Intellettuali, elitari,
disagiati e contenti


Raffaele Alberto Ventura
Teoria della classe disagiata
Minimum Fax, Milano, 2017
pp. 262, € 16,00


Raffaele Alberto Ventura
Teoria della classe disagiata
Minimum Fax, Milano, 2017
pp. 262, € 16,00


Il 19 settembre 1995, con un inserto speciale, il Washington Post pubblicava il saggio La società industriale e il suo futuro. L’autore, Theodore John Kaczynski, ex docente al Dipartimento di Matematica dell’Università della California a Berkeley tra il 1967 e il 1969, prima delle dimissioni volontarie e inspiegabili e della scelta di ritirarsi in una capanna nei boschi del Montana, sarebbe stato arrestato nell’aprile dell’anno successivo con l’accusa di essere il responsabile dell’uccisione di tre persone e del ferimento di molte altre mediante esplosione di plichi dinamitardi. Per quasi vent’anni fu il responsabile di un fenomeno d’isteria collettiva con il nome, affibbiatogli dall’FBI, di “Unabomber”. In quel lucidissimo e inquietante documento, oggi più noto come il “manifesto di Unabomber”, Kaczynski esprimeva tutto il suo disagio nei confronti della “moderna società industriale” impazzita, in cui l’essere umano, costretto ad attività innaturali rispetto alla sua condizione primigenia e a perseguire obiettivi destinati a restare irraggiungibili, accumulando frustrazione e depressione, vede di fatto perduta la sua autonomia e la capacità di essere padrone del proprio destino. Kaczynski invitava allora alla rivoluzione generale, di cui egli si riteneva un’avanguardia, con la propria omicida attività bombarola.

Rimandi, analogie e sostanziali differenze
Anche se la Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura presenta in copertina una molotov realizzata con una bottiglia di champagne (splendida intuizione dell’art director Patrizio Marini), questo non è un manifesto rivoluzionario e Ventura non è un novello Unabomber, ma un intellettuale che, a differenza di Kaczynski, ha evitato la tentazione del “gran rifiuto” e lavora in Francia nell’industria culturale. Tuttavia, il disagio eponimo – che naturalmente fa il verso alla Teoria della classe agiata di Thorstein Veblen – è forse lo stesso: quello nei confronti di una società che spinge la sua meglio gioventù a istruirsi fino ai gradi più alti, aspirare a un lavoro intellettuale ben retribuito e sperare in un’emancipazione sociale analoga a quella dei propri genitori, ma che si ritrova ben presto a fare i conti con una realtà ingessata, paralizzata, dove tutte le nicchie occupazionali dell’industria culturale sono sature e l’unica alternativa è vivacchiare fino alla mezza età (e forse oltre) con contratti di dubbia qualità e stipendio da fame nella speranza di riuscire prima o poi ad accedere al sancta sanctorum: il posto all’università, nella redazione del giornale nazionale, nella casa editrice, nell’industria televisiva o cinematografica, e via dicendo.

Negli ultimi anni di appelli accorati e drammatici lamenti del destino della generazione dei Millennials ne abbiamo letti a iosa. Uno dei più recenti, pubblicato su minima&moralia da quello stesso Christian Raimo che è il curatore editoriale della collana di Minimum Fax che pubblica il testo di Ventura, s’intitola La mia generazione ed è un de profundis per la generazione sconfitta al G8 di Genova e dal trionfo del berlusconismo, che sognava l’accademia e si è ritrovata nel migliore dei casi dietro le cattedre di qualche scuola superiore (nel caso di Raimo) tra studenti annoiati che a loro volta sognano sogni impossibili da realizzare. Ventura, tuttavia, sfugge al facile cliché del pietismo, dell’amarcord e della collezione di casi-studio tipici di una rubrica del Corriere della Sera, così come alla riproposizione di dati, sondaggi e statistiche dell’OCSE, dell’ISTAT, del World Economic Forum e chi più ne ha più ne metta (basati soprattutto sulle due parole-chiave del momento, “NEET” e “analfabetismo funzionale”), magari condite da un’analisi sociologica infarcita di ovvietà alla Ilvio Diamanti. La sua ambizione, realizzata, è quella di dare al lamento generalizzato di una categoria sociale la dignità di teoria, la “teoria della classe disagiata” appunto.
Si resterà pertanto stupiti, a una prima lettura, dall’imbattersi più in riferimenti letterari d’altri tempi (Carlo Goldoni, Anton Čechov, Franz Kafka, William Shakespeare, Gustave Flaubert, Honoré de Balzac) che nei più recenti studi di sociologi ed economisti; e nelle teorie dei cicli di accumulazione del capitalismo di Fernand Braudel, Giovanni Arrighi o Immanuel Wallerstein anziché nelle consuete critiche del neoliberismo economico assurto a causa di tutti i mali. Ma, a una più meditata lettura, l’impianto teorico di Ventura emerge con chiarezza. C’è intanto una “legge della classe disagiata”, semplicissima: uno su mille ce la fa.

“Gli altri sono vittime collaterali di un sistema che ci ha messi tutti in concorrenza ma oggi ha sempre meno da offrire. Abbiamo creduto di poter ignorare la contabilità e inventarci una vita all’altezza delle nostre aspirazioni: troppo ricchi per rinunciare alle nostre ambizioni ma troppo poveri per realizzarle, oggi ci troviamo a contemplare l’estensione del nostro fallimento. Alla soglia di un’età adulta che sembra non arrivare mai per davvero, tenuti in vita artificialmente dai patrimoni familiari, dalle bolle speculative o dal welfare pubblico, forse anche dalla potenza militare (traballante) della NATO che ci protegga dall’invidia dei dannati della terra, ci accorgiamo di avere sprecato un’enorme quantità di risorse per partecipare a una competizione che non potevamo vincere”.

C’è inoltre una delimitazione del soggetto d’analisi, che in chiave marxiana viene definita “classe” (non solo per ricalcare Veblen; d’altronde in appendice troviamo uno scritto giovanile dello stesso Karl Marx): non è “la mia generazione” di Raimo, ingenua generalizzazione di una cerchia sociale ristretta (un commentatore faceva notare che per 1.000 dottorandi in fuga dall’Italia ci sono 50mila manovali o operatori di call-center che si sono fermati a qualche grado inferiore d’istruzione), ma una categoria ben specifica, una classe definita intanto dall’età  (i nati tra il 1979 e il 1999: i Millennials) e in secondo luogo dall’estrazione economica dei genitori, ossia la piccola o media borghesia che ha avuto modo di emanciparsi socialmente consentendo ai figli di laurearsi e magari addottorarsi, e ora ne finanzia con i propri redditi il costoso e forse fallimentare tentativo di costruirsi una carriera creativa. Nella classe disagiata non rientrano gli ingegneri soddisfatti del loro ottimo lavoro, i commerciali strapagati, gli startuppari di successo e gli informatici di carriera, ossia un grossa fetta della classe lavoratrice italiana; e nemmeno coloro che oggi ricoprono posizioni di prestigio nell’industria culturale ma che hanno i capelli bianchi e sono entrati nel business quando ancora era territorio prevalentemente vergine, salvo saturarlo e creare lobby e paletti d’accesso per scoraggiare l’ingresso dei late comers.

“La classe disagiata sono i disoccupati che aspettano che si liberi un posto nel settore per cui sono stati formati, fosse anche la conduzione di carrozze o il cinema muto, ma anche gli occupati che giurano ogni giorno, di mese in mese e di anno in anno, che il loro impiego è soltanto «temporaneo» e «alimentare». Sono i precari che diventano «imprenditori di se stessi» per scelta o per necessità, membri di quella categoria che Silvio Lorusso ha definito entreprecariat, ma anche gli strumenti che attendono di realizzare il futuro che credono di meritare. In tutti si produce quello sfasamento tra l’identità sociale percepita e le risorse disponibili che caratterizza la classe disagiata”.

E c’è una teoria. Perché è vero che i casi letterari che Ventura porta a esempio risalgono tutti, mediamente, a un paio di secoli fa, e quindi potrebbero dimostrare che la classe disagiata è senza tempo e non un fenomeno contemporaneo. Ma la differenza sta nel fatto che allora erano pochi e isolati, oggi sono una classe; prima l’accesso alle professioni intellettuali era elitario, ora è massificato, come effetto dell’alfabetizzazione di massa e dell’avvento dell’industria culturale; e tuttavia, le professioni intellettuali non possono essere che minoritarie rispetto al resto, perché c’è bisogno di altre professioni per far funzionare la società. La teoria è quindi basata sulla lettura dei meccanismi dell’economia occidentale che hanno prodotto questo problema senza via d’uscita. È l’economia fondata sui cicli di accumulazione del capitale, che non si rende conto che le crisi non sono “congiunture”, ma fenomeni strutturali del sistema stesso; quell’economia della crescita perpetua che ha perso la memoria delle condizioni precedenti il secondo dopoguerra (i drammatici effetti della Grande Depressione che portarono al conflitto mondiale), al punto da convincersi che la condizione naturale sia quella del miracolo economico e che la Grande Recessione sia solo una parentesi destinata a non durare. Ventura non lo crede, e in questo è in buona compagnia con gli economisti “critici” che cita, anch’essi piuttosto pessimisti sul futuro che ci attende.

Un fenomeno che è figlio della cultura di massa
Lo storico americano Peter Turchin, nei suoi libri colpevolmente inediti in Italia (e citati nel testo), sostiene che una condizione inevitabile di questi cicli socio-economici sia l’emergere di un fenomeno che egli chiama “sovrapproduzione delle élite”. Ventura forse avrebbe potuto dedicare un po’ più di approfondimento a questo punto, che è uno dei migliori puntelli alla sua teoria. La sovrapproduzione delle élite è considerata dagli storici della Rivoluzione francese una delle principali cause della deflagrazione generale: un’ondata di avvocati e letterati tagliati fuori dalle leve del comando da una società aristocratica che aveva fatto il suo tempo. Per Turchin, la stessa situazione si sta verificando negli Stati Uniti di oggi, dove il numero di avvocati e giuristi è fuori controllo. Analogamente, la classe disagiata europea è il frutto di una sovrapproduzione di élite acculturate. E allora, perché non scoppia la rivoluzione?

È la domanda che aleggia nell’ultima parte del libro, la stessa che peraltro si poneva Unabomber. Certo un po’ la colpa è di questa “guerra di tutti contro tutti” (tema che sarà al centro del sequel di Teoria della classe disagiata, anticipa l’autore), che ricorda le tesi esposte da Michel Houellebecq nei suoi libri, l’estensione del dominio della lotta imposto dal regime neoliberista a tutte le dimensioni della nostra esistenza. Ma un po’ è colpa anche di noi stessi, membri della classe disagiata, che possiamo andare avanti finché durano i risparmi di famiglia, i contratti precari e gli assegni di disoccupazione; il cui risentimento trova sfogo temporaneo negli articoli che escono sulle riviste culturali in cui lamentiamo il disagio della contemporaneità, magari rilanciati sporadicamente da qualche giornalista-sociologo; la cui frustrazione è temporaneamente annacquata dai like dei nostri post su Facebook, o dal successo dell’ultimo meme. Il fenomeno dei memers, l’ultima moda tra i creativi più originali della classe disagiata, è del resto paradigmatico del destino dei suoi esponenti: incapaci di sviluppare progetti di lungo termine che richiedano sforzi collettivi di emancipazione, perché bruciati dal desiderio della soddisfazione immediata, esemplificata dalla velocità di consumo dei meme sui social network. I libri come questi sono sempre più rari, tra i giovani “intellettuali”, e anche questo del resto è nato prima sotto forma di articoli pubblicati qua e là. Non c’è tempo per costruire qualcosa che potrà dare i suoi frutti tra uno, due o tre anni: allora, ormai, si sarà troppo vecchi. Forse (anche) per questo vanno oggi tanto di moda le teorie complottiste: chi pianifica sul lungo periodo sono solo gli “intelletti vasti, freddi e spietati” del New World Order, gli Illuminati (al fenomeno lo stesso Ventura ha dedicato recentemente una penetrante analisi) con i loro piani millenari. Per noialtri, è la mesta conclusione del libro, non c’è altra alternativa che rigettarci nella competizione turbocapitalistica per un impossibile posto al sole.

Letture
  • Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, Bompiani, Milano, 2000.
  • Theodore John Kaczynski, Il manifesto di Unabomber. La società industriale e il suo futuro, Stampa Alternativa, Roma, 1997.
  • Christian Raimo, La mia generazione, minima&moralia, 27 luglio 2017.
  • Thorstein Veblen, Teoria della classe agiata, Einaudi, Torino, 2007.
  • Raffaele Alberto Ventura, Il trionfo degli Illuminati, Prismo, 10 maggio 2017.