L’Impero Disney apre l’era delle serie tv targate Star Wars puntando su un anonimo cacciatore di taglie. Ideato da Jon Favreau e Dave Filoni, The Mandalorian riveste una certa importanza per le sorti del neonato network televisivo Disney Plus. Un azzardo notevole se pensiamo che il protagonista non mostra mai il volto (pur avendo a disposizione un certo Pedro Pascal) e si presenta con un profilo morale discutibile. Mando è il diretto discendente di Boba Fett, un personaggio secondario lanciato nel 1978 da un breve cartoon televisivo e poi rilanciato nel 1981 con una manciata di scene piccole ma incisive in L’impero colpisce ancora. Il merchandising Star Wars anni Ottanta (grazie anche al diabolico endorsement di Steven Spielberg , che mette il mandaloriano e altri filibustieri spaziali nelle mani del piccolo Elliot mentre mostra i suoi giocattoli all’alieno di E.T. l’extraterrestre) ha fatto il resto e il tipico casco del bounty hunter spaziale entra nelle camerette di milioni di bambini. La fantascienza di Star Wars è una ricetta che sembra semplice: resuscita samurai e pistoleri catapultandoli in un immaginario tecno-scientifico pieno di figure ibride e bei costumi. Molto più complessi sono invece i labirinti transmediali che tra cartoon, show tv, giocattoli, fumetti, figurine, videogiochi e meme internet hanno spinto e continuano a spingere alcune di queste figure al rango di cult.
Il fascino dell’anonimato nell’era dei selfie
Non tutto si poteva pianificare ma certo per George Lucas (regista poco incline alla gestione della recitazione e dei rapporti interpersonali con gli attori) dev’essere stato fantastico poter lavorare usando volti non-umani. Del resto Sergio Leone, il maestro dello spaghetti-western amato da Lucas, ne sapeva qualcosa di maschere:
“Avevo bisogno più di una maschera che di un attore, e Eastwood a quell’epoca aveva solo due espressioni: con il cappello e senza cappello” (Leone, 1988).
Da Darth Vader ai primi droidi, sono molte le maschere che hanno caratterizzato Star Wars. Persino gli iconici caschi degli stormtrooper hanno lasciato il segno: sebbene siano sempre stati poco più che tappezzeria sullo sfondo, hanno finito col caratterizzare tutta la saga con il loro design. Qui non è il volto dell’attore a trasformare in icona il personaggio, bensì la maschera, il make-up, il costume: elementi che spingono l’immaginazione verso ciò che è fuori campo, suscitando interrogativi sul passato del personaggio e distogliendo l’attenzione dalla performance attoriale a favore della narrazione.
In The Mandalorian il popolo Mandalore qualifica il design dell’armatura in senso biografico. La regia non manca di mettere al centro assoluto dell’azione proprio il casco di Mando. In una scena, ad esempio, il nostro si trova a dover attraversare un canyon pieno di minacce e un fugace riflesso sulla lamiera mandaloriana preannuncia guai in arrivo montando magistralmente la suspense. Il carisma dei mandaloriani deriva dunque dall’armatura e dalla riservatezza. Come tanti Clint Eastwood strattonati nell’iperspazio. Cosa che rende ancora più interessante Mando e il suo bisogno di nascondersi in piena era di selfie e di condivisione social a tutti i costi: in fondo la sua fuga dalle reti spionistiche è una storia di isolamento dalle connessioni fulminee, da una folla di disperati pronti a segnalare chiunque per soldi. Trasfigurando la privacy in folklore, la prima stagione di The Mandalorian ci ha regalato sprazzi di una vera e propria religione della riservatezza. Una riservatezza che protegge e allunga la vita.
A Galaxy Far Far West
The Mandalorian è un deciso ritorno alle origini di Star Wars e alle idee di George Lucas che intendeva modernizzare le figure del Far West e lo schema del viaggio dell’eroe secondo Joseph Campbell (cfr. 2016). Polverosi villaggi ai confini della legge, cantinas intergalattiche, silhouette di pistoleri incorniciate da porte e la straordinaria colonna sonora di Ludwig Goransson che impasta suggestioni elettroniche, flauti andini e drumbeat dal sapore tribale.
Il tesoro al termine della quest eroica è quel carico di conoscenze (o di superpoteri) che il protagonista acquisisce solo uscendo dal suo mondo e abbandonando qualsiasi mondanità, solo dopo la focalizzazione di un senso di appartenenza o di un destino. Kuiil, il coltivatore di umidità interpretato da Nick Nolte, è la quintessenza di tanti montanari solitari che indicano all’eroe western la via per una maggiore comprensione dei rapporti con la Natura e per ritrovare equilibri esistenziali scombussolati, compreso rapporti più sereni con i droidi. Il taciturno avventuriero mandaloriano, così fuori moda nel proteggere la sua privacy, potrà forse incuriosire anche i più giovani, pecorelle smarrite nei cataloghi delle sconfinate praterie post-seriali in cui quella peculiare miscela fatta di epicità e comicità tipica di Star Wars resta ancora inimitabile. E poi c’è Baby Yoda, l’altro anonimo protagonista dal volto non-umano, che con il suo alone di mistero e la sua imprevedibilità ha istantaneamente rubato il cuore di tutte le fazioni del fandom Star Wars, per una volta unite.
- Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, Torino, 2016.
- Sergio Leone, Venivamo da ogni parte della terra, in Bianco & Nero, n. 4, Scuola nazionale di cinema, Roma, 1988.