Non era difficile accorgersi di Paul Erling Johnson: notare il brillio dei suoi occhi di un azzurro ormai sbiadito e lo sguardo un po’ spiritato eppure così infantile, rimanere colpiti dai suoi capelli ricci ingialliti come la barba. Soprattutto era impossibile che passasse inosservato quel suo corpo rugoso, bruciato dal sole, più che pelle una pergamena sulla quale si è pazientemente iscritta, al pari delle venature di un tronco d’albero, la storia di una vita trascorsa in mare. A chi è addentro alle storie del rock più glorioso, è un volto che può ricordare quello del batterista dei Cream, Ginger Baker, nei suoi ultimi anni, naturalmente.
Non si poteva ignorare Johnson e non fece eccezione Lucia Kašová da Bratislava, oggi regista con una predilezione per il documentario ma ancor prima attratta dal mare, al cui richiamo aveva risposto solcando l’Atlantico e finendo per incontrare ai Caraibi una comunità sui generis, “zingari del mare”, apolidi, privi di bandiere e passaporti dei paesi d’origine, gente mai sulla terraferma. Raccontarli in un documentario è stato in un primo momento l’idea dell’allora ventenne slovacca e da lì l’impegno a studiare cinema, a imparare il mestiere, dandone un saggio in particolare nel documentario dedicato all’ex primo ministro della Repubblica Slovacca, Robert Fico. L’idea di girare e ritrarre quella comunità non aveva però fatto i conti con la personalità di uno dei componenti la tribù degli zingari del mare: Paul Erling Johnson. Un incontro fulminante. È nato così The Sailor, approdato anche al Bergamo Film Meeting nella sezione Visti da vicino, che ospita i film documentari.
The Sailor è il ritratto di un personaggio straordinario e leggere questa sua biografia per immagini produce non poco smarrimento, perché la vita di Paul Johnson è un’avventura dai confini incerti, racconto che sconfina e si confonde con mille e una storia di marinai con le loro vicende reali e immaginarie, dai confini mobili perché smossi dall’incessante azione del mare.
Tutto il nostro immaginario è segnato dalle gesta di marinai che affollano pagine e pagine di letteratura, tavole disegnate, immagini in movimento, canzoni (“Ma cosa fanno i marinai quando arrivano nel porto […] Ma come fanno i marinai a riconoscer le stelle”, si interrogavano Francesco De Gregori e Lucio Dalla), personaggi storici, mitici, inventati, tutti alle prese perennemente con vele e timoni, gomene, cime e sartie, nodi e alberi, venti ostili e favorevoli alla navigazione, tempeste e acque calme e soprattutto sempre impegnati a tracciare rotte tra i nostri sogni e le nostre paure, tra desideri d’avventura e terrori atavici. È dove si è ricavato un posticino anche Paul Johnson, rintanatosi in un angolo di mondo tra i più simili al concetto di paradiso terrestre: la baia di Harvey Vale, il piccolo centro abitato dell’isola Carriacau nel Mar dei Caraibi.
Qui Johnson si è ritirato anni addietro. Sia lui che la sua barca, la Cherub, non sono più idonei alla navigazione. Sono invecchiati assieme, il corpo del marinaio sta cedendo, i movimenti e gli sforzi che compie sono misurati e accompagnati da un respiro affannoso. “Non mi sarei mai aspettato di vivere così a lungo”, ci dice con schiettezza. Li cogliamo tutti quei gesti e la fatica che li accompagna, perché le inquadrature sono volutamente ravvicinate, svelando il decadimento del corpo e della sua imbarcazione, la sua casa, ma più che altro una culla dove è approdato al termine della circumnavigazione chiamata vita. Il motore necessita di riparazioni e gli dà una mano Gus, che lavora al porto locale. Non sarà semplice, “I motori sono come alieni. Vengono da un altro mondo”, sostiene Johnson.
Lo seguiamo nel porre la Cherub al riparo da un uragano annunciato, spostandola in un angolo sicuro all’ombra delle mangrovie, rimorchiata da gente del posto. Cronache quotidiane: con una barchetta, altrettanto malmessa, si reca a riva per acquistare qualcosa da mangiare e prima di tutto birre e alcool che trangugia a litri: la sua dieta. Il tremito delle mani ne denuncia l’abuso, anche se confessa di bere al giorno soltanto mezzo litro di rhum (più o meno), una quantità accettabile a parer suo.
Tiene ancora il suo diario di bordo e vi scrive ogni giorno (ecco come fanno i marinai). Non può essere altrimenti, tutti i capitani sono obbligati a tenere un giornale di bordo durante la navigazione e per Johnson è diventata un’abitudine consolidata da una vita trascorsa a redigere rapporti quotidiani, cosicché continua a farlo pur essendo ancorato nella baia. Il diario di bordo è ricco di disegni, ornato come un codice miniato, perché lui tralaltro dipinge(va). Johnson ha diversi amici sull’isola ma è un uomo solo; a tenergli compagnia sono più che altro i suoi ricordi e non sono pochi.
Ne ha di cose da raccontare, qualcosa la sappiamo dalle chiacchiere con il suo amico Andrew e la barista Joann quando si reca al bar locale. La quasi totalità del racconto è però affidato alla la sua voce fuori campo.
Nacque sul fiume Hamble in Inghilterra su una barca chiamata Escape. Aveva una sorella gemella, Diana, ma morì da bambina, però non sappiamo esattamente quando accadde perché non ce lo dice. Confessa però di sognarla ancora. Ha attraversato l’Atlantico trentanove o quaranta volte, ha perso il conto, la prima a soli sedici anni su una piccola barca a vela, in seguito le barche per navigare se le è progettate in proprio. Avrebbe potuto diventare assai ricco, perché era un fior di progettista e le sue piccole imbarcazioni sono tuttora modelli da imitare, ma oggi vive “giusto al di sotto della soglia di povertà. E ci sto bene”, afferma, perché ha preferito passare gran parte della propria vita su isole sperdute abitate solo da animali, navigando per oltre duecentomila miglia. Non è tutto: “Sono stato in mezzo a tempeste e fatto sciocchezze… e… per anni mi sono messo in mezzo a situazioni spaventose. Non so perché l’ho fatto ma non potevo non farlo”.
Prestò servizio nella Royal Navy ai tempi del secondo conflitto mondiale nelle isole Shetland e di quelle terre si sente cittadino onorario, uno Shetlander come si definisce perché “è l’unico posto dal quale non è stato cacciato”. Ha avuto molte donne, alcune relazioni sono durate circa un decennio, nessuna però è riuscita a reggere l’onda d’urto di una vita così poco normale, non adeguata specialmente per i bambini nati dalle relazioni. Affiora il rimpianto: “Mi capita di svegliarmi e piangere perché mi mancano i miei figli” e riguardo alle sue donne, tutte amate immensamente, non ha dubbi: “Se ne sono andate, non posso biasimarle. La maggior parte sono rimaste una decina d’anni. Invece di vagare per gli oceani nelle tempeste, sono state ragionevoli e se ne sono andate. Lo capisco”.
D’altronde lui è come se non avesse avuto scelta, obbligato da qualche forza invisibile a continuare a solcare i mari, ce l’ha già chiarito (“non so perché l’ho fatto ma non potevo non farlo”). Questo è il punto spinoso che segna tutta la sua esistenza: il continuo dibattersi tra egoismo e libertà, conflitto che ci viene ricordato dolorosamente quando lo vediamo piangere mentre sfoglia vecchie foto. In seguito si abbandona a un’amara riflessione: “sarei molto triste all’idea di essere stato egoista. Non capisco proprio il senso di essere egoisti. Non lo so, forse lo sono stato. Forse sono stato una persona orribile”.
Johnson ricorda, ma intorno a lui, in questo angolo di mondo in parte ancora immacolato, qualcosa sta cambiando mentre lui è fermo, ancorato in tutti i sensi. Sull’isola si progetta un ipermercato e si avvertono le alterazioni che infliggerà al territorio. Sul finire del documentario, a ipermercato oramai aperto, seguiamo Johnson che si aggira al suo interno, smarrito nell’oceano delle merci.
La bellezza della terra caraibica è presente nel film, ma Kašová la mette in scena solo quando è funzionale al racconto, raramente si sofferma a lungo sui magnifici tramonti, sulla vegetazione rigogliosa, sull’immenso, limpido blu del mare e quello del cielo notturno punteggiato da uno sciame di stelle. La maggior parte del tempo siamo con Johnson nel suo habitat naturale, la vecchia barca, scalcagnata, arrugginita, e il ritmo della narrazione è quieto, asseconda i tempi di un uomo anziano che si aggira tra oggetti sparsi ovunque. In una scena della parte iniziale, la visione delle sue camicie, ordinatamente allineate sulle grucce all’interno della cabina danno l’idea di uno spazio in cui l’ordine regna sovrano. Camicie che non gli vediamo mai indossare e che forse sono lì a mettere in chiaro che nel cuore della barca si conservano ricordi, annidati ovunque.
Al termine della visione l’empatia con Johnson è totale. Merito della regia, dei tempi e dei modi della narrazione, però è il marinaio di un tempo a conquistare, a realizzare la sua piccola impresa lasciando un segno nel nostro immaginario dove albergano non pochi uomini di mare, lo si è detto.
È dai tempi dei profeti e degli eroi omerici che si salpa, da Noè e da Odisseo. Gli han fatto seguito in tanti.
“Popeye, Fletcher Christian del Bounty, Corto Maltese, Barbanera, il Capitano Nemo, Emilio di Roccabruna signore di Ventimiglia, Achab di Nantucket, Francis Drake, Gordon Pym, Cristoforo Colombo, Marlow, Kurtz, Capitan Blood, Charles Darwin, Jenny dei pirati, Samuel Gulliver, Vasco da Gama, James Cook. Senza dimenticare gl’innumerevoli marinai senza nome o lignaggio che nei millenni trascorsi tra l’Età del bronzo e oggi hanno preso il mare sfidando gli dèi del vento e delle maree”
(Gabutti, 2021).
L’elenco di Diego Gabutti va avanti per un bel po’, ma lo stralcio rende l’idea. A quell’elenco aggiungeremo per onor di cronaca e per fare il paio con De Gregori e Dalla sopra citati, i quattro marinaretti connazionali di Johnson che combattevano il Male a bordo di un sottomarino giallo. Non erano certo dei pivelli nel regno dell’immaginario quei quattro quando cantavano “[…] a man who sailed to sea / And he told us of his life”, versi che paiono anticipare il racconto del marinaio.
Infine la rotta tracciata da Lucia Kašová nella vita del marinaio propone una meta inaspettata. La riparazione del motore è rinviata, Gus va a dare una mano alle vittime dell’uragano che nel frattempo si è abbattuto con violenza ma non su Carriacau bensì sull’isola di Dominica. C’è però sempre il vecchio sistema: vele, vento e un uomo al timone. “Quando un marinaio non riesce più ad andare avanti salpa per il suo ultimo viaggio senza ritorno” aveva precisato Johnson all’inizio e così si allontana dalla baia, magari puntando all’Africa come aveva confidato a Joann una sera al bar. È sereno in volto come mai l’abbiamo visto finora.
Il documentario termina qui.
Successivamente, il 28 giugno 2021, a ottantatrè anni Johnson è salpato per un nuovo e ultimo viaggio solitario.
Destinazione: infinito.
- Diego Gabutti, Storie del mare, Gog Edizioni, Roma, 2021.