Fiumi di storie in una coppa:
la ricerca del Santo Graal

Matthias Egeler
Il Santo Graal
Storia del calice di Cristo
da Artù a Indiana Jones
Traduzione di Carla Salvaterra

e Claudio Lagomarsini
Il Mulino, Bologna, 2024
pp. 131, € 15,00

Matthias Egeler
Il Santo Graal
Storia del calice di Cristo
da Artù a Indiana Jones
Traduzione di Carla Salvaterra

e Claudio Lagomarsini
Il Mulino, Bologna, 2024
pp. 131, € 15,00


Una nuova suggestiva sintesi, quella del filologo tedesco Matthias Egeler con il suo Il Santo Graal. Storia del calice di Cristo da Artù a Indiana Jones, edito dal Mulino, ci propone il Graal come una sorta di mito originario dove potere e religione si fondono in un oggetto, una reliquia legata alla morte di Gesù, cioè la coppa dove Giuseppe d’Arimatea ne avrebbe raccolto il sangue stillato dal costato trafitto dalla Lancia di Longino. Un mito sacrificale in cui si condensano le aspettative simboliche e normative di una società in cerca di una giustificazione sovrannaturale, poiché, come chiarisce Egeler, il Graal non è solo “un fenomeno artistico e letterario”, ma “un elemento della storia religiosa europea”.

Le fonti della leggenda
Le tradizioni sulle origini e la ricerca di tale misterioso oggetto fiorirono in Europa tra l’ultimo quarto del XII e il primo del XIII secolo. Gli elementi fantastici che vennero a fondersi in queste storie furono molteplici ed eterogenei quanto a origini, ma di fatto sembra ragionevole ammettere che la trama complessiva dei racconti rispondesse a una sorta di struttura mitologica archetipica, e quindi presente sotto diverse forme in svariate tradizioni religiose sia occidentali che orientali. Sulla corrente identificazione del Graal, sull’origine della parola e sulla natura dell’oggetto a cui si riferisce s’è polemizzato per lustri. Di fatto sappiamo che nei vari testi del ciclo il Graal è rappresentato essenzialmente sotto tre forme: un oggetto immateriale, una pietra, una coppa, bacino o vassoio – una forma mista è una coppa ricavata da una pietra. Per quanto riguarda poi l’etimologia, in passato s’è molto discusso: l’ipotesi più attendibile è forse quella che fa derivare il termine antico-francese “graal” da una voce tardo latina, “gradalis”, denotante un recipiente “ex ligno, terra metallove”. Si tratterebbe per questa etimologia di una derivazione da un “cratalis” (da “cratus”) derivato da “crater” o “cratalem” derivato anch’esso da “crater”, che significa “vaso, coppa”, ma anche “bacino, cratere”.
La versione più antica a noi pervenuta della storia del Graal è il poema incompiuto Le Roman de Perceval ou le conte du Graal di Chrétien de Troyes (ca. 1180), un chierico tra gli altri al servizio di Maria d’Aquitania, figlia di Eleonora e moglie di Enrico I di Francia. Quasi contemporaneo di Chrétien è il “Romanzo” di Robert de Boron (ca. 1190) noto come Giuseppe d’Arimatea, prima parte di una trilogia che doveva comprendere anche un Merlino ed un Perceval. Segue una filza quasi interminabile di testi il cui apice narrativo e dottrinale sono il Parzival di Wolfram von Eschenbach (ca. 1200-1210) che tradisce influssi orientali, segnatamente iranici, e la Queste del Saint Graal, un romanzo in prosa scritto in francese antico (lingua d’oïl) forse da un monaco cistercense (ca. 1230).


The Holy Grail, immagine di Robert Wilson riprodotta per gentile concessione dell’autore.

Le varie narrazioni sono concordi nel collocare il Graal in un Centro nascosto, accessibile solamente a rari eletti (in Chrétien de Troyes, il Castello del Graal; in Robert de Boron, la residenza sconosciuta dei discendenti di Bron “verso Occidente”; in Wolfram von Eschenbach, Montsalvatsche (Montsalvat); nella Queste del Saint Graal, Corbenic poi Sarraz). Il Graal è celebrato in una liturgia speciale (il “servizio del Graal”) alla quale si è attribuito un carattere ‘magico’, mentre, in tutte le opere citate, il suo potere miracoloso è chiaramente riferito alla stessa presenza divina – simboleggiata in Wolfram, ad esempio, dall’ostia discesa dal Cielo sulla Pietra tutti i Venerdì Santi (cfr. Liborio, 2005). Questa liturgia è assicurata da una cerchia sacerdotale sconosciuta al mondo, come il suo deposito segreto, la cui via di trasmissione è distinta fin dall’origine dalla successione apostolica – in Robert e nei suoi continuatori, la rivelazione personale del Cristo a Giuseppe d’Arimatea; in Wolfram, l’investitura celeste di Titurel e del suo lignaggio. A ciò si aggiunga che la Cerca è, per definizione, una via attiva di accesso al divino; una via riservata ai soli Cavalieri della Tavola Rotonda, istituzione centrale della Cavalleria “terrestre”, il cui carattere iniziatico non può esser contestato. Gli stessi iniziati della Tavola Rotonda vi entrano solo per scelta e per iniziativa personale: essa non ha nulla di casuale o di individuale, ma conduce l’eroe eletto, attraverso prove predestinate, tipiche e sovrannaturali, fino al grado supremo, allo stesso tempo sacerdotale e regale, della Cavalleria celeste.

“L’insegnamento del Graal può dirsi quindi un magistero esoterico, una peculiarità che lo distingue nettamente dal magistero della Chiesa, senza peraltro contraddirlo, e senza che la Chiesa ne abbia mai discusso l’ortodossia”.
(Ponsoye, 2016).

Metamorfosi esoteriche del Graal
Fonte ispirativa dell’esoterismo occidentale, il mito del Graal può dirsi abbia assunto tale fisionomia occulta a partire da Richard Wagner (1813-1883) e il suo Parsifal; se Chrétien de Troyes fu l’inventore del Graal medioevale, si può affermare che Wagner fu il fondatore del suo ciclo moderno. L’interesse per il tema risale all’inverno 1841-1842 quando, durante il suo primo soggiorno parigino, incominciò a prendere conoscenza della leggenda graaliana anche grazie a un amico, il filologo Samuel Lehrs (1806-1843). Tale interesse si accrebbe con il passare degli anni, trovando una prima espressione nel Lohengrin (1850) e affiorando insistentemente durante la composizione del Tristano e Isotta (1865) sino a sfociare nella stesura del Parsifal, che avvenne fra il 1877 e il gennaio del 1882. Il testo wagneriano riprende nelle linee fondamentali la storia narrata da Wolfram von Eschenbach, cui si aggiungono elementi ricavati da altri romanzi medioevali. Ma nel Parsifal la vicenda appare brutalmente accorciata e limitata al suo essenziale nucleo iniziatico: le prove che il protagonista deve superare per rendersi degno della custodia del Graal e guarire la ferita che fa soffrire il re Amfortas. Cristianesimo e religioni orientali, medievalismo ed esotismo, iniziazione e arte: il Parsifal di Wagner conteneva già tutti gli ingredienti di cui si sarebbe nutrito il moderno mito del Graal, anche nelle sue manifestazioni più grossolane e più inquietanti.

“Gli ambienti artistici parigini si rivelarono subito i più ricettivi a tale mutazione: in essi il wagnerismo dilagò come una vera e propria epidemia. Il culmine dell’esaltazione fu raggiunto dopo la rappresentazione del Parsifal a Bayreuth nel 1882, presto seguito dalla morte di Wagner, evento dalla risonanza immensa”
(Zambon, 2019).

Lo scrittore e poeta Edouard Dujardin (1861-1949) creò, insieme al filosofo e scrittore Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), la Revue wagnérienne, alla quale collaborarono nomi grandi e piccoli della cultura francese “fin de siècle”. In questa generale infatuazione, il ridicolo era quasi inseparabile dal sublime. Il pellegrinaggio a Bayreuth era diventato obbligatorio come quello a Compostela o in Terrasanta nel Medioevo. Il tema graaliano affascinò soprattutto uno stravagante scrittore di origine lionese, Joséphin Péladan (1852-1918), autore di numerosi saggi e romanzi tra cui il fortunatissimo Le vice suprême (1884). Molto attivo anche nel campo dell’occultismo e delle società segrete, nel 1893 dopo essersi distaccato dalla “Rosa+Croce cabbalistica” di Stanislas de Guaita e Papus e aver fondato il “Terzo ordine intellettuale della Rosa+Croce cattolica” (1890), pubblicò un manifesto intitolato Constitutions de la Rose+Croix, le Tempie et le Graal, dove il programma spirituale della sua organizzazione si rivestì di magnificenti suggestioni wagneriane. Più tardi, nel 1906, pubblicò un libriccino, Le secret des troubadours: de Parsifal à Dom Quichotte, che a ragione può ritenersi il testo fondatore di un nuovo mito letterario-religioso: quello del Graal “cataro” o “pirenaico” (cfr. Péladan, 2013). Riprendendo le elucubrazioni del politico e letterato Eugène Aroux (1773-1859), che sulla scia del pittore e poeta Dante Gabriel Rossetti (1828-1882) interpretava tutta la letteratura medievale come una espressione ‘cifrata’ delle idee religiose e politiche degli eretici Albigesi, Péladan diede ampio rilievo al tema graaliano, ormai filtrato e amplificato attraverso l’opera di Wagner.  Nacque quindi in tale contesto il letale accostamento fra Monsalvat e Montségur, ultima roccaforte dei Catari, con riferimento a un dramma di Pierre-Barthélemy Gheusi (1865-1943), intitolato appunto Montsalvat (1900).

La convinzione che Montségur fosse il castello del Graal si diffuse presto negli ambienti occultistici del Mezzogiorno francese, dando vita alle più fantasiose speculazioni e ricostruzioni storico-religiose. Antonin Gadal (1877-1962), direttore del “Syndicat d’Initiative” di Ussat-les-Bains, piccola località montana dell’Ariège, ebbe certamente un ruolo decisivo nell’elaborazione di questo edificio mitografico. Il suo libro più importante è Sur le chemin du Saint-Graal, rimasto a lungo inedito e pubblicato solo dopo la Seconda Guerra Mondiale dalle edizioni del “Lectorium Rosicrucianum” di Haarlem in Olanda, cui Gadal (che si compiacque di modificare il proprio nome in Galaad) aveva nel frattempo aderito diventando il primo presidente della sezione francese. In esso è descritta l’iniziazione catara del giovane Matheus nelle grotte di Ussat-Ornolac, sulle pendici montuose che fiancheggiano l’Ariège. Gadal attua, in un contesto romanzesco, una scoperta e ingenua falsificazione delle fonti storiche (Gadal, 1987).
Otto Rahn era un giovane tedesco affascinato da Montségur, centro di irradiazione della dottrina catara, in cui credette di individuare il castello del Graal. Nel 1933 usciva infatti il suo La crociata contro il Graal; le tesi centrali del libro erano ispirate ai due neognostici francesi Aroux e Péladan: “Tutti i trovatori erano catari, tutti i catari erano trovatori”; mentre la retorica cortese (gnostica) era recepita come il linguaggio segreto dell’eresia. A livello accademico si tratta di concezioni ovviamente mai prese in considerazione, ma proprio per questo da sempre hanno goduto di grande diffusione (Rahn, 1999). La figura di Rahn è suggestiva poiché la sua ispirazione e la formazione culturale lo distinguevano dai fantasiosi occultisti ariosofi dediti alle rune e ai megaliti, spingendolo a ricercare una mediazione tra la tradizione giudaico-cristiana (gnostica) e quella nordico-germanica (Bernadac, 1978).

A Berlino nel 1929 il venticinquenne Rahn conobbe lo svizzero Paul Ladame, giovane protestante di origini ugonotte, che suggerì a Rahn il progetto di una tesi dottorale sulle relazioni tra il Parzival di Wolfram von Eschenbach e la cultura occitanica. Dopo un periodo a Ginevra, si trasferì quindi in Francia: non è possibile determinarne con esattezza la data – ma un rapporto di polizia francese del 1938 registrò un primo viaggio nel Midi nel luglio/agosto 1930. Dopo una entusiastica lettura de La crociata contro il Graal grazie alla segnalazione di una collaboratrice, nel 1935 Karl Maria Wiligut, conosciuto anche come Jarl Widar, Lobesam e Karl Maria Weisthor (1866-1946), il Rasputin di Himmler, assunse Rahn nella Forschungsgemeinschaft Deutsches Ahnenerbe e.V., meglio conosciuta come Ahnenerbe, la sezione delle SS dedicata alle ricerche in campo storico-etnologico e razziale.  Con l’ingresso nelle SS (marzo 1936), Rahn passò nel Dipartimento di preistoria e protostoria del Rasse- und Siedlungshauptamt (“Ufficio centrale per la razza e gli insediamenti”), diretto da Wiligut/Weisthor. La sua carriera fu piuttosto rapida: in aprile fu promosso sergente, l’anno seguente sottotenente. Nell’aprile del 1937 vide la luce il suo secondo libro La corte di Lucifero (Luzifers Hofgesind): l’opera è una sorta di resoconto di un viaggio dalla Linguadoca all’Islanda, dove nel 1936 Rahn aveva partecipato a un’infruttuosa spedizione SS alla ricerca di un luogo originario del culto di Odino e di Thor (Rahn 1989). Rahn captò l’eresia catara nell’ariosofismo, presentandola come specifica declinazione di una sapienza ‘nordica’ di opposizione al credo giudaico-cristiano, ritenuto uno scadimento di un originario insegnamento di salvezza. A ciò seguì la crisi: le dimissioni dalle SS nel marzo 1939, con un atto ufficiale datato 17 marzo, e postumo; nella notte tra il 13 e il 14 marzo Rahn trovò la morte nei pressi di Söll, sulle pendici del Wilde Kaiser (Alpi austro-tedesche). Una morte senza inchiesta né autopsia, trasformata nel necrologio sul Berliner Ausgabe del 18 maggio (a firma del Gruppenführer Karl Wolff) in un incidente durante una tempesta di neve: forse una morte per mano propria, volontaria, oppure esito di un ordine SS – per evitare un internamento per omosessualità (secondo altre infamanti voci di corridoio) o un espulsione per impossibilità a dimostrare la purezza del proprio sangue ariano, che avrebbero indebolito Himmler, impegnato in uno scontro interno con Martin Bormann. Sta di fatto che la vicenda di Rahn, le sue compromissioni con il nazismo, hanno di fatto costruito un solido impianto immaginifico sul Graal e i suoi legami con la gnosi catara.

L’eterno ritorno del mito
Rielaborato in modo scarsamente originale da una schiera di appassionati, il mito di Montségur castello del Graal è tuttora al centro di una abbondante letteratura pseudoesoterica di consumo. Il suo prodotto più ambizioso e strabiliante è certamente The Holy Blood and the Holy Grail (1979) di Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, che unisce il tema del ‘Graal cataro’ a un altro mito occultistico del Ventesimo secolo: quello di Rennes-le-Château, piccolo villaggio pirenaico in cui un curato della fine dell’Ottocento – l’abate Bérenger Saunière (1852-1917) – avrebbe scoperto un misterioso tesoro con il quale sarebbe diventato smisuratamente ricco. Gli autori di The Holy Blood and the Holy Grail, basandosi su ampie trattazioni di carattere storico e letterario (sui Catari, sui Templari, sulla leggenda del Graal, sulla dinastia dei Merovingi, etc.), riscrivono la storia sacra in chiave apocrifa. Gesù Cristo non sarebbe morto sulla croce ma, insieme a Maria Maddalena diventata sua moglie, si sarebbe rifugiato nel Sud della Francia; da lei avrebbe avuto dei figli, quindi dei rampolli di ‘sangue divino’. Sulla base d’una antica interpretazione paretimologica dell’espressione, il Saint Graal quindi non sarebbe altro che il “sang réal”, il ‘sangue reale’ dei discendenti di Gesù, destinati in virtù di ciò a regnare sulla Francia e sul mondo. A questo lignaggio sacro sarebbero appartenuti i Merovingi. Dalla loro caduta, una società segreta opererebbe instancabilmente per ristabilirne la sovranità; si tratterebbe del fantomatico “Priorato di Sion”, in realtà creato di sana pianta nel 1953 da un curioso personaggio, Pierre Plantard (1920-2000), un disegnatore tecnico con simpatie nell’estrema destra francese (Baigent, Leigh e Lincoln, 1982).

Numerosissime sono state anche le riprese propriamente letterarie (o paraletterarie) e artistiche del tema graalico: non solo nel romanzo o nel teatro, ma anche nella fantascienza (da Arthur Machen, che era affiliato alla Golden Dawn, ad autori di fantascienza come Philip José Farmer e Jack Vance), nel cinema e persino nel fumetto. In tutta questa produzione tendono a prevalere i tratti spiritualistici ereditati da Wagner e dalla tradizione esoterica, magari arricchiti con l’apporto dei testi medioevali sempre più largamente accessibili in originale oppure in traduzione. Gli aspetti avventurosi e fantastici del mito si prestavano ancor meglio allo sfruttamento cinematografico; il periodo più fertile, da questo punto di vista, sono stati certamente gli anni Ottanta, che si aprono con Excalibur (1981) di John Boorman (basato su Le morte d’Arthur di Thomas Malory) e si chiudono con Indiana Jones e l’ultima crociata (1989) di Steven Spielberg. Generalmente in questa produzione, tanto narrativa che cinematografica, i caratteri cristiani del Graal tendono a scomparire, lasciando spazio a motivi arcaici oppure esotici; conseguenza di un atteggiamento sincretistico tipico di tutta la ripresa contemporanea del mito. Infatti è proprio il cinema ad offrirci le reinterpretazioni più libere e originali.
Fedele trasposizione del romanzo di Chrétien de Troyes, fondatore del ciclo graalico, è Perceval le Gallois (1978) di Éric Rohmer, forse il solo film che si proponga, sia pure con risultati discutibili, di recuperare il senso originario del mito, operando una estrema stilizzazione del racconto, ambientato in un’unica scenografia  e dando così il massimo risalto al percorso iniziatico del protagonista, indirizzato verso la sua maturazione cavalleresca e religiosa; la teatralizzazione della storia tocca il culmine nella rappresentazione della Passione con cui si conclude il film, e in cui si risolve austeramente la Cerca, – unica libertà che Rohmer si concede rispetto al testo di Chrétien, da interpretare forse come un più o meno inconscio omaggio a Wagner. Di natura completamente opposta è l’operazione compiuta da Terry Gilliam ne The Fisher King (1991), che ambienta il mito medioevale nella New York dei giorni nostri, inscenando la ricerca di un Graal protetto elettronicamente nella collezione di un ricco miliardario della Fifth Avenue; dono infantile fatto di povera latta, il Graal diventa qui il simbolo,  puramente umano, di una resistenza al cinismo dei media in nome di una parola semplice e autentica – “folle” – che acquista in tal modo una virtù terapeutica: la parola del clochard, del Re Pescatore, che ridotto a vivere tra i rifiuti dopo la perdita della moglie, causata proprio dai meccanismi perversi della comunicazione di massa, fa della sua devastante piaga interiore un mezzo di redenzione per sé e per gli altri.


Frame da Perceval le Gallois (1978) di Éric Rohmer.

La tematica graalica è tornata d’attualità anche grazie alla suggestiva e fantasiosa ipotesi formulata dal giornalista e scrittore Graham Hancock nel libro The Sign and the Seal (1992) dove il Graal è in realtà l’Arca dell’Alleanza. “Si tratta di un diario di nove anni di ricerche tra Etiopia, Egitto ed Israele alla ricerca dell’Arca dell’Alleanza. Hancock crede che l’Arca sia stata rimossa dal tempio di Gerusalemme, dagli stessi sacerdoti adibiti alla sua protezione, durante la tirannia del malvagio e blasfemo Manasse, che regnò sulla Giudea dal 687 al 643 ca. a.C. Custodita per quasi due secoli in un piccolo tempio costruito appositamente sull’isola di Elefantina nell’Alto Egitto, l’Arca venne rimossa attorno al 470 d.C. e portata in gran segreto in Etiopia, sull’isolotto di Tana Qirqos (nella parte orientale del lago Tana) e lì rimase per circa ottocento anni, protetta da un’affollata comunità ebraica. Nel corso del V secolo d.C. giunse in possesso della Chiesa etiopica e venne trasportata nell’allora capitale del regno, Axum, per rimanervi presumibilmente fino ai nostri giorni all’interno della cattedrale di Nostra Signora Maria di Sion, edificata nel IV secolo durante il regno di Ezanà, primo re cristiano d’Etiopia. Le tradizioni della cristianità etiopica affermano però che l’Arca venne rubata dal tabernacolo del tempio e portata nella loro terra dal giovane Menelik I, il figlio primogenito che Makeda, la Regina di Saba, aveva concepito con re Salomone (cfr. Hancock 1995). Per Hancock il Santo Graal non sarebbe altro che la stessa Arca dell’Alleanza cercata dai Templari sulla “spianata del Tempio” a Gerusalemme, dove s’erano insediati a partire dal XII secolo a seguito della prima Crociata. Venuti però sapere dove si trovava realmente, avrebbero mandato un loro contingente in Etiopia con il fine d’impossessarsene con ogni mezzo. La Chiesa etiopica, nel timore di perdere l’Arca, nel 1306 avrebbe inviato degli emissari presso papa Clemente V: la paura dei cattolici che i Templari acquisissero i poteri derivanti dal possesso della sacra reliquia, sarebbe poi uno dei motivi per cui l’Ordine venne soppresso e tutti i suoi membri imprigionati e torturati.
L’interpretazione del Graal come mito sostanzialmente irrazionalistico e in parte ‘reazionario’ trova piena espressione ne Il cavaliere inesistente (1959) di Italo Calvino (1923-1985), terzo episodio della trilogia fantastica I nostri antenati. I cavalieri del “Sacro Ordine del Gral” (si noti la grafia germanica, wagneriana, adottata dallo scrittore) sono descritti in toni caricaturali; una parodia di una cerchia mistica, estraniata dalla realtà e priva di ogni coscienza morale e di tolleranza verso chi non appartiene al loro Ordine. I cavalieri s’aggirano nel bosco come sonnambuli indossando elmi ornati di ali bianche e suonando l’arpa, devoti al loro Re che siede sotto un baldacchino, immobile come una mummia e rapito nei suoi ignoti pensieri. Come uno di loro spiega al giovane Torrismondo, che in un primo tempo cerca di farsi iniziare all’Ordine, i

“Cavalieri del Gral” hanno rinunciato completamente alla loro volontà e si sono immedesimati con la natura e il cosmo, diventando semplici marionette pervase “dall’infinita forza del Gral”
(Calvino 2011).

Una scimiottatura che si può spiegare nell’impegno sociale e politico dell’autore: Calvino, ex-partigiano e poi militante nelle file del Partito Comunista Italiano (dal quale si allontanerà nel 1957), vede nel Graal la massima espressione simbolica del potere autocratico. Oltre al dramma wagneriano, la polemica di Calvino è indirizzata all’interpretazione guerriera e ‘ghibellina’ del mito elaborata da Julius Evola nel suo Il mistero del Graal (Evola, 1997). Ma in filigrana si può anche leggere una condanna dei regimi totalitari, dato che ai Cavalieri dell’Ordine si oppongono gli abitanti della Curvaldia, terra dove vigono libertà e uguaglianza. Calvino afferra e condanna il senso oppressivo di un simbolo, il Graal, nato dalla morte e dalla sofferenza del Cristo. Ancor più nette sono le implicazioni teoriche e ideologiche del tema graaliano ne Il pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco (1932-2016). Il Graal, associato ai temi classici dell’occultismo, è al centro del “Piano”, il grande complotto planetario per dominare il mondo di cui i tre protagonisti del romanzo si dilettano a ricomporre le immaginarie tessere e che infine prende corpo inaspettatamente, portando a un drammatico epilogo. Il “Piano” – di cui il Graal rappresenta la finalità – è evidentemente una metafora di quella che nei suoi scritti teorici Eco ha chiamato la “semiosi ermetica”, un modello interpretativo dei testi e del mondo basato sul principio dell’analogia universale, cioè su una forma di ermeneutica infinita il cui unico contenuto è l’affermazione della coincidenza degli opposti, un vuoto contenente un Segreto ultimo, indicibile e inesistente (cfr. Eco 2018).  Il sincretismo ermetico non indurrebbe i suoi seguaci ad un atteggiamento di umiltà: al contrario, poiché diffida di tutte le determinazioni e di tutte le opere, crea un vuoto colmato dalla presunzione di detenere il Segreto del mondo; il fatto che questo segreto sia inesprimibile pone l’adepto dell’esoterismo ermetico al riparo da ogni verifica e da ogni controllo e potenzia la sua arroganza (cfr. Eco 1990; Perniola 2001). È sulla base di queste riflessioni che Matthias Egeles conclude la sua analisi osservando come l’eterno ritorno del Graal nell’immaginario occidentale rappresenti, oggi, la dimostrazione “di un presente occidentale forse distaccato da alcune forme di religione ecclesiastica istituzionalizzata e ufficiale, ma affatto distaccato dal potere di fascinazione dei simboli religiosi”.

Letture
  • Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, Il Santo Graal, Mondadori, Milano, 1982.
  • Christian Bernadac, Le mystère Otto Rahn (le Graal et Montségur). Du Catharisme au nazisme, Éditions France-Empire, Parigi, 1978.
  • Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, con uno scritto di Paolo Milano, Mondadori, Milano, 2011.
  • Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, 1988; ultima ed. La Nave di Teseo, Milano, 2018.
  • Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990.
  • Julius Evola, Il mistero del Graal, con un saggio introduttivo di Franco Cardini, appendice e bibliografia di Chiara Nejrotti, Edizioni Mediterranee, Roma, 1997.
  • Antonin Gadal, Montréalp de Sos, il castello del Graal, la montagna dei Re, Basilisco, Genova, 1987.
  • Graham Hancock, Il mistero del Sacro Graal. Origine e storia di una tradizione segreta, Piemme, Casale Monfettato (AL), 1995.
  • Mariantonia Liborio (a cura di), Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, con un saggio introduttivo di Francesco Zambon, Mondadori, Milano, 2005.
  • Joséphin Péladan, Le vice suprême, Éditions des autres, Parigi, 1979.
  • Joséphin Péladan, Il segreto dei trovatori. Da Parsifal a Don Chisciotte, a cura di Ezio Rubinelli, Arktos, Carmagnola (TO), 2013.
  • Mario Perniola, Le ultime correnti dell’estetica in Italia, in Nino Borsellino, Lucio Felici (a cura di), Storia della letteratura italiana, XI/3: Il Novecento. Scenari di fine secolo, Tomo 1, Garzanti, Milano, 2001.
  • Pierre Ponsoye, L’Islam e il Graal. Studio sull’esoterismo del Parzival di Wolfram von Eschenbach, Studio Editoriale, Milano, 2016.
  • Otto Rahn, Crociata contro il Graal. Grandezza e caduta degli Albigesi, a cura di Claudio Bonvecchio, Barbarossa, Saluzzo (CN), 1999.
  • Otto Rahn, La corte di Lucifero. I càtari guardiani del Graal, a cura di Alessandra Colla, Barbarossa, Saluzzo, 1989.
  • Francesco Zambon, Metamorfosi del Graal, Carocci, Roma, 2019.
Visioni
  • John Boorman, Excalibur, Warner Home Video, 2011.
  • Terry Gilliam, La leggenda del Re Pescatore, Columbia TriStar Home Entertainment, 2013.
  • Eric Rohmer, Perceval le Gallois (Il fuorilegge), Les Films du Losange, Losange, Francia, Italia, Germania, 1978.
  • Steven Spielberg, Indiana Jones e l’ultima crociata, Paramount Home Entertainment, 2011.