singolarmente voce per mettere in dubbio il sistema. Egli è il primo ad affermare:
“Questa società, questo modo di vivere, sono gli unici possibili? Quando ci poniamo queste domande, quando ne discutiamo, stiamo palando di un’utopia”.
La moda è inclusione in una mancanza di totalità che spinge l’uomo a rifiutare quantità non complete, non asservibili ad un’interezza; questo sarà allora spinto a esprimersi ovunque, in una sorta di perenne forma confessionale che pone l’Io al centro di ogni percezione. Se però l’irruzione del simbolico dimostra d’essere la sola forma di rivoluzione, perché ciò possa avvenire si rende necessario reinstaurare un principio di compartecipazione. Interrompere la riflessione autonoma fuori controllo e senza autonomia di giudizio, si attesta come l’unico modo di fermare il tempo. Obiettivo di questo artista della contemporaneità è quello di progettare un luogo capace di crescere con i propri abitanti, permettere loro di assistere a un nuovo riavvicinamento tra individuo e natura, affermandolo come principio per ricominciare. Ma al contempo la nuova città non ha immagine, non è materializzata se non a conclusione del film, una volta che il progetto giunge al termine. Come dichiara Cesar:
“La città stessa è immateriale, ma ne stanno parlando per la prima volta”.
Il suo progetto non vuole incarnare un’idea, non essere risposta ma domanda, stimolo. Se la figurazione non è oggi nient’altro che design, dislocata da ogni valore tradizionale, non può essere nucleo di un pensiero ragionato, il concetto rimarrebbe altrimenti feticcio in un mare di immagini, in quella socialità tanto estesa ed espansa da esaurirsi, inevitabilmente, nella superficie. Anche il modellino che Cesar cela nel suo studio non vuole esplicitare la figurazione della nuova città, ma mantenerne un’idea astratta: ready-made creato con oggetti che nulla centrano, simbolico, dove solo l’immaginazione può delinearne i confini. Fino a che l’idea rimane situata nello spettro del pensiero, non viene descritta dall’oggettività di un concetto. Il tentativo è quello di surclassare l’immanenza del desiderio dell’immagine, la materializzazione immediata, la contiguità e contagiosità del sogno. Perché il cinema, nell’essere in grado di rifletterci in uno spazio altro, in una dimensione al contempo fisica e puramente immaginale, disgrega e contorce il nostro rapporto con la realtà.
In questa zona d’indeterminazione, l’eterotopia di cui parla Michel Foucault, trovando il modo di localizzarsi, instaura un rapporto con il presente che avvicina irrimediabilmente la distanza dell’utopia, disgregandone l’ideale di progresso, interrompendone il circolare proseguimento. Qui il tempo continua a essere indefinitamente accumulato.
L’eterotopia è specularità, è il doppio, incarna la realtà e la sua stessa immagine senza lasciar spazio al dubbio; ma al contempo rivela oggi, estremizzata, i meccanismi linguistici a cui soggiace, e la simmetria stessa del rapporto immagine-referente si dimostra un’illusione. Se quindi l’utopia è un tentativo di liberare la creatività verso ciò che rimane da conoscere, l’eterotopia non fa altro che soffocarla nella congiunzione a una sfera tangibile, quantificabile. Dal momento in cui ogni società costituisce inevitabilmente le proprie eterotopie, fisicamente isolate, queste possono prendere varie forme. Il cinema è, in questo caso, l’estremizzazione dello specchio, in grado di creare uno spazio illusorio, che riesca però al contempo a far apparire la realtà come disordinata e caotica, pericolosa, sostituendovisi. Alla base ritorna il tema della sicurezza sociale, della fortezza oggi insita nelle abitudini di ognuno, delle energie spese a mantenere in vita quella simulazione che è il mondo. Nel momento in cui però all’immagine non è più possibile prender forma, essere rappresentata, è qui che avviene il cortocircuito. È il nuovo che disorienta, la rottura con il passato, ciò che non può essere ancora conosciuto né prefigurato. La futuristica Megalopolis è quindi utopia, perché sospende i rapporti con una qualsiasi storia, tradizione, e soprattutto si genera a partire da sé stessa. Possiede un’identità universale, propria degli archetipi.
Atto rituale: la catarsi esplode e disorienta, annulla con sé stessa ciò che l’ha preceduta, annienta cronologicamente ogni trasfigurazione di Dio in terra, dalla metafora statuaria classica, all’individualità narcisistica, sino alla sua ultima metamorfosi, quella dello schermo. Qualcosa di strabiliante per il suo non senso.
“L’ordine detiene la morte ma non può giocarla – vince soltanto chi gioca la morte contro di esso”
(Baudrillard, 2007).
Perché la tragedia greca era anche questo, strumento di conoscenza collettivo, per poter poi giocare liberamente la propria individualità. Ma in una realtà come quella americana, non c’è più natura alla quale fare riferimento per creare quella distanza che possa rendere il grattacielo oggetto estraneo, ultraterreno: il monolite kubrickiano di 2001: Odissea nello spazio passa oggi inosservato tra la rapidità dei passanti. Di qui il concetto del ripartire da zero per avere diretto accesso alla creatività, rispondendo a quell’architettura internazionale, funzionalista, che non include più l’esistenza dell’uomo nella sua pianificazione. Apoteosi della libertà di pensiero, che necessita dell’abbandono completo di ogni forma di condizionamento politico-sociale-religioso. Megalopolis è l’occasione di ricominciare, di creare un mondo nuovo. Questo è il rito, e gli americani potrebbero forse essere i primi ad auspicare che ciò avvenga, perché in fondo appartengono più di noi a una cultura primitiva, una forma desertica. Il che si rende necessario perché ogni ordine di questa realtà simulata risplenda della medesima forma soprannaturale, ma al contempo quest’estremizzazione estetica non fa altro che espandere l’irrazionalità di ogni referente storico. L’antico, ideale già perduto, è qui oramai pronto definitivamente a spegnarsi. È Roma quella che muore sacrificata all’utopia. Cesar non ha più bisogno di appartenere ad alcun contesto:
“Non mi interessa il mio posto nella storia. Ciò che mi interessa è il tempo, la coscienza e il coraggio”.
Egli diviene spettatore della sua stessa invenzione, della favola da lui creata, di un progetto generato dall’urgenza di salvaguardare il futuro del mondo ma che si sviluppa, in fondo, spinto dalla personale necessità di collimare nella propria creazione; è tuttavia una ricerca d’identità. D’altronde, a quale strumento può aver accesso l’uomo per rivelarsi, se non la sola riflessione individuale. L’utopia si annulla e ritorce su sé stessa nel momento in cui combacia con il desiderio di instaurare un nuovo modo di percepire il tempo, una nuova forma di socialità, in grado di superare quel rigetto insito alla vita che domina l’individuo contemporaneo: è in primo luogo questa la liberazione. Cambia allora la significazione del luogo, l’ambiente non è più assunto come scopo ultimo dell’azione. Non a caso Cesar è un urbanista, percepisce infatti prima degli altri la necessità di costruire realtà materiali che tornino a essere in grado di creare un immaginario, una simbolizzazione, senza rimanere debitrici di alcun passato. Nell’ultima speranza di salvaguardia della vita, ovvero nient’altro che la morte, avviene il riavvolgimento verso il nucleo materno. Ecco che il Megalon, la nuova materia progettata da Cesar per ricostruire la città, in grado di sovvertire le leggi della fisica e di rendere quindi illusoria ogni percezione del reale, trova la sua giustificazione. Questa non è altro che metafora di un nuovo linguaggio:
“Invece di progettare solo la forma o la sagoma di un oggetto, possiamo ora progettarlo a livello cellulare”.
Nella fiaba di Coppola, la stravaganza del kitsch di cui si riveste ogni ambiente è enfatizzata al punto tale, da esplicitarsi come rifiuto di ogni sorta di bellezza ideale.
“Nel kitsch il cambio di registro non assume funzioni di conoscenza, interviene solo per rafforzare lo stimolo sentimentale, e in definitiva l’inserzione episodica diventa la norma”
(Eco, 2011).
L’eccesso, il disprezzo di ogni misura, conferisce allora appartenenza e riconoscimento all’immagine, evitando quei rischi generati dall’affrontare il cambiamento. Ma in questo museo aperto al mondo, senza mura, dove tutto è storia dislocata, desimbolizzata, atta a giustificare comportamenti e costumi, dove riprodurre la realtà non ha più senso, la decisione di manipolarla e alterarla mette invece in risalto la sua inconsistenza. Se il film, nella postmodernità, ha abbandonato con il reale qualsiasi riflessione su di esso, sostituendolo a una forma puramente ludica d’intrattenimento, qui la contraffazione è tale da non avere altro scopo se non quello di dichiararsi come pura illusione. Agli estremi, tramite la spettacolarizzazione, ecco ritornare una riflessione autoriale. E così la novità nasce proprio, paradossalmente, dall’apoteosi del già visto. L’eccesso costante che permea il film, dalle scelte grafiche sino alla forte teatralità recitativa, viene inevitabilmente a creare un distacco percettivo tra pubblico e rappresentazione. Si tratta di voler evitare il senso unico nella ricezione artistica, dell’instaurazione di un nuovo rapporto con l’opera d’arte, che richiede quindi una partecipazione attiva. Auspicando una valutazione autonoma nello spettatore, il film esorta allora a una messa in dubbio del sistema, e lo fa estraniando nella sua esagerazione, dichiarata finzione. In questo disordine cognitivo e sensoriale, l’anti-utilità è spinta all’eccesso: ciò che Samuel Beckett usava compiere sulla sceneggiatura, Coppola decide di renderlo tramite la figurazione. Il costrutto drammaturgico non è abbandonato, finisce però inesorabilmente per dissolversi nell’assurdo dell’immagine. Quella corazza di sicurezza autoimposta nell’individuo contemporaneo, che non gli permette di mettere in dubbio la propria visione per poter preservare sé stesso in uno stato di autoconservazione, coincide con il momento della massima immedesimazione; è allora la rappresentazione stessa a dover essere discussa.
È così che oggi si può ancora attuare un tentativo di riflessione, forzando il fascino estetico al proprio limite. Non basta contestare le leggi della fisica, è necessario farlo con la realtà spettacolare. Così il mondo virtuale creato da Coppola nasce per negare sé stesso, mette in gioco l’oblio, di fronte al quale nessuna resistenza può reggere, nel declassamento di ogni raffigurazione a mera costruzione umana. Perché in fondo si tratta di un film politico che, conscio di non poter estendere il proprio messaggio in un discorso, decide di attuarlo tramite l’immagine. L’obiettivo non è di richiedere partecipazione emozionale, dal momento che ciò rilegherebbe il concetto a mero abbellimento della rappresentazione, ma insinuare più semplicemente un dubbio. “C’è ancora tanto da portare a termine, ma c’è il tempo?” si chiede Cesar una volta che la sua Megalopolis ha finalmente preso vita. Giunto a questo punto l’artista accetta di vivere in attesa, nel rifiutare la società istituita e la sua trasparenza, tra sete di potere e distrazioni mondane, annunciando un nuovo tempo. Egli sa così di star prendendo parte al cambiamento, il suo attendere acquista senso in favore di uno sguardo senza più vincoli, negando ogni forma di venerazione, decodificando ogni sistema valoriale. Azione tragica dove la vita si manifesta come la maggiore delle forze, perché è arrivato il momento in cui l’uomo, biologicamente, sente il bisogno di disinteressarsi a ciò che lo contiene: assumere sé stesso come punto di partenza, ecco ciò su cui ora può fare affidamento. Cesar prende in carico la divulgazione della sua scoperta come compito personale, perché rifiuta per primo di negare il mondo. In questo dramma di oggi, dove gli individui sono costretti a sottrarsi da loro stessi, egli si vuole liberare, esprimendo la necessità di un vivere sotto forma d’azione, in favore di una realtà in cui punti di riferimento siano soltanto la coscienza e le capacità inventive stesse di ogni uomo. L’atto creativo si dimostra quindi una necessità individuale, ma al contempo
“Non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora”
(Deleuze, 2013).
Il che la rende di per sé utopica. È così che la ciclicità del tempo può ripetersi. Rispetto all’uomo mediocre quindi, che ha ucciso Dio rinnegando la propria azione, mantenendo le chiese come simulacri e sepolcri del suo cadavere, in questa riterritorializzazione sorge l’alba dell’uomo nuovo. Nella scena finale del film, quando il tempo si ferma per un’ultima volta, emerge il bambino, emblema delle future generazioni. Egli è caos, volontà creatrice, che compiendo uno scatto evolutivo, riconquisterà il mondo da sé.
“Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Si, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo”
(Nietzsche, 1986).
* Questo articolo è l’esito di un lavoro di ricerca svolto all’interno del corso di “Storia e teoria dei media” tenuto da Antonio Rafele presso l’Università La Sapienza di Roma.
- Pierandrea Amato, La genealogia e lo spazio. Michel Foucault e il problema della città, in Filosofie della metropoli. Spazio, potere, architettura del Novecento, a cura di Matteo Vegetti, Carocci, Roma, 2009.
- Jean Baudrillard, America, SE, Milano, 2016.
- Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2007.
- Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2014.
- Vincenzo Buccheri, Lo stile cinematografico, Carocci, Roma, 2010.
- Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 2017.
- Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio, Napoli, 2013.
- Gilles Deleuze, L’immagine tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino, 2017.
- Umberto Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano, 2011.
- Michel Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis, Milano, 2000.
- Ritter Joachim, Estetica e modernità, Marinotti, Milano 2013.
- Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2023.
- Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano, 1986.
- Massimo Recalcati, Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019.
- Tom Wolf, Maledetti architetti. Dal Bauhaus a casa nostra, Bompiani, Milano, 1997.