Bellocchio: Plurale femminile
per Bobbio Film Festival 2024

Bobbio Film Festival 2024
27 luglio – 3 agosto
Abbazia di San Colombano
Piazza S. Colombano – Bobbio

Bobbio Film Festival 2024
27 luglio – 3 agosto
Abbazia di San Colombano
Piazza S. Colombano – Bobbio


Sono ventisette anni oramai che ogni estate, audace, avanza tra strade impetrate e sguardi sempre nuovi, il Bobbio Film Festival. L’evento cinematografico, custodito nell’umido ventre dell’omonimo borgo medievale, nacque nel 1995 per ingegno e coraggio di uno dei più grandi registi viventi: Marco Bellocchio. Da allora, questo piccolo paese protetto dai miti respiri del Trebbia, ha ospitato la pressoché intera scena del cinema italiano, con qualche eccezione internazionale. Com’è chiaro, la fama e il merito di Bellocchio hanno funzionato senza interruzioni sino ad oggi da ridente volano attrattivo per una città che proprio nel periodo del festival, registra consistenti presenze sul piano turistico. A tal riguardo, particolarmente interessante sotto il profilo culturale è stata la scelta della Fondazione Fare Cinema, l’ente che si occupa della direzione artistica, logistica e organizzativa del festival, che quest’anno ha deciso di investire su pellicole interamente dirette (e perlopiù recitate) da donne.

Marco Bellocchio all’edizione 2024 di Bobbio Film Festival, manifestazione cinematografica da lui ideata e portata avanti dal 1995.

Plurale Femminile è stata infatti la formula scelta per raffigurare l’identità più autentica di quest’ultima edizione, intendendo con ciò la volontà di mostrare da un lato l’esistenza di un gruppo sempre più cospicuo di cineaste impegnate assieme a nuove attrici emergenti in una graduale ridefinizione dell’industria filmica italiana, e dall’altro lato la nobile intenzione di fotografare questo fenomeno situandolo nel contemporaneo senza troppe grida barocche, senza sollevare, cioè, futili equiparazioni con il sesso maschile, dimostrando che il vero cambiamento politico, sociale e valoriale, passa attraverso la normalizzazione di ciò che pare eccedere la tradizione culturale. Non bisogna in altre parole celebrare o esaltare l’emergere di ciò che, rispetto al costume e alla convenzione, si segnala per novità. Bisogna, piuttosto, parlarne con discrezione, regolarizzarne i sintomi, considerare come moderno ciò che, invero, lo è sempre stato. Che un film possa essere diretto da una donna, è cosa ovvia. Che lo possano fare in molte, è comprensibile. Che occorra strepitare, oggi, al mai visto, è controproducente e inadatto a una causa che voglia dirsi veramente utile. La storia, d’altronde, ci raddrizza le spalle. Una regista come Lina Wertmüller esordì alla regia a soli trentacinque anni, nel 1963, senza troppi clamori giornalistici e aggiudicandosi, per giunta, numerosi premi a Locarno, Londra e Taormina. Due anni più tardi, il Partito Comunista Italiano commissionò insieme con UDI alla giovane Cecilia Mangini un documentario sulla condizione del proletariato operaio femminile negli anni del boom economico. Pochi anni dopo Liliana Cavani scandalizzò il pubblico borghese dei Settanta italiani con il nazi-chic Il portiere di notte (1974). Che la regia sia facoltà, allora, anche del sesso femminile, non è il frutto di una qualche miglioria all’edificio sociale italiano nel XXI secolo.

Gobbo d’oro 2024 a Gloria! di Margherita Vicario.

Ciò che colpisce, adesso, rispetto ad un pugno di decenni fa, è il grado di estensione e aumento di questo fenomeno: sempre più donne scrivono, dirigono e montano film – in Italia e all’estero – spesso guadagnando i premi più autorevoli al mondo. Il pregio della Fondazione Fare Cinema presieduta da Marco Bellocchio e diretta da Paola Pedrazzini è quello di aver costruito un festival cinematografico moderno, perché capace di tradurre nei sette film in concorso la pregnanza di ciò che sta avvenendo, e di averlo fatto, al contempo, senza bollarlo come l’eccezionalità anomala da osannare.
È stata un’opera prima a vincere il premio più importante. La giuria, composta dai giovani corsisti del seminario residenziale di critica cinematografica curato da Anton Giulio Mancino, ha deciso di assegnare il Gobbo d’oro, premio al miglior film, a Gloria! di Margherita Vicario. Già insignita di numerosi trofei a Seattle e ai Nastri d’argento, la pellicola racconta le vicende di un gruppo di giovani talentuose musiciste rinchiuse in un istituto femminile di inizio Ottocento. Sottoposte alle angherie di un dispotico maestro d’orchestra adirato per non essere riuscito a comporre qualcosa per l’imminente visita di Papa Pio VII; di nascosto si riuniscono ogni notte negli anfratti del ricco palazzo, attorno a uno strumento di recente invenzione: il pianoforte. Attraverso la complicata unità tra queste abili compositrici, Teresa su tutte, Vicario accende un bagliore sul genio femminile sepolto dai secoli. A districarsi, nel succedersi dei frequenti momenti musicali, è la fibra di una battaglia già gender, che attraverso la potenza delle note e del canto, unisce sino alla caotica conquista di un riconoscimento identitario, proprio nel finale. Le ragazze prendono le redini del concerto e suonano innanzi al Papa, tripudiando con l’energia tipica di una commedia musicale, tra le severe pareti di una Chiesa ancora troppo impolverata dai dogmatismi maschili. Del resto, il film traduce il mestiere originario della sua regista: quello di cantante. Questo dato biografico assume infatti una posizione dirimente proprio in virtù dell’apparato stilistico dell’opera. Il montaggio procede come una voce che ritmicamente scuote le membra, a disegnare melodie e motivi sonori che ben traducono, con stancante leggerezza, gli impedimenti socio-professionali incontro a cui intere generazioni di donne sono incappate.

Ha ottenuto il Gobbo bianco del pubblico e il premio per la miglior attrice alla protagonista Tecla Insolia, L’arte della gioia di Valeria Golino.

Unico film a ricevere due premi è stato L’arte della gioia di Valeria Golino, che ottiene il Gobbo bianco del pubblico e il premio per la miglior attrice alla ventenne Tecla Insolia. La serie tv targata Sky Original, tratta dall’omonimo romanzo di Goliarda Sapienza, è uno sconfinato mosaico sulla scoperta della sessualità, vissuta dalla poverissima Modesta attraverso un’esistenza corredata da atroci traumi infantili, esperienze di innamoramento in un convento e una scalata sociale così violenta, da abbracciare l’orrido e l’efferato. La protagonista è una creatura anfibologica, problematica, sospesa tra un’apparenza apollinea, tutta forma armonica e conformità ai dettami familiaristico-clericali, e una terrestrità dionisiaco-debordante, scandagliata a fondo in rapporti promiscui con figure a tratti dolci a tratti autoritarie. Una donna animale, espressione di un’indomabile libertà quasi pre-sociale e pre-civile che attraverso i raggiri dell’opportunismo, guadagna atto dopo atto, influenti posizioni di rilievo sociale giostrando i propri interessi tra chiesa e nobiltà. Modesta, tuttavia, non è cattiva. Il suo agire è nutrito dalla curiosa volontà di assecondare quella che Friedrich Nietzsche ha chiamato la “forza plastica della vita” (Nietzsche, 1974) che chiede di esprimersi senza mediazioni, siano esse legali o morali, perché è nell’oscurità di un desiderio fremente e dolente, che essa riluce. L’arguta adolescente lacera le convenzioni così come il bambino trova il proprio domicilio nel caos. Si innamora e fa l’amore con la badessa del monastero che poi uccide, approda nelle opulente stanze della principessa Brandiforti solo per impadronirsi della sua eredità e del suo fastoso potere. Ma è come le fronde di un albero commosso da un vento primitivo: ricettiva ai segnali che la realtà gli destina, incorpora in sé stessa scabrose cose passate, trasformandole con inclemente forza trasvalutante in linfa infinitamente produttiva di senso. La gioia cantata dalla Sapienza, diventa allora quell’urgenza, a tratti violentissima, di vivere una vita al di là del bene e del male, che Valeria Golino enuncia con l’eleganza di una poetessa dell’immagine, in una lirica dello sguardo capace di concretare sullo schermo, la fatica di diventare, davvero, ciò che si è.

Ad Antonio Bannò è andato il premio di miglior attore per la sua La guerra del Tiburtino III di Luana Gualano.

Il premio al miglior attore è andato infine, ad Antonio Bannò per un film sui generis rispetto ai comuni standard produttivi italiani: La guerra del Tiburtino III di Luna Gualano. Nel quartiere periferico della capitale, è caduto un meteorite che ha portato in tutto l’isolato un vermiforme morbo alieno. Da questo evento in poi tutti gli abitanti cominciano a mostrare comportamenti bizzarri, alcuni parlano con voce robotica, altri camminano come automi: il clima è mutato. Pinna, lo spacciatore di quartiere, comincia a indagare sullo strano accaduto, insieme ad alcuni amici che a poco a poco cadranno vittima dell’infezione dilagante. Il timbro estetico, nonché la stessa architettura sintattica del film sono così abitati dal genere fantascientifico a tal punto che la stessa produzione, guidata tra gli altri da Piergiorgio Bellocchio e i Manetti Bros ha contribuito in maniera massiccia alla costruzione creativa dell’opera donando ad essa un look fumettistico-caricaturale così riconoscibile negli insetti fluorescenti realizzati ex novo da un team specializzato di effettisti. In questo solco artigianale, la regista, al suo secondo esperimento nel cinema di genere, sceglie una messa in scena da B-movie cormaniano, contaminando le sue scelte stilistiche con un impianto narrativo simile a quello dei videogames anni Duemila. Il risultato finale è quello di una commedia fondata non tanto sulle sue finalità concettuali, quanto sull’acuta caratterizzazione manieristica dell’ambiente e dei personaggi; come l’ossessiva fashion blogger Lavinia Conte, maniacalmente preoccupata di non poter girare contenuti accattivanti in quel quartiere così popolare e per l’aver perso visibilità sui social network.
Una menzione doverosa va infine al poderoso restauro di Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio, proiettato dopo l’incontro con Goffredo Fofi e Paolo Mereghetti durante l’ultima serata del festival. L’evento, permesso dall’attività ormai collaudata della Cineteca di Bologna che realizza una preziosa versione in 4K, non ha una portata meramente storico-documentale. Restaurare un film come questo, che dal 1972 non cessa di pronunciarsi in tutta la sua enorme portata socio-politica, significa (ri)aprire, oggi, un discorso sul traffico di influenze, sugli stretti concatenamenti tra politica e media e sulla coatta manipolazione dei fatti e dell’elettorato.

Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio è tornato sul grande schermo in versione restaurata in 4k da Cineteca di Bologna.

Tutto questo è successo nel chiostro di San Colombano vicino all’omonima abbazia, a testimonianza del fatto che talvolta risultano superflui più luoghi in cui disseminare proiezioni e dibattiti dei vari film in concorso: la qualità è nelle scelte, spesso poche. Verrebbe allora da chiedersi se i grandi debbano imparare dai piccoli, vista la tenuta d’insieme e la caparbietà espressa da un festival come questo che dal suo grembo medievale, tutto pietre dure e leggiadria d’antico ha saputo lanciare un maturo grido militante: Plurale Femminile. A Bobbio non si sono susseguiti solo un insieme di film diretti e incarnati da donne, ma la voce energetica di un decisivo fenomeno politico e sociale: il coraggio di dire che il moderno, se vuole davvero fregiarsi di questo appellativo, deve avere il volto della parità e della dignità umana. Bobbio ha detto e dice ancora che Uomo e Donna sono architetture il cui disegno preparatorio si regge sulle medesime formule matematiche. Muta l’estetica, muta la psicologia, muta il patrimonio relazionale ma l’architrave è sempre la Terra. A importare allora non è il film in sé – quella congerie di elementi in perenne movimento che si agitano sullo schermo per mezzo di corpi, figure e lacerti della natura. A contare è lo scegliere, l’investire, il guardare in prospettiva, l’ardire. Un film non è mai solo un film. Un festival non è mai solo una manifestazione turistica. A celarsi alle loro spalle, come un sole che s’affretta sul dorso d’una montagna, è l’imminente luce del cambiamento. Ma questo non cresce su sé stesso. Bisogna prendersene cura in ogni interstizio della nostra vita, combattendo come se i nostri piedi potessero non farcela da un momento all’altro, contro ogni forma di sopruso, insulto, violenza, femminicidio. Tutto questo è accaduto a Bobbio, tra sorrisi giovani, facce coraggiose e parole di veri e propri Maestri della cultura italiana.
Festina lente.

Letture
  • Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 1974.
  • Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Einaudi, Torino, 2014.
Visioni
  • Marco Bellocchio, Sbatti il mostro in prima pagina, Euro international Film, Cineteca di Bologna, 2024.
  • Valeria Golino, L’arte della gioia, Vision Distribution, 2023.
  • Luna Gualano, La guerra del Tiburtino III, Fandango Distribuzione, 2023.
  • Margherita Vicario, Gloria!, 01 Distribution, 2024.