Evocato prima di tutto da un lungo documentario realizzato da Frank Woodward nel 2008, Fear of the Unknown, a cui ha fatto seguito in questi ultimi anni una presenza sempre più massiccia sui social, il moltiplicarsi di siti e oggetti di consumo, dai giochi da tavolo e online ai capi d’abbigliamento e giocattoli come il Cute Cthulhu un pupazzo di peluche, libri di racconti ispirati alla sua cosmologia dell’orrore e ai suoi universi allucinati, Howard Phillips Lovecraft, lo sciamano novecentesco dell’orrore soprannaturale in letteratura, è tornato.
Il Solitario di Providence è riapparso con una biografia affettuosa e documentata dell’inglese Paul Roland (2017), quasi a conferma di un denso e articolato volume antologico curato e pubblicato qualche mese prima da due ricercatori americani, Carl H. Sederholm e Jeffrey Andrew Weinstock (2016), per adesso disponibile solo in edizione americana.
Un biografo su misura
Roland, occorre ricordarlo, si affermò negli anni Ottanta, dapprima come musicista, paladino di una sorta di folk progressive, come venne battezzato da parte della critica, ricorrendo a testi che trovavano fonte d’ispirazione nei romanzi vittoriani, spesso confinanti con l’horror. In seguito prese a scrivere di cinema e musica, poi continuò a pubblicare dischi, alternandoli a libri, compreso un concept album dedicato proprio a Lovecraft: Re-Animator (2006), che riporta in copertina il classico ritratto che dello scrittore fece Virgil Finlay. È quindi lo stesso Roland, biografo di Lovecraft, a essere parte di quella continua riscoperta, di cui si diceva, che si segnala in modo eterogeneo in tutti in campi della cultura pop.
Per tornare alla sua biografia dello scrittore, Roland la organizza seguendolo nella sua vicenda umana sin da bambino, preda di incubi notturni perché condizionato dalla madre a percepirsi come brutto e fragile, e nello stesso tempo, grazie al sostegno del nonno paterno, già vedendosi come un futuro gentiluomo (inglese) all’antica, colto e famoso, dedito alla collaborazione (che sarà però sempre gratuita) con case editrici e apprendisti scrittori, e alla pubblicazione (altrettanto sempre mal pagata) dei suoi racconti, sempre apprezzati, ma lontani (al di fuori dei suoi conoscenti) dall’essere riconosciuti come i capolavori che dimostreranno di essere.
Roland così prosegue nella narrazione della vita di Lovecraft intervallando il racconto delle sue vicende personali (e dei suoi sogni: “con il tempo giunse ad affidarsi ai sogni come fonte di storie e praticava spesso una tecnica nota come incubazione del sogno”) con le trame dei racconti dello scrittore, realizzando alla fine una sorta di bio-bibliografia con cui sostiene il rapporto per lui evidente fra gli eventi biografici e i racconti del Solitario di Providence, descrivendo il progressivo sorgere e precisarsi del suo Pantheon degli Old Ones, i Grandi Antichi, dèi estranei e malvagi, da Cthulhu a Nyarlathotep, e dei blasfemi universi della sua cosmologia, come del più famoso fra i grimoire immaginari, il Necronomicon, il libro maledetto del “pazzo arabo Abdul Alhazred”.
L’irresistibile ascesa di Lovecraft: da signore delle tenebre a icona pop declinata in mille modi.
Per Roland, Lovecraft è stato un grande scrittore, uno dei protagonisti a lungo trascurati della narrativa del XX secolo, ispiratore di molti, dai suoi contemporanei come Clark Ashton Smith, John Belknap Long, Robert Bloch, fino a un giovane Fritz Leiber, oltre che poeta pressoché sconosciuto e critico rigoroso.
Roland cita prima di tutto l’ormai classico L’orrore soprannaturale nella letteratura, ma sottolinea anche la sua natura di grafomane, titolare di una fittissima corrispondenza con amici e sodali, con missive che arrivavano alle settanta pagine, e interventi (articoli e saggi polemici) su temi connessi non solo alla narrativa, ma a un altro aspetto della sua personalità, cioè l’adamantina e incrollabile fede nella razionalità e nel materialismo scientifico, senza dimenticare la sua ossessione meno condivisibile, l’ostinato razzismo nei confronti di afroamericani, ebrei, e altre “razze inferiori”, aspetto imbarazzante e ingiustificabile della sua visione delle cose, ma non il motivo del disinteresse e del disprezzo dell’accademia nei suoi confronti.
Disprezzo e trascuratezza che lo hanno accompagnato per tutta la sua esistenza, negandogli la soddisfazione di vedersi, come scrive Paul Roland, introdotto addirittura da Joyce Carol Oates nell’opera omnia che la Penguin Books ha pubblicato e di essere annoverato dalla Library of America nella Hall of Fame dei grandi scrittori americani, insieme a colossi come William Faulkner, Henry James e altri. Al punto che, come scrive Roland:
“morì convinto che il suo nome sarebbe rimasto nell’oscurità e la sua opera sarebbe caduta nel dimenticatoio o relegata in un angolo sperso degli archivi della John Hay Library, ma in questo senza dubbio si sbagliava”.
D’altra parte, l’attenzione delle grandi istituzioni pubbliche e del mercato non nasce dal nulla: la sua presenza nell’immaginario e nelle pratiche culturali del Terzo millennio è cresciuta e si consolida sempre di più, come registrano i curatori dell’antologia The Age of Lovecraft cui si è fatto cenno in apertura.
È proprio il rinnovato interesse nei confronti dello scrittore da parte di un pubblico giovane, ormai sparso fra librerie, siti web, social network, blog e forum, a far riconoscere ai due studiosi la forza dell’impatto del maestro dell’orrore soprannaturale sulla contemporaneità, e a proporre a un gruppo di autori (fra cui spiccano lo studioso David Punter e lo scrittore post-cyberpunk China Miéville) di esplorare i vari aspetti dell’opera di Lovecraft nei suoi riflessi sul presente.
Il primo dato potrebbe sembrare dovuto a una rilettura superficiale, ed è relativo alla natura di fonte di ispirazione che lo scrittore di Providence ha avuto e continua ad avere nella produzione di narrativa del terrore e dell’orrore, dagli scrittori, ormai classici, già citati, ad autori di primo piano come Clive Barker e Stephen King, fino all’erede più esplicito e dichiarato di Lovecraft, Thomas Ligotti, passando per autori meno noti, come quelli antologizzati in un volume pubblicato sempre nel 2016, Tomorrow’s Cthulhu, curato da Scott Gable e C. Dombrowski, che nei loro racconti esplorano le relazioni fra gli universi e gli esseri immaginati da Lovecraft e l’“alba della postumanità”, per non parlare delle presenze, più o meno evocate, allusive, sottili, delle atmosfere e delle suggestioni del maestro in non pochi prodotti seriali e cinematografici apparsi negli ultimi anni.
Ecco, la sostanza dei saggi ospitati da Sederholm e Weinstock ruota sempre intorno a questo tema: Lovecraft è attuale perché, nonostante la disattenzione dei suoi contemporanei e dei critici che li hanno seguiti fino all’avvento della tarda modernità (e del suo superamento, a ben vedere), pur lavorando su materiali che provenivano dal passato della storia dell’immaginario e della letteratura, dal gotico, dal fantastico, da quell’area che gli anglosassoni chiamano dell’uncanny (il perturbante) o gothic (ma in un’accezione più ampia della nostra), ha intuito o perlomeno indicato una strada che nella contemporaneità sembra rielaborare istanze, percezioni, proiezioni che hanno a che fare con le nostre paure e incertezze.
Quelle legate alla percezione della dissoluzione dell’ordine del mondo cui eravamo abituati, alla sua liquefazione, all’emergere di un universo altro, alieno, adiacente al nostro, fatto di ombre e di abissi incomprensibili e spaventosi.
Nell’abisso del nulla
Come se il crollo delle grandi narrazioni novecentesche stesse lacerando una membrana, quella che ci separava e salvava dalla conoscenza della vera realtà, una realtà indifferente ai destini umani, maligna, fatta di decomposizione e follia. Una realtà che ci rende consapevoli di non aver nessun diritto, nessuna speranza, nessun futuro, ontologicamente uguali a un sasso, a una blatta, a un qualsiasi rifiuto organico. Come scrive Jeffrey Weinstock, “A sostituire una concezione razionalista del mondo ce n’è una animistica governata da una sorta di «ontologia piatta» in cui tutti gli oggetti – incluse le persone – hanno lo stesso statuto ontologico” (cit., traduzione dell’autore, ndr) facendo riferimento al filosofo Levi R. Bryant e al suo testo sulla Democracy of Objects (2011), in cui l’autore ipotizza un superamento della razionalità scientifica e l’istituirsi di una “ontologia piatta” che parta dal riconoscimento di una sostanziale uguaglianza di tutto ciò che esiste, senza gerarchie e precedenze. O più pragmaticamente, si potrebbe ipotizzare che il ritorno dell’interesse per lo scrittore sia l’emergere di una sorta di sacro secolarizzato, una disposizione che nasce da quell’ansietà escatologica che l’antropologa Mary Douglas indica nei suoi testi come lo stato d’animo che proviamo in periodi di forte mutamento e incertezza sociale, e che ci induce a riprodurre atteggiamenti antichi, arcaici, legati all’idea che il mondo sia immerso nel sacro, un sacro inconoscibile, ingovernabile, incomprensibile, ma sostanzialmente nemico.
- Paul Roland, Re-Animator, Syborgmusic, 2007.
- Levi R. Bryant, The Democracy of Objects, Princeton University Press, Ann Arbor, 2001.
- Mary Douglas, Natural Symbols. Exploration in Cosmology, Routledge, London/New York, 1970.
- Scott Gable, C. Dombrowski (eds.), Tomorrow’s Cthulhu, Broken Eye Books, Seattle, 2016.