I tempi stavano cambiando. L’avviso visionario spedito sessant’anni fa da Bob Dylan ai quattro angoli del mondo si avvertiva eccome anche in Italia. La vera novità, il motore del cambiamento era stato l’avvento di un nuovo soggetto sociale, vitale, creativo, desiderante, irrotto in maniera prepotente sulla scena occidentale: i giovani. Una rivoluzione copernicana iniziata una volta messa alle spalle la pesante eredità lasciata dal conflitto mondiale, la miseria e il dolore, la povertà estrema e la sofferenza che tra lutti e macerie avevano mantenuto chiuso lo spazio tra la fanciullezza e l’adultità. Dapprima negli USA e successivamente in Europa, nel secondo dopoguerra sorsero nuove modalità di consumo del tempo libero resosi disponibile dal prolungamento dell’età scolastica, dalla crescita del reddito pro capite e da forme inedite di socializzazione, di stare insieme, complice un forte aggregatore a misura di giovani: la musica rock. Questo in poche righe lo scenario comune all’alba dei Sessanta nei paesi industrializzati, tutti contraddistinti da una crescente cultura del consumo, nella quale le merci assunsero valore simbolico, divenendo espressioni di successo e realizzazione dei singoli individui, mentre parallelamente la capacità di spesa cresceva per essere all’altezza dei nuovi tempi.
Nuovi consumi e vecchi moralismi
Accadeva anche in Italia, nonostante la polarizzazione forte tra culture dominanti parimenti ancorate a valori morali contrastanti con il consumismo, la cattolica e la marxista, non sufficienti però a impedire il diffondersi di quei nuovi modelli di consumo, grazie anche all’esistenza di una dimensione più edonistica che, intuì già allora Francesco Alberoni, era comunque presente in Italia (cfr. Alberoni, 1968). Tratti specifici italiani, non esclusa la rappresentazione del fenomeno “giovani e musica”, che assunse presto caratteristiche tipicamente nostrane dando vita a una miscela originalissima di candore e sofisticatezza, particolarmente evidente in quel sottogenere cinematografico ribattezzato musicarello al quale Marta Cagnola e Simone Fattori hanno dedicato un vivace, appassionato e documentatissimo libro: Musicarelli. L’Italia degli anni ’60 nei film musicali. In esame una settantina e passa dei circa cento film annoverabili come tali che vennero prodotti nell’arco di una quindicina di anni. Alla pari di qualsiasi altro fenomeno culturale, anche per il musicarello si pone la questione della genesi: quando iniziò questa storia? Tutto sommato correttamente, gli autori individuano in un film per certi versi ancora acerbo, ma non troppo, rispetto ai canoni del sottogenere musicarello il fatidico inizio: Lazzarella (1957) per la regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Il perché è presto detto:
“questa pellicola, pur rientrando completamente nel genere melodrammatico musicale degli anni Cinquanta, getta le basi per le strutture di tutti i musicarelli successivi […] Le canzoni del film, a partire da quella del titolo, sono interpretate da Aurelio Fierro (che con Lazzarella proprio in quel 1957 vinceva il Festival di Napoli) e la partecipazione di Domenico Modugno, che della canzone è autore insieme a Riccardo Pazzaglia. I due cantanti, pur partecipando al film, hanno ruoli marginali, quasi come fossero una colonna sonora vivente. La trama è invece lo schema che sarà ricalcato, con poche varianti e altrettante digressioni, da tutti i musicarelli del decennio successivo”.
Curiosamente sarà proprio Modugno a chiudere nel 1975 la stagione classica del musicarello, con un film che è ibrido a sua volta: Piange il telefono:
“… pellicola del 1975 che prende il titolo e la trama da un grande successo – appunto – di Modugno, che ne è anche il protagonista, pur avendo in sé alcune peculiarità del musicarello, risulta un film classico, con un cantante che fornisce una prova attoriale tradizionale senza mai cantare una canzone, men che meno all’improvviso e senza nessun contesto che la giustifichi. Ne scaturisce un dramma su una figlia non riconosciuta, con corollario di avventure africane e una marcata connotazione antiabortista: un film che esce dal genere musicarello e ne sancisce la fine definitiva”.
Si chiuse allora quello che fu un fenomeno di costume, cinematografico e musicale irripetibile, come ritengono anche molti dei protagonisti di quelle pellicole intervistati per l’occasione da Cagnola e Fattori a chiusura di un viaggio nel tempo per niente nostalgico (il volume è suddiviso in tre sezioni, la prima di analisi del fenomeno, la seconda composta da schede relative ai film e la terza con interviste ai protagonisti). C’è una scena chiave (in realtà innumerevoli, ma si va a gusti), esemplare, che ben racconta quel cocktail mix di ingenuità e raffinatezza offerto dai musicarelli. Una scena che val la pena riportare. È tratta da uno dei pezzi da novanta di quel catalogo: In ginocchio da te, interpretato da Gianni Morandi e Laura Efrikian che su quel set si innamorarono sul serio avviando una love story che appassionò soprattutto le teen-ager. L’anno è quello dell’avviso dylaniano, il 1964. Come all’epoca James Bond, il film ebbe dei seguiti andando a comporre una trilogia con Non son degno di te (1965) e Se non avessi più te (1966).
La scena è questa.
Carla Todisco (Laura Efikian) rientra a casa dopo essere uscita con Gianni Traimonti (notare il cognome affibbiato a Morandi), giovanotto con velleità canore che presta servizio di leva a Napoli nella caserma gestita dal padre di lei, il maresciallo Antonio Todisco (Nino Taranto), dai roboanti principi morali ma dalla prassi non proprio inappuntabile. La ragazza rientra nuovamente tardi, almeno secondo il giudizio del suo burbero genitore, che torna all’attacco per conoscere l’identità del giovanotto col quale la figliola si incontra. Inizia a interrogarla all’ingresso e prosegue mentre si dirigono in sala da pranzo dove c’è la mamma, Santina De Micheli-Todisco, interpretata da Dolores Palumbo, anch’ella proveniente dalla grande scuola partenopea.
“Maresciallo Todisco: Allora, me lo vuoi dire chi è questo Fantomas vestito da marmittone
Carla: No, perché se te lo dico tu lo metti dentro.
Maresciallo Todisco: Non solo lo metto dentro, ma non lo faccio uscire più finché non ti è passato lo spiripicchio!
Carla: Papà questo non è uno spiripicchio.
Maresciallo Todisco: No, eh!
Carla: Lui mi piace
Maresciallo Todisco: Lui chi?
Mamma: Ma lasciala mangiare, le si freddano i tubettini.
Maresciallo Todisco: La senti, eh? La senti? Ma come nostra figlia prende la cotta per un uomo del mistero e tu ti preoccupi dei tubtielli!”.
Emancipazione femminile, conflitto generazionale, valori e identità, tempo libero e gioventù, ecco come un grande contraddittorio nel suo insieme condì un piatto di tubtielli che rischiavano di raffreddarsi. Prendendo a prestito voci, volti e modi della commedia, avvalendosi di una colonna sonora volta per volta composta dai successi del momento, attualissima nel suo risuonare ovunque, dagli apparecchi televisivi ai jukebox, il musicarello arrotondava spigoli, attenuava contrasti, addolciva confronti, narrando la genesi dell’universo giovanile, raccontando i giovani e al tempo stesso concorrendo a crearne un’identità. I musicarelli erano piuttosto veritieri, in realtà, poiché non alteravano granché il profilo reale della gioventù italiana. Un risultato ottenuto mettendo in campo non poche risorse, anche se dal punto di vista economico si trattava di prodotti a basso costo. Notevole era invece il parterre dei protagonisti suddivisi in due grandi squadre, da un lato dei campioni della commedia, attori consumati, nomi di spicco e caratteristi, a iniziare proprio da Nino Taranto, esemplare perché nella realtà anch’egli cantante oltre che attore. In quel team, ricordiamolo, giocò la sua parte anche l’immenso Totò. Dall’altro i/le cantanti/e di successo, in prima fila, assieme a Morandi, Rita Pavone, Caterina Caselli, Al Bano, Little Tony e Bobby Solo e tanti altri ancora.
I musicarelli a modo loro non tralasciarono nulla di quanto si andava verificando in quegli anni tumultuosi, i fenomeni di moda (le minigonne, i ragazzi con i capelli lunghi), la contestazione ai suoi primi vagiti, la droga, il divorzio, la leva militare e la musica, ça va sans dire. Zeppi di luoghi comuni, passati al microscopio da Cagnola e Fattori, come nell’esemplare disamina delle caratterizzazioni stereotipate dei regionalismi (dal siciliano al veneto, nessuno veniva risparmiato), per non parlare di quelle relative ad altre razze, oppure agli omosessuali, con situazioni impregnate non poco di patriarcato e maschilismo tout court, i musicarelli sembravano al tempo stesso immersi nel loro tempo e in un tempo fuor di sesto. Eppure i tempi stavano cambiando. Prendiamo il 1964 cinematografico. Quell’anno uscirono nelle sale cinematografiche Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, A Hard Day’s Night con i Beatles per la regia di Richard Lester, Per un pugno di dollari di Sergio Leone. C’è anche la meravigliosa Julie Andrews/Mary Poppins che vola con un ombrello mentre Goldfinger consegna Bond al mito, con un cocktail formidabile. La ragazza ricoperta di vernice dorata, la bombetta-boomerang di Oddjob, il guardaspalle del miliardario/criminale Goldfinger, il tema del film interpretato da Shirley Bassey, e la Aston Martin DB5, un tripudio di gadget su quattro ruote, messa a punto da Q, responsabile dell’ufficio ricerche del Servizio segreto britannico e anello di congiunzione, in senso darwiniano, tra i folli inventori della prima fantascienza e la Ricerca & Sviluppo industriale.
Un prodotto elaborato
Si badi bene, però, i musicarelli non erano soltanto candore e tradizione. Erano ingannevoli, ma riguardo alla loro apparente ingenuità, perché si trattava di prodotti assai sofisticati, come prova la dettagliata analisi di Cagnola e Fattori. Nascevano dalla congiunzione/combinazione di non pochi elementi per soddisfare esigenze eterogenee. Vennero battezzati musicarelli, intanto, per la esplicita discendenza da Carosello, meccanismo pubblicitario impeccabile con quel codino finale gli ultimi trenta secondi, al massimo, dei due minuti e mezzo complessivi, che segnava indelebilmente la marca, legandosi alla fiction che lo precedeva grazie a slogan memorabili. Carosello, narrazione di una stagione irripetibile collocata in una twilight zone a metà tra il sogno e il desiderio il cui chiaroscuro oggetto era il consumare le meraviglie del nascente benessere. All’epoca si intensificò il processo di diffusione degli elettrodomestici per la casa, frigorifero e lavatrice, in particolare, parimenti a quanto avveniva per l’automobile e altrettanto accadeva per i nuovi alimenti prodotti industrialmente: carne in scatola, formaggini, crackers, e così via, oltre che per le formule distributive (il primo supermercato aperto a Milano nel 1957). Tutto concorreva ad aprire la cultura italiana a quella internazionale, da dove a un certo punto arrivò anche la musica giovanile.
L’invenzione del musicarello fu principalmente questa: trasformare il prodotto (il disco, la canzone) in racconto. Non solo, fece assai di più. Oltre a prestarsi al classico product placement, inserendo di tutto, di più nelle storie, in primo piano, sullo sfondo, ovunque possibile “ci sono le scritte nei bar, i prodotti nelle drogherie, i manifesti sui muri, i cartelli negli aeroporti, centinaia di ombrelloni pubblicitari e di posacenere dappertutto” scrivono Cagnola e Fattori, che ne fanno seguire un accurato elenco, fecero di più, perché di fatto, il musicarello è esso stesso un’operazione di product placement, vendendo immagine e musica dell’artista di turno, costruendogli intorno un’esile trama, lasciando che in parte la pubblicità sia indiretta. Non a caso “nei musicarelli gli artisti giovani non rappresentano loro stessi: i loro personaggi non sono star, ma giovani cantanti in cerca di successo”. A fornire la materia prima, la musica, ci pensava soprattutto il Festival di Sanremo (anche esplicitamente meta da raggiungere in alcuni musicarelli), che a sua volta metteva in scena gli uni di fronte agli altri giovani e matusa. Cagnola e Fattori lo precisano:
“Nei film degli anni Sessanta, Sanremo viene raccontato anche come traguardo di una gavetta e come sicuro trampolino di lancio di una carriera. A volte non viene citato per nome, a volte viene camuffato con altri nomi evocativi, ma «il festival» resta un grande traguardo”.
Concorrevano anche altri festival, talora presenti nelle storie dei musicarelli, e concorrevano i juke-box, mezzo di diffusione di massa dei quarantacinque giri che presidiava l’intero territorio nazionale. Difatti, i primi autentici musicarelli saranno I ragazzi del juke-box (1959) e Juke-box – Urli d’amore (1959) entrambi con Adriano Celentano. Un altro fattore ancora che concorse non poco a dare forma a quei film fu il fotoromanzo.
“I punti di contatto tra il fotoromanzo e il musicarello sono molteplici. Innanzitutto le storie, fatte di eroi dalle umili estrazioni e dai grandi sogni, sorretti da grande determinazione e perseveranza. Storie che hanno inevitabilmente un lieto fine, con amori romantici che diffondono ottimismo e speranza nella gioventù italiana cresciuta tra gli stenti della guerra e della ricostruzione. Anche la filiera industriale è molto spesso comune: musicarelli e fotoromanzi sovente si dividono gli stessi teatri di posa, le stesse maestranze, e soprattutto gli stessi divi. […] i punti di contatto si trovano anche nell’iconografia, nel taglio e nella luce delle immagini di entrambi, così vicina alla fotografia e ai caroselli pubblicitari e, tutto sommato, così utile a rafforzare una moralità ferrea e mai sopra le righe…”.
Testimone estremo di queste ibridazioni fu il motociclista Giacomo Agostini, all’apice del successo sportivo ai tempi e parallelamente eroe dei fotoromanzi, ma che non si fece mancare anche la partecipazione da coprotagonista (assieme a Mal) in un musicarello del 1970: Amore Formula 2, uno dei quattro lungometraggi in cui comparve, ma l’unico musicale.
In conclusione, il musicarello fu un’invenzione artigianale tutta italiana, poco raffrontabile con i precedenti film musicali, da quelli interpretati da Elvis Presley ai lungometraggi beatlesiani, tutti passati in rassegna nella parte iniziale del libro. Prodotti di bottega, autentici made in Italy come gli spaghetti western e successivamente il thriller/horror all’italiana dei vari Lamberto Bava, Lucio Fulci e Dario Argento, ma anche la commedia sexy, dove primeggiavano Gloria Guida, Barbara Bouchet, Femi Benussi, Edwige Fenech e altre eroine del genere, i musicarelli paiono oggi dei documentari musicali dedicati all’ingresso della società italiana nella piena modernità.
Canzonette nostrane
Se questo era il loro portato sul piano sociologico, culturale e cinematografico, va detto a latere che esprimevano anche il livello modesto della nuova musica italiana, lontano anni luce da quanto avveniva nel mondo anglosassone. La musica originale italiana era questa, melodica con misurati innesti ritmici. A tal proposito risulta prezioso il ripasso che consente la playlist delle canzoni dei musicarelli compilata da Cagnola e Fattori alla quale si accede tramite QR Code. Come ricordava Edoardo Bennato venivano fuori dai juke-box ed erano solo canzonette. Avevano però il pregio di essere autentiche e non cover, come le mille altre che selvaggiamente venivano proposte un po’ da tutti, dando vita al fasullo beat italiano. Tornando in generale ai musicarelli, è inutile dire che una loro riproposta, in quei termini, oggi sarebbe del tutto improponibile sotto tutti i punti di vista. Piuttosto sarebbe interessante interrogarsi se la produzione straripante di biopic musicali da qualche anno a questa parte non rappresenti la nuova forma, senza frontiere, globale, di quella vecchia idea italiana di vendere la musica e i suoi miti tramite il cinema, prima ancora che provare a fare storia della musica sul grande schermo.
Risulterebbe allora quanto mai profetico il titolo di un altro musicarello che Morandi interpretò nel 1966 (non con la Efrikian):
Mi vedrai tornare.
- Francesco Alberoni, Statu nascenti. Studi sui processi collettivi, Bologna, il Mulino, 1968.