Nell’agosto del 1969 si svolse quello che, se non è stato il migliore, fu certamente il più noto tra i grandi raduni che hanno caratterizzato la storia della musica negli ultimi decenni. Il grande raduno di Woodstock com’è noto si svolse in realtà a Bethel, cittadina distante circa settanta km, nello stato di New York, non troppo lontano dalla omonima metropoli, da cui infatti proveniva una parte considerevole delle centinaia di migliaia di persone che in quei giorni si riversarono in questo paesello della campagna americana.
Woodstock però, già prima di essere sede dei famosi tre giorni, va detto che era da molti considerato un luogo particolare, dove era possibile con una certa facilità incontrare artisti, poeti, letterati e musicisti di ogni genere, dato che l’amena località era stata da questi eletta come luogo dotato di una particolare sensibilità verso l’arte in genere. Lo stesso Bob Dylan ci aveva vissuto all’inizio degli anni Sessanta, e fu qui che ebbe il famoso incidente in moto del 1966.
La ricorrenza del cinquantennale ha permesso (e incentivato) la stampa e la ristampa di un numero davvero notevole di testi e registrazioni più o meno inerenti a quegli eventi, e questo ha mostrato al mondo come ciò che è accaduto nella seconda metà del 1969 a tutt’oggi rimane un perno intorno a cui il secolo sorso ha di fatto compiuto una virata, indirizzando il mondo intero in una certa direzione piuttosto che altrove. Joel Makover, giornalista che ha dedicato almeno un decennio alla costruzione di un dossier su Woodstock, nella prefazione al suo Woodstock. Tre giorni diventati leggenda, ripubblicato dalle Edizioni Bietti in una nuova traduzione, difatti scrive:
“Il festival di Woodstock ha infatti dimostrato qualcosa, e cioè che la gente, quando decide di riunirsi per un motivo qualsiasi, riesce a ottenere il meglio anche in circostanze estremamente difficili. Dal punto di vista musicale, Woodstock sarà anche stato soltanto un singolo episodio nella storia del Rock, ma da quello culturale contribuì a caratterizzare una intera generazione”.
È proprio a causa di questa incredibile sovraesposizione mediatica che è complesso identificare elementi di novità emergenti solo oggi, dopo che libri, dischi, articoli e film da allora ne parlano cercando di contenere e delimitare la portata dell’evento, ma proprio l’ampiezza di questa analisi fa emergere il lato impalpabile e sfuggente di quell’evento: il suo non ridursi a nessuna delle prospettive sotto cui viene investigato. Il riflesso sui media e l’impatto sull’opinione pubblica che ebbe il concerto ancora prima che si concludesse sono il primo tassello di un mosaico in cui si descrive una generazione, e che forse oggi si va a completare. Il film che venne girato durante il concerto uscì in brevissimo tempo, già nel marzo del 1970, ovvero poco più di sei mesi dopo. Com’è noto vi collaborò tra gli altri anche Martin Scorsese, che dichiarò poi in più occasioni come quel lavoro sul campo, in condizioni al limite della fattibilità, fu il suo laboratorio, un esempio che seguì quando girò il suo primo grande film musicale sette anni dopo, The Last Waltz. Ciò che forse è invece meno noto, almeno tra i non addetti ai lavori, è che il montaggio venne eseguito da Thelma Schoonmaker, che ricevette per questo una nomination agli Oscar, e che oggi è ancora montatrice di Scorsese, come nel suo recente The Irishman.
Il film Woodstock lo possiamo vedere come il pilone di un ponte mitologico che, sorvolando mezzo secolo di storia americana, giunge sino ai giorni nostri, dove il volo icarico di quei tre giorni di pace e amore è costretto a planare in una realtà che davvero è stellarmente distante, ma che ha visto nella trasformazione in evento del concerto la spiegazione di quell’essere sfuggente e contemporaneamente centrale del festival stesso. Tra le pubblicazioni più recenti è prioritario perciò citare l’edizione definitiva del concerto, almeno dal punto di vista audio. Il film, dopo la prima edizione del 1970, ne ha viste altre due, l’ultima delle quali pubblicata nel 2009 in quattro dvd e che dovrebbe contenere il girato integrale, comprese le riprese della performance dei Creedence Clearwater Revival, fino a quel momento inedite. Il 2 agosto 2019 l’etichetta discografica Rhino Entertaiment ha pubblicato un mega-cofanetto di ben trentotto cd intitolato Back to the Garden, e contenente l’edizione integrale e definitiva del concerto, in ordine di apparizione sul palco. Non sono presenti solamente due brani dell’esibizione di Jimi Hendrix, di cui non è stata autorizzata la riproduzione, e una canzone degli Sha Na Na di cui però non esiste alcuna registrazione.
Il tutto assomma a un totale di 432 brani di cui ben 267 pubblicati per la prima volta. Nella scatola spazio anche al blu ray con la Director’s Cut del film e un congruo numero di cimeli. Il cofanetto, pubblicato in edizione limitata (emblematicamente solo 1.969 esemplari) è andato immediatamente esaurito, e ora, se aveste la fortuna di trovarne una copia in vendita, preparatevi a sentirvi richiedere cifre da capogiro. Le registrazioni come si è detto sono rigorosamente in ordine di apparizione, e contengono anche molti annunci e momenti di parlato. Soprattutto, dato che in alcuni casi gli artisti, soprattutto i minori, suonarono in più riprese, le loro esibizioni non sono state unificate, ma hanno mantenuto la posizione originale, permettendo così anche una migliore critica filologica di quanto avvenuto. La ricerca che ha portato a questa pubblicazione è durata quasi dieci anni, e ha cambiato radicalmente il nostro modo di ascoltare il concerto.
Queste registrazioni hanno permesso di dare il giusto peso e valore anche a musicisti che forse fino ad oggi erano stati trascurati, uno su tutti, a titolo puramente esemplificativo, lo splendido concerto di Tim Hardin, ma anche le performance dei gruppi più noti sono apparse decisamente differenti: Grateful Dead, Jefferson Airplane, Crosby, Stills, Nash & Young, Creedence Clearwater Revival, The Who, emergono tutti con sonorità decisamente migliorate e più limpide. Ciò che però non è rintracciabile in queste registrazioni, e non poteva essere diversamente, sono le mille problematiche e polemiche che hanno riguardato l’intera gestione del concerto, a partire dall’idea stessa di organizzarlo sino alle enormi problematiche economiche che sono seguite. Per come fu pensato in un primo momento il concerto avrebbe dovuto essere a pagamento, e difatti erano stati venduti in prevendita oltre 180.000 biglietti, ma quando gli organizzatori si sono resi conto di quanto stava accadendo, hanno preso la decisione di rendere il tutto completamente gratuito (o forse si sono semplicemente resi conto che una tale massa di persone non poteva essere controllata in alcun modo). Così hanno dimostrato di avere compreso la portata epocale di quanto si svolgeva sotto i loro occhi, ma tutto ciò ha comportato l’inizio di una serie di questioni, in primis con i musicisti, che nella maggior parte dei casi aspettavano il loro cachet, e in seguito con le società che avevano finanziato l’evento, e che ora rischiavano di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano.
Testimonianza di questi e di mille altri aspetti apparentemente trascurabili ma in realtà fondamentali per la riuscita di un evento, non ultimo la qualità della musica, si ritrovano in Woodstock. Tre giorni diventati leggenda, composto, più che scritto, da Makower. Il titolo originale di questo volume è Woodstock: A Oral History, ed è un’incredibile raccolta di ogni genere di racconto e testimonianza delle persone che in qualche modo hanno avuto a che fare con ciò che accadde in quell’agosto di cinquant’anni fa. L’operazione ha ricevuto il placet di Michael Lang e Joel Rosenman, due degli organizzatori di allora, e riporta anche testimonianza di figure centrali per Woodstock, come molte delle persone che hanno lavorato al film, gran parte dei musicisti, e inoltre produttori, manager, e figure della logistica e della organizzazione, le persone che hanno di fatto tenuto in piedi il festival. Stanley Goldstein, uno degli uomini che lavorarono all’organizzazione, racconta:
“Eravamo un gruppo piccolo […] ma sapevamo che avremmo dovuto affrontare tutta una serie di problemi legate alle necessità delle persone che avrebbero partecipato all’evento. Uno di questi era rappresentato dal bisogno di stabilire una forma di comunicazione con la folla. Avremmo dovuto far capire quali erano i nostri interessi, e la nostra filosofia […]. E, per inciso, penso che questo sia stato uno dei motivi principali del successo della nostra impresa. C’era in noi […] un reale desiderio di comunicare con il pubblico, di far si che gli spettatori si sentissero ben accolti, a proprio agio e al sicuro”.
È la completa mancanza di una cornice a queste testimonianze aumenta il loro valore di testimonianza. Non è possibile costruire un cappello ideologico di nessun tipo, per quanto ovviamente Makower lo abbia fatto nel momento in cui ha operato una selezione sul materiale a sua disposizione, ma questi tasselli di un immenso mosaico alla fine descrivono un mondo di partecipanti che sono stati completamente coinvolti, anima e corpo, nella costruzione della comunità di Woodstock, di quel senso di fratellanza che ha legato in un modo così unico e particolare i partecipanti a quei tre giorni. Woodstock, agli occhi del mondo che è venuto dopo, ha rappresentato il vertice (e l’inizio del declino) di una generazione, quella della Summer of Love di due anni prima, del tentativo colossale di cambiare il mondo sulla base di valori di pace, fratellanza e liberazione.
La beat generation e a seguire il fenomeno hippie avevano spostato il baricentro del mondo su dei principi nuovi, acquisiti dalla generazione che aveva sconfitto le dittature europee pochi anni prima, e ora proiettati verso la vita quotidiana e i rapporti personali. La natura, la musica, la poesia, la ricerca spirituale, la condivisione, la comunità sono il centro delle testimonianze che leggiamo nel volume di Makower, ma con in più la particolarità di calarsi nel centro dell’azione e degli eventi, ignorando completamente la cornice che successivamente gli venne applicata. Ma nello stesso anno accaddero due eventi che spostarono definitivamente il baricentro dell’azione politica e sociale di quegli anni, frantumando così i sogni di Peace, Love and Freedom.
Il 4 dicembre i Rolling Stones organizzarono un evento gratuito, l’Altamont Free Concert, che terminò tragicamente con l’uccisione del diciottenne afroamericano Meredith Hunter per opera di alcuni Hell’s Angels ingaggiati come security del festival. L’8 agosto invece, pochi giorni prima del concerto a Woodstock, l’attrice Sharon Tate fu uccisa insieme ad altri quattro amici dalla cosiddetta Manson Family. Il cosiddetto eccidio di Cielo Drive fece moltissimo scalpore in America, ma in particolare nel mondo in cui era maturato, ovvero quello della California del pacifismo e della libertà, del cinema e della musica.
L’uso smodato delle droghe, che comunque anche a Woodstock avrebbe creato non pochi problemi (nel libro è ampia la serie dei racconti circa l’uso e l’abuso delle più disparate sostanze), iniziò a diventare un marchio della crisi, ed è proprio per questo che un ritorno al vissuto diretto, alla testimonianza senza mediazioni o alcun tipo di spiegazione, come ci viene proposta da Makower, è il miglior modo per recuperare i valori di fratellanza e di condivisione su cui si è retta la comunità di Woodstock. Sono dovuti passare cinquant’anni perché la controriforma di Donald Trump e dei suoi accoliti estirpasse certi valori dal cuore dell’America. È di quei valori che ancora oggi è figlia la forza del rock come potenza generatrice di libertà e desiderio. Qui sta l’attualità di Woodstock, il suo essere ancora oggi simbolo di libertà, comunità e rinascita.