Al ritmo di romance, race and rock ‘n’ roll la campagna marketing di American Graffiti (George Lucas, 1973) vendeva lo splendido 1962. Kennedy era lontano un anno dal suo incontro fatale con la pallottola di Lee Harvey Oswald, gli Stati Uniti vivevano ancora nell’estensione dell’American tecno-dream partorito con la fine della guerra e l’inizio della corsa all’innovazione scientifica. Richard Dreyfus, all’ombra del gelo di cui era vestita l’Europa, poteva vivere le sue avventure romantiche al volante della sua Citroën 2 CV. A bordo dei loro prolungamenti meccanici vivevano l’utopia futuristica promessa loro dalla Casa Bianca, sogno due anni dopo investito di ancora maggiore autorità con la fiera di New York del 1964 dedicata agli sviluppi dell’uomo in un mondo rimpicciolito. Tutto ciò mentre la musica prodotta in quegli anni comunicava il cambiamento visibile e ascoltabile attraverso stereo e autoradio, di quegli ideali, di quei sogni e anche di quelle crescenti preoccupazioni.
Scappa! Cinema in fuga
Del Shannon cantando I wonder what when wrong nella sua Runaway, parte della preziosa colonna sonora di American Graffiti, anticipa la rottura del sogno americano. A cavallo delle automobili troviamo nel 1973, di nuovo, e nel 1978 la nuova prominente figura del getaway driver, l’autista (e artista) della fuga, nell’adattamento del romanzo di Jim Thompson Getaway! di Sam Peckinpah e Driver, l’imprendibile di Walter Hill, sceneggiatore, però, anche del classico con protagonisti Steve McQueen e Ali McGraw. Nel 1980 invece a fuggire dalla polizia dell’Illinois sono The Blues Brothers diretti da John Landis e insieme ai precedenti costituiscono l’albero genealogico dell’ultima fatica dell’inglese Edgar Wright, Baby Driver, altro rappresentante del lungo processo che unisce race, rock ‘n’ roll e romance col suo protagonista, ipotetico discendente delle creature innamorate delle macchine nel decennio d’oro dei Cinquanta e nei più oscuri Sessanta.
Orfano di entrambi i genitori e al volante sin da quando è diventato alto a sufficienza da vedere oltre quest’ultimo, il protagonista Baby sembra essere letteralmente il figlio del rapporto tra uomo e macchina. Incapace di vivere senza e in un certo senso egli stesso un cavaliere elettrico, sempre agganciato ai suoi molteplici iPod, una reliquia del passato prossimo, un’autoradio entrato direttamente nelle orecchie dell’automobilista. È questa sua innata capacità di funzionare quasi come un oggetto meccanico che convince il guru del crimine Doc, interpretato da Kevin Spacey, a costringerlo, in cambio della vita, dopo averlo pizzicato a rubare proprio la sua automobile anni prima, a lavorare per conto suo come getaway driver, ricalcando le orme del Driver di Walter Hill, con un’unica differenza: per Baby Driver la musica è il motore dell’avventura attorno a cui è coreografata la totalità dell’azione, dal primo all’ultimo fotogramma.
La musica è il motore
Un elemento comune alla filmografia millennial di Edgar Wright, a partire dal suo primo film ufficiale (l’esordio cinematografico A Fistful of Fingers ancora oggi non ha ricevuto una distribuzione nazionale e/o internazionale, neanche dopo la fama del suo autore), infelicemente tradotto in italiano come L’alba dei morti dementi (2004). Don’t Stop Me Now dei Queen suonava da un antiquato jukebox mentre seguendo il ritmo il gruppo di sopravvissuti all’apocalisse zombie bastonava uno dei non-morti; Scott Pilgrim vs the World (2010) immaginò band musicali combattersi letteralmente con la sola forza dell’assolo di chitarra e la potenza di giganteschi amplificatori capaci di proiettare immagini con le onde sonore; La fine del mondo (2013) era invece commentato da brani musicali scelti con un’accuratezza particolare che descriveva nel dettaglio l’inquietudine o il movimento della sequenza accompagnata. Un percorso emerso successivamente nell’odierno Baby Driver, che preme il piede sull’acceleratore omaggiando il Driver di Hill, ma stavolta fuggendo dalla polizia venerando e seguendo, con la precisione di un amanuense, ogni nota della Bellbottoms dei Jon Spencer Blues Explosion.
Una scena d’apertura il cui schema si ripete mostrando come il Baby di Ansel Elgort possa costruire una immagine di sé stesso esclusivamente attraverso un immaginario di stampo musicale. Un luogo mentale vasto dove coabitano la Debora rock dei T-Rex di Marc Bolan, il funk alla Tequila dei Button Down Brass, la Blue Song del gruppo elettronico Mint Royale e il soul di B A B Y di Carla Thomas. Il consueto riflesso dello specchio è inutile, il codice sono le onde sonore, percepibili persino al tatto dal sordo padre adottivo, anche quando il terzo elemento di American Graffiti si affaccia dentro la carrozzeria di Baby, costruita come carapace per proteggersi dal mondo. Il romance si traduce nella rarità di Debora, nome introvabile nel mondo musicale e dunque a malapena raccontato nell’universo mentale di Baby, con l’eccezione di due singoli brani, a indicare l’unicità del rapporto che può nascere tra l’antieroe protagonista e la classica giovane cameriera da tavola calda, con cui fuggire al tramonto, senza né un piano né una meta, solo una lunga playlist. L’auto, in questo caso come lo fu anche per la Trincea d’asfalto (1978) di Sam Peckinpah, è l’erede del cavallo dei western.
Il rapporto con il musical e i film sul ballo
Lo speciale uso della colonna sonora in Baby Driver non mette in discussione il genere musical, tuttavia pone l’accento su come sia possibile sceneggiarne una variante in cui la musica diegetica non sia prodotta dai protagonisti della storia né ballata con coreografie degne di un palcoscenico di Broadway. Non è West Side Story (Robert Wise, Jerome Robbins, 1961) né Grease (Randal Kleiser, 1978), ma il film di Wright con la sua dipendenza dalla selezione musicale che le fa da soundtrack non è completo difatti se visto privato di essa, perché connaturata nello sviluppo delle vicende proiettate sullo schermo. I movimenti di Elgort sono legati con un nodo ben stretto al brano in play in quel momento sull’iPod di turno, sia negli inseguimenti in auto o a piedi quanto in un gesto quotidiano come l’acquisto di quattro caffè al bar sotto il covo dei criminali.
Riflettendo su questo stretto rapporto tra narrazione e musica si evidenzia la differenza netta tra la rappresentazione dell’atto musicale e la sua influenza sullo svolgimento, dettaglio non indifferente attraverso cui si può comprendere la fondamentale, e mai citata rispetto a Baby Driver, parentela con un altro genere del cinema di matrice musicale: il film di ballo, soprattutto quello realizzato negli anni Ottanta, classici come Flashdance (Adrian Lyne, 1983) e Footloose (Herbert Ross, 1984). La matrice di queste opere è intrisa di musica al punto da costituirne le fondamenta proprio perché parte integrante della narrazione e non dell’elemento di spettacolo dato dal canto e dal ballo non naturalistico che connota il musical statunitense e gli emulatori internazionali. La Baby di Dirty Dancing (Emile Ardolino, 1987) e il Baby di Wright sono fatti della stessa materia, entrambi sono stati messi all’angolo da una forza repressiva che ne ha impedito la maturazione personale.
Le automobili in primo piano a partire dal titolo sono in realtà secondarie se confrontate con la presenza scenica della colonna sonora, pur essendo all’apparenza l’elemento fondante che dà a Baby Driver una chance di sedersi a un tavolo insieme a franchise globalizzanti del calibro di Fast and Furious, The Transporter e Cars, o produzioni di peso economico inferiore, ma con uguale carica, quali Drive (Nicolas Winding Refn, 2011) e Rush (Ron Howard, 2013). L’automa in Baby Driver è sovrastato dalle note e la velocità per Wright è solo una conseguenza, lo strumento ideale per sentire l’energia di Brighton Rock dei Queen e la forza nelle corde vocali di James Brown. È all’interno della sceneggiatura, caratterizzazione del personaggio esposta in uno spazio aperto, al contrario dell’essere un elemento di corredo come può accadere nei film succitati, con l’eccezione di Drive, in cui, però, la funzione è meramente descrittiva del mood.
- Walter Hill, Driver, L’imprendibile, Universal Pictures, 2015 (home video).
- George Lucas, American Graffiti, Universal Pictures, 2011 (home video).
- Sam Peckinpah, Getaway!, Warner Home Video, 2005 (home video).
- Herbert Ross, Footloose, Universal Pictures, 2002 (home video).