Quando osservando l’arte
si genera letteratura

Giorgio Manganelli
Emigrazioni oniriche
A cura di Andrea Cortellessa

Adelphi, Milano, 2023
pp. 348, € 24,00

Giorgio Manganelli
Emigrazioni oniriche
A cura di Andrea Cortellessa

Adelphi, Milano, 2023
pp. 348, € 24,00


Il titolo (Emigrazioni oniriche) di questa nuova antologia di scritti di Giorgio Manganelli (Milano 1922-1991) sulle arti visive, dalla pittura alla fotografia, deriva da una sua recensione di un libro dedicato a Hokusai, L’interminabile, originariamente pubblicata da Jaca Book nel 1989, in cui si legge:

“l’occidentale che contempla l’opera di questo pittore giapponese si scopre in una condizione di emigrazione onirica. Guardando queste immagini scopre di aver viaggiato, ma non già in una qualsiasi delle direzioni che sono consentite e suggerite all’occidentale”.

In questo articolo, Manganelli confessa senza ubbie di sorta la sua posizione di non-esperto, di colto dilettante nel mondo della critica d’arte intesa come resoconto/narrazione personali di eventi, siano essi mostre, rassegne, monografie:

“Hokusai ha dipinto e disegnato in molti modi: l’esperto ne conta sei; non sono un esperto e debbo accontentarmi di trovare qualcosa che mi pare sia costante nel modo di muovere la mano dipingente: un carattere che chiamerei fluviale”.

Nell’imper(vers)ante mania editoriale di pubblicare la qualunque (minutaglie e risibili parerga inclusi) di uno scrittore o intellettuale tornati di moda, l’idea di antologizzare articoli usciti su giornali e riviste può rivelarsi fra le più riuscite e produrre non di rado buoni libri, solo in apparenza rapsodici, spesso migliori e più intellettualmente eccitanti delle stesse opere principali. Non vogliamo dire che l’autore di Emigrazioni oniriche o Concupiscenza libraria sia preferibile all’autore di Hilarotragoedia (1964), Lunario dell’Orfano Sannita (1973), Centuria (1979) o Amore (1981), per citare solo alcuni titoli di (pseudo)narrativa di Manganelli. Diciamo che il Manganelli critico/recensore si presenta in una veste più familiare a chi non è aduso al suo stile manieristico-sperimentale.

Emigrazioni oniriche è un titolo scaltro: suona bene per un romanzo o una raccolta di racconti, ma calza altrettanto elegantemente anche su una silloge di articoli sull’arte e le arti visive (mostre, musei, fotografia, dagli etruschi a Van Gogh, alle illustrazioni infernali di Alberto Martini, da Okusai alle icone russe, da Michelangelo a Lucio Fontana e Alberto Martini fino all’araldica e agli stemmi moderni, non disdegnando le sedie Thonet) scritti da Manganelli per giornali e periodici specializzati. È in buona sostanza la versione iconografica di Concupiscenza libraria (seguito da Altre concupiscenze). Manganelli dichiara dunque, quasi incidentalmente, la sua non-appartenenza alla classe dei connoisseur, dei critici professionisti o esperti d’arte. Ma questo non gli “preclude il guardo” a una visione geniale, precisa, originale, di artisti, opere e luoghi:

“Che bello non essere di professione critico d’arte, ma andar vagabondando ad adocchiare tele e disegni, e dir sciocchezze, come viene viene. Confesso che nel Pitocchetto niente mi interessa di meno del suo supposto amore per i poveri. […] Ai miei occhi poveri, i pitocchi del Ceruti sono un registro retorico, una scelta di linguaggio, e quella scelta, se devo essere chiaro, nasce non già da amore cristiano, ma da assoluta indifferenza morale, da una splendida e torva passione pittorica”.

Abbiamo citato questo brano dall’articolo Il Pitocchetto, che inizia così, secondo i canoni del giornalismo e oggi diremmo del Seo: “A Brescia, al Monastero di Santa Giulia, la mostra decisiva, definitiva, scandalosa di Giacomo Ceruti, detto il Pitocchetto, nato a Milano in Campo Lodigiano, nel 1698, morto a Milano a San Simpliciano, 1767”. È uno degli articoli migliori su quelle che possiamo definire, mutuando una sua espressione, “strane mostre”. Come quella dedicata alla figura di Maria Maddalena, a Palazzo Pitti, Firenze: “strana mostra, ho detto: fascinosa e inquietante, con un che di densamente aromatico, a dire il vero anche un po’ soffocante, liturgico e carnale. Dunque, i capelli: Maria Maddalena pare nascere dalla meraviglia magata della chioma che raccoglie tutta una mitologia della capigliatura, fino alle serpi di Medusa”. Manganelli si riferisce qui alla “terribile e sontuosa” Maddalena di Donatello.

Tra bellezza e orrore: mitologia della capigliatura
Così, in virtù di questi richiami interni, arriviamo un po’ come Tarzan con le liane, a Medusa. Non c’è figura della mitologia classica più simbolicamente complessa e attuale di Medusa. Oggi si è addirittura trasformata nell’emblema del più violento metooismo femminista: la scultura bronzea dell’artista italo-argentino Luciano Garbati, Medusa con testa di Perseo del 2008, ribalta la celebre statua di Benvenuto Cellini a Firenze, trasformando Medusa nell’uccisore di Perseo, come vendetta per il mitologico “viol de Medusa” compiuto dall’azzurrocrinito Nettuno (povero Perseo, deve pagare, innocente, per uno stupro compiuto da un dio!). Nella sua vicenda e soprattutto nella storia bimillenaria del suo ritratto, dalle prime raffigurazioni sulle anfore greche del VII secolo a.C. fino alle versioni cinematografiche come Le Choc des Titans (2010), la bellezza di Medusa (che conserva soprattutto nel volto il ricordo di una femminilissima venustà) convive con l’orrore teratologico di quella metamorfosi punitiva (secondo una delle versioni tarde del mito, è la vendetta di Atena invidiosa della bellissima e fluente capigliatura di Gorgo) che le ha trasformato il capo in una selva di serpi. Scrive Manganelli:

“I capelli di Medusa divennero una selva di serpi; fu forse l’avvertita metamorfosi delle chiome che per la prima volta spalancò gli occhi disastrosi? Incoronato da una selva di lucide aspidi, scavato dalla potenza di due occhi orrorosi, il volto di Medusa restò una bellezza quale solo una dea poteva osare, e che una dea non poteva ledere. Atena odiava quella bellezza letale; per Medusa venne sentenziato un esilio tra fortezze di rocce, forse nelle gole di quell’Atlante che lei stessa aveva pietrificato […] Ma chi è Medusa? È una regina crudele? È il fascino perverso della femminilità che uccide? È la morte? Le leggende, le contraddittorie leggende, in questo concordano: nessuno riferisce una frase di Medusa. Medusa tace. Perseo le si avvicina -vuole ucciderla- e per non guardare quegli occhi la tiene d’occhio riflessa nello scudo”.

La bellezza e l’orrore ripropone l’articolo apparso su FMR 1968 Perseo innamorato di Medusa: Manganelli affronta il tema della bellezza che si converte, però, nell’orrore, prediletto da numerosi artisti del Rinascimento e del Barocco, dal Perseo di Benvenuto Cellini con la testa di Medusa in Piazza della Signoria a Firenze al  busto scultoreo di Gian Lorenzo Bernini, opera sulla quale si sofferma la lettura di Manganelli, passando dal celebre tondo meduseo del Caravaggio e da raffigurazioni barocche e truculente come quella di Rubens. Come Narciso – nota Manganelli – Medusa:

“è una figura dello specchio, quelle terribili figure che si possono vagheggiare finché non sfidiamo il lucido confine argenteo; giacché, oltre, sono la morte; a differenza di Narciso -oh, scrivere due vite parallele di Narciso e Medusa!- Medusa non è innamorata di sé, forse è innamorata di quel guerriero furbo e feroce per amore del quale si addormenta di quel mirabile sonno”.

La pietra (e rimandiamo in primis a Stirpe di pietra), lo specchio (si legga anche L’immortalità del riflesso), l’acqua. Sono tre parole chiave di questo libro, tre metafore. Ma dove partire? L’itinerario di lettura è libero, ondivago, affascinante, come in un luna park pieno di attrazioni le più diverse, non si sa se cominciare dall’otto volante o dal tiro a segno o dal treno dell’orrore. Si passa dal sacro al mitologico, da figure maestose e sublimi come Michelangelo e Caravaggio a miti piccoloborghesi come il Signor Biedermeier. Si può iniziare proprio dal saggio Uccidere il signor Biedermeier dove arte, costume, arredamento, società si fondono nella figura iconica del Biedermeier, recensione alla mostra Biedermeiers Glück und Ende, Die Gestörte Idylle 1815-1848, Monaco   10 maggio-30 settembre 1987:

“La splendida mostra che Monaco di Baviera dedica alla Fortuna e fine del Biedermeier, allo Stadtmuseum ci disvela con minuzia e maniacale abbondanza la materia, gli oggetti, i segni, di una cultura che fu forse angusta, ma certamente intensa, e che non è scomparsa ma è diventata una presenza fantasmatica, un umore dell’aria e delle cose, qualcosa che continuamente riconosciamo; e in verità le nostre case hanno più di una traccia di Biedermeier”.

L’età di Gottlob Biedermeier, “come a dire Teofilo Buonomo”, durò press’a poco dal 1815, caduta di Napoleone, al 1848 inizio delle rivoluzioni europee.

“La vita del signor Biedermeier è bene ordinata, dunque sarà bene ordinata la vita cittadina. […] Perché non bisogna nasconderselo: il signor Teofilo è un conservatore. Sui fogli periodici gusta la satira ai danni dei rivoluzionari, delle testecalde; ama l’autorità, e concepisce la sua vita sociale come l’estensione della sua bene ordinata famiglia. È più uomo di chiesa che non religioso, perché anche la religione può dare alla testa […]  è un borghese, ma non è un devoto della libera concorrenza; non gli piace l’economia del furore capitalista; la sua ideologia ha tocchi arcaici, e insieme una sensibilità moderna”.

“Lager di squisitezze”
Il Museo rientra nelle mete Biedermeier. Ne La patacca dell’anima, Manganelli – recensendo da par suo la mostra Museo dei Musei, organizzata da Littauer & Littauer, sulla base di un’idea di Jean Baudrillard, Umberto Eco e Federico Zeri –  pone un problema capitale dell’estetica moderna e contemporanea, l’artisticità o meno della copia nell’arte, tradizionalmente fatta da opere e/o capolavori unici destinati al Museo, “un cronicario di capolavori” dove “il quadro autentico fa già buona parte della strada per diventare un falso” (e già questa è una definizione molto eccentrica). Ma la copia non è un falso, come precisa lo stesso Manganelli. La letteratura ha il privilegio che le copie sono tutte autentiche.

“Che cosa fate quando andate a comprare una Divina Commedia? Non ne comprate una copia? Forse non è un caso il nome identico. E quella copia è o non è la Divina Commedia? Ma naturalmente”.

Qui però c’è un (voluto) equivoco da parte di Manganelli, tra la replicazione a stampa di un testo in tante copie, e la riproduzione esatta di un capolavoro ottenuta più o meno con gli stessi mezzi usati dall’artista originale: la copia di un Caravaggio può essere un’opera unica anche se non è il capolavoro originario. E così Manganelli auspica

“Un Museo che mi consenta -a me, dilettante, come quei milioni che girano il mondo in cerca di bellurie- che mi dia modo di vedere quadri senza frugare mezzo mondo, tanto più che non ci riuscirei. Vorrei un museo in cui si alternassero copie di pittori grandi e piccoli, fiamminghi e giapponesi, antichi e moderni. Copie attendibili. Se mi va, che io possa vedere tre volte Et in Arcadia ego.”

Dal Museo del Museo al Museo tout court. Nel Lager di squisitezze, scritto per celebrare gli Uffizi, a Firenze, giunti al quarto secolo di vita (“Li pensò dapprima quell’inquieto e stravagante alchimista che fu Francesco I de’ Medici, uomo dalla vita manierista. La data di nascita è il 1581”) Manganelli dà un’altra definizione sorprendente del Museo:

“Il museo esige di essere solitario, esemplare, irripetibile. È fatto di oggetti unici. Ogni esempio è una preda, comprata, catturata, deportata, scovata, scavata, rubata, corrotta, scambiata, trafugata. Un museo presuppone una passione non ignara di delitti, una cupa concentrazione, la mitologica fantasia di poter ritagliare uno spazio piatto e conchiuso, tolemaico, nel mondo sferico copernicano. Un museo nasconde una macchinazione, una prepotenza, una frode”.

È interessante e originale, in questo saggio, la scelta da parte di Manganelli di concentrarsi su un dipinto di artista ignoto del Nord Italia della prima metà del secolo XV, che si trova accanto all’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano. Il quadro in questione ritrae un piccolo grande miracolo compiuto da un San Benedetto bambino, dunque da un santo fanciullo:

“Dunque, noi vediamo il piccolo San Benedetto inginocchiato, e di fronte a lui una figura femminile, asciutta ed alta: è la nutrice. Dalle mani di costei è sfuggito un vassoio, un umile, quotidiano vassoio di coccio, e si è spezzato. Ed ora, vedete, San Benedetto interviene per miracolare quel coccio frantumato. Il vassoio viene risanato, come poteva venir risanato un lebbroso, un cieco, resuscitato un fanciullo morto, ucciso nella caduta dalla sommità di una casa”.

Ed è qui il segreto narrato dal quadro: “che il nume, la potenza, colui che regge l’universo, può venir commosso e chiamato da un fanciullo (…) Non esiste per il prodigio gerarchia di atti, di oggetti, di situazioni. Il sacro invade ogni cosa, tutto è ininterrottamente coinvolto nel colloquio con la creazione”. L’articolo ha un taglio narrativo perché a un certo punto Manganelli passa alla descrizione del corridoio vasariano:

“Per un susseguirsi di ambagi, il corridoio scende a livello della strada, sempre accuratamente chiuso, percorre Ponte Vecchio all’altezza di un primo piano, -e qui si aprono argute finestre- e infine raggiunge, al di là dell’Arno, Palazzo Pitti, dimora dei Granduchi, dove si biforca: a destra si sale al palazzo, a sinistra si discende al giardino di Boboli. E poiché un breve passaggio coperto collega Palazzo Vecchio agli Uffizi, il Granduca poteva procedere ininterrottamente, senza mai essere scorto, dal suo incantevole e misterioso studiolo dove si applicava ai suoi studi di magia alchimistica, passando per gli Uffizi, che ospitavano ani he gli uffici amministrativi, e di lì procedere al palazzo o al giardino della dimora granducale”.

Questo libro è sul piano della letteratura generata dall’arte (e dalla letteratura nel caso di Concupiscenza libraria) l’equivalente del Museo del Museo o del Museo nel Museo, per riprendere un luogo prediletto da Manganelli per le sue emigrazioni intellettuali. Ma potremmo anche riprendere un’altra immagine ricorrente, lo specchio: da quello di Perseo che si salva dalla pietrificazione, indotta dallo sguardo vitreo di Medusa, riflettendone l’immagine, agli specchi per e degli etruschi la cui funzione di catturare la bellezza del volto riflesso si prolunga nel ruolo salvifico e apotropaico:

“Labirinti di demoni, strano orchi, volti deformi insidiavano l’itinerario interminabile dell’Ade; e la donna etrusca affrontava quel percorso, camminava nelle tenebre affidandosi all’ausilio dello specchio; […] lo specchio custodiva in modo imperituro la grazia di una forma che non era solo corpo, ma un graffio una incisione eterna sullo spazio del mondo, una cosmesi del cosmo, giacché la bellezza di una donna rendeva il mondo bello, bellissimo, imperituro”.

La raccolta di scritti sull’arte visiva con la sua varietà di oggetti e vissuti è paragonabile alla visita di una piccola ma ricca Persõnliche WunderKammer culturale. Un libro-museo, un libro concettualmente pop-up.

Letture
  • Giorgio Manganelli, Concupiscenza libraria, Adelphi, Milano, 2020.
  • Giorgio Manganelli, Altre concupiscenze, Adelphi, Milano, 2022.
  • Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2022.