Il pianista giubilante
su un oceano di oscurità


Gordon Beck
Jubilation!
Trios, Quartets and Septets in Session 1964 – 1984
Turtle Records, 2018

Formazione complessiva:
Gordon Beck (piano, piano elettrico, flauto, basso, batteria),
Kenny Wheeler (tromba, flicorno),
Chris Pyne (trombone),
Ray Warleigh (sax alto, flauto),
Sulzmann (sassofoni, flauto),
Frank Ricotti (vibrafono),
Jeff Clyne, Mick Hutton,
Ron Mathewson (basso),
Johnny Butts, Tony Oxley,
Steve Arguelles (batteria).


Gordon Beck
Jubilation!
Trios, Quartets and Septets in Session 1964 – 1984
Turtle Records, 2018

Formazione complessiva:
Gordon Beck (piano, piano elettrico, flauto, basso, batteria),
Kenny Wheeler (tromba, flicorno),
Chris Pyne (trombone),
Ray Warleigh (sax alto, flauto),
Sulzmann (sassofoni, flauto),
Frank Ricotti (vibrafono),
Jeff Clyne, Mick Hutton,
Ron Mathewson (basso),
Johnny Butts, Tony Oxley,
Steve Arguelles (batteria).


“Ascoltare Bill Evans è stato come quando andai per la prima volta a un concerto di George Shearing o incontrai Pete King o, ancora, quando misi per la prima volta un disco di Charlie Parker. Fu sconvolgente. Mi fece subito pensare che era meglio smettere di suonare. E ancora oggi mi fa questo effetto” (Wickes, 1999).

A parlare così a un giornalista della BBC nel 1994 è Gordon Beck, pianista e compositore britannico, scomparso il 6 novembre 2011 all’età di settantasei anni. Citare Evans è d’obbligo perché Beck ha indubbiamente fatto tesoro degli insegnamenti del grande jazzista statunitense, ma confinarlo al ruolo di mero epigono (come è stato spesso fatto dalla critica) è errato. Basterebbe, per esempio, mettersi all’ascolto della splendida raccolta di registrazioni tutte inedite Jubilation! Trios, Quartets and Septets in Session 1964 – 1984, pubblicata dalla risorta Turtle Records, etichetta indipendente creata da Peter Eden nel 1968. Si tratta di un cofanetto che comprende tre compact disc e un corposo libretto ricco di annotazioni e di fotografie curato dal sassofonista Simon Spillett con il contributo del giornalista Colin Harper, già biografo di John McLaughlin, e del fotografo Jak Kilby.
Ma chi era Gordon Beck? Pianista dalla solidissima preparazione tecnica forte di studi classici (evidente l’influenza avuta su di lui da Claude Debussy), emerge sin dagli esordi come uno dei più brillanti esponenti di una generazione di jazzisti europei dotati di grande personalità e poco inclini a farsi ingabbiare nelle musiche di genere. Si fa le ossa alla fine degli anni Cinquanta nella band del sopra citato sassofonista Peter King, riuscendo a suonare nella serata di inaugurazione del “nuovo” Ronnie Scott e diventando una presenza fissa del jazz club più in vista della capitale inglese.
Nel 1960 debutta discograficamente su un album della band del batterista Tony Crombie e l’anno seguente entra nei Jazz Five di Vic Ash e Harry Klein. Nel 1962 l’ingresso nel quintetto del sassofonista Tubby Hayes, che allora era considerato il miglior gruppo jazz in circolazione nel Regno Unito, lo consacra a nuovo talento, capace di andare oltre i confini dell’hard bop. Tuttavia, nonostante il successo, il sodalizio con il gruppo di Hayes dura lo spazio di soli due anni e due dischi all’attivo, Late Spot at Scott’s e Down in the Village.
La ragione è semplice: Beck ha fretta di costituire un proprio trio ed è sempre più insofferente agli standard. In quegli anni, diventa il pianista ufficiale di Annie Ross, suona con il quintetto del batterista Tony Kinsey e accompagna diverse cantanti statunitensi in visita nel Regno Unito come Joy Marshall, Betty Bennett e Helen Merrill. Il suo orecchio è anche sempre più attratto da cosa succede al di fuori di quello che, allora, erano gli angusti confini del jazz mainstream e, a parte una collaborazione nel disco Sound Venture con il cantante Georgie Fame allora sugli scudi dopo aver centrato un hit come Yeh, Yeh (il titolo dice tutto sul genere di musica), comincia a cimentarsi con il repertorio di gruppi della scena pop rock come Beatles, Cream, Kinks e Rolling Stones.

Dopo una falsa partenza nel 1966 e un paio di esordi a proprio nome non proprio convincenti, i trentatré giri Dr Doolitle Loves Jazz e Half a Jazz Sixpence che adattano in chiave jazz brani di musical composti da Leslie Briscusse e Henry Heneker (qui Beck è affiancato da partner per così dire conservatori: Kenny Baldock al basso e Jackie Dougan alla batteria), il primo vero debutto su vinile del pianista britannico avviene non con un trio, ma in quartetto nel 1968 con Experiments with Pops: un titolo che è un programma e che vede Beck in compagnia di tre musicisti che da lì a pochi mesi contribuiranno a lavori entrati nella storia del jazz contemporaneo: John McLaughlin alla chitarra elettrica, Jeff Clyne al basso e Tony Oxley alla batteria. Il primo sarà l’anno dopo in studio con Miles Davis per le sedute di registrazione da cui scaturì quell’autentica pietra miliare che è Bitches Brew. Il secondo andrà a far parte del quintetto Nucleus capitanato da Ian Carr (lui sì, vero discepolo, ma di Davis), che operò la via inglese all’ibridazione con il rock nel disco Elastic Rock. Il terzo negli anni a seguire sarà protagonista del versante più radicale dell’improvvisazione europea e andrà a fondare con il chitarrista Derek Bailey l’etichetta indipendente Incus, punto di riferimento nel Regno Unito per le musiche senza compromessi.
Tornando a Experiments with Pops, questa volta il gioco di incrociare jazz e musica popolare riesce in pieno e le composizioni riarrangiate di Lennon-McCartney (Michelle e Norvegian Wood), Pete Townshend (I Can See for Miles) e Brian Wilson (Good Vibrations), per citarne alcune, rivivono in una dimensione sperimentale, con risultati ben lontani da quelli di pedisseque cover. Ma la maturità piena Beck la raggiunge, sempre lo stesso anno di Experiments with Pops, con Gyroscope, il primo album di sole composizioni originali suonato dal trio che diventa definitivo senza più McLaughlin.
Si tratta di uno dei manifesti più puri dello stile pianistico di Beck costruito intorno a serrate trame ritmiche, fraseggi senza respiro e temi di grande spessore lirico.

Il primo cd del box Jubilation!, oltre a documentare una delle prime incarnazioni del Gordon Beck Trio risalente al 1964 (con Jeff Clyne e Johnny Butts), si concentra proprio su Gyroscope riportando una session inedita del 1968 in cui il trio rielabora alcune composizioni apparse su disco come Sincerity, dove Beck comincia a prendere le distanze dal maestro Evans, e Oxley tenta di traghettare il sound su terreni più free. Degna di nota anche Motifs, ultimo brano della session, che dà prova dell’alto livello di tecnica e di attenzione al dettaglio messo in mostra da Beck con un’interpretazione che sfiora i canoni della musica classica e barocca.
Non meno intensa è la performance che conclude il primo dischetto, che vede il pianista britannico nella veste di band leader alla guida di un settetto assai pregiato: vi figurano, tra gli altri, Kenny Wheeler al flicorno e Frank Ricotti al vibrafono. La registrazione risale all’estate del 1972 quando Beck aveva riunito intorno a sé una sezione di fiati associandola alla sezione ritmica del suo trio che allora vedeva sempre il fido Oxley affiancato da un nuovo bassista, Ron Mathewson.
Brani come Reaching For The Stars And Further Still o Prelude/Tying Up The Loose Ends sono la testimonianza di quanto ai tempi fosse visionario e originale il jazz inglese e di quanto Beck (qui anche al piano elettrico) fosse in piena sintonia con i lavori altrettanto “emancipati” di suoi eminenti contemporanei come Mike Westbrook o Graham Collier.
Dal 1969 al 1972, Beck raggiunge il massimo della popolarità entrando a far parte del leggendario quartetto del sassofonista statunitense Phil Woods e, per la prima volta, fa capolino nei salotti buoni del jazz d’oltreoceano, entrando anche a diretto contatto a Parigi con Bill Evans, suo eroe e costante fonte di ispirazione. Gli anni Settanta sono un decennio denso di avvenimenti: non c’è solo l’avventura americana, che a differenza di altri musicisti britannici, come il suo ex partner McLaughlin, si rivelerà passeggera, ma anche il rientro in patria con la ricostituzione dell’amato trio, ribattezzato Gyroscope, con Ron Mathewson, e Daniel Humair, e la collaborazione con diversi gruppi e artisti come i Piano Conclave del compositore e arrangiatore svizzero George Gruntz e i Nucleus di Ian Carr dal 1972 al 1974.
Sempre richiestissimo come session man, a partire dal 1974 lavora con Lena Horne, Gary Burton, Clark Terry, Charles Tolliver e, ancora, Phil Woods. Organizza la Treforest Summer School nel 1978 e incide French Connection per la JMS Records (un secondo volume seguirà nel 1982). L’anno dopo inizia una proficua collaborazione con il chitarrista Allan Holdsworth che si concretizza nella registrazione di due luminosi album, Sunbird e The Things You See, e nel 1979 omaggia il suo pianista preferito con Ron Mathewson, Tony Oxley, Stan Sulzmann, e Kenny Wheeler in Seven Steps To Evans.

Della seconda metà degli anni Settanta fanno parte le registrazioni del secondo cd della raccolta, forse la parte più interessante di tutto il box. Si parte con quattro brani in trio, battezzato per l’occasione MOB, che vedono Beck affiancato da Oxley e Mathewson: qui il pianista britannico alterna piano acustico ed elettrico (preferendo spesso l’Hohner al più gettonato, ai tempi, Fender Rhodes) facendo sfoggio di una tecnica sopraffina e di un innato lirismo capace di conquistare l’orecchio più distratto. Ascoltare Heading’ On Out per credere. Ma la registrazione più sorprendente che svela completamente il genio e l’eclettismo di Beck è Suite: Bits&Pieces: una “costruzione” di 25 minuti formata da sei temi separati dove Beck svaria in solo tra piano elettrico, piano acustico e flauto alternando ballads, improvvisazioni, musica contemporanea, funky ecc. Un tour de force virtuosistico e quasi metafisico che dopo quasi mezzo secolo dalla registrazione “suona” senza tempo. Una gemma senza tempo.
Gli anni Ottanta vedono Beck progressivamente ridurre gli impegni, ritirandosi nel Cambridgeshire dove si dedica al restauro di auto d’epoca (!). Tra i lavori più significativi dell’ultima parte della sua carriera, il solo Reasons, pubblicato nel 1983, la collaborazione con Helen Merrill in No Tears, No Goodbyes (1984) e con il violinista Didier Lockwood. Nel 1996 si riunisce per l’ultima volta a Phil Woods per un concerto alla Wigmore Hall a Londra e l’anno seguente registra Once Is Never Enough con Stan Sulzmann, Chris Laurence e Paul Clarvis.
Il terzo e ultimo cd della raccolta della Turtle Records si ferma però fino al 1984 e, oltre a inglobare altre quattro composizioni originali registrate in piano solo dal nostro alla fine del 1976 dove per l’ennesima volta esplora ogni potenzialità che lo strumento è in grado di offrire (dinamica del suono, pedali, risonanze, ecc.), documenta la breve stagione di un quintetto con Frank Ricotti, Stan Sulzmann, Mick Hutton e Steve Arguelles.
Nel 1973, Ian Carr nel suo libro-repertorio sull’allora emergente jazz britannico, Music Outside, descriveva Beck come un pessimista cronico, fatalista e sempre pronto a scommettere sull’ipotesi più disastrosa o negativa. Eppure, annotava Carr, quando si siede al piano sembra uscire definitivamente dalla bolla di oscurità che sembra imprigionarlo perché il suo suonare è pieno di gioia, una celebrazione della vita. Tanto che la sua inestinguibile creatività e il suo straripante virtuosismo non sono altro che un’espressione di jubilation.

Ascolti
  • Gordon Beck, Experiments with Pops, Art of Life, 2003.
  • Gordon Beck, Gyroscope, Art of Life, 2002.
  • Gordon Beck, French Connection I & II, JMS, 1995.
  • Gordon Beck, Sunbird, Cream, 1996.
  • Gordon Beck, Reasons, JMS, 1983.
  • Gordon Beck, Seven Steps To Evans, MPS, 1980.
  • Helen Merrill, Gordon Beck, No Tears, No Goodbyes, Owl, 2001.
  • Allan Holdsworth, Gordon Beck, The Things You See, JMS, 2007.
Letture
  • Ian Carr, Music Outside, Northway Publications, Miami, 2008.
  • Duncan Heining, Trad Dads, Dirty Boppers and Free Fusioneers – British Jazz 1960 – 1975, Sheffield, 2012.
  • John Wickes, Innovations in British Jazz. Vol. 1, Soundworld, Londra, 1999.