Figlio d’una generazione che ha attraversato la fine della modernità, i suoi volti e risvolti segreti, Gianni Vattimo, filosofo che abbiamo conosciuto, apprezzato e imparato ad amare attraverso i suoi straordinari scritti – tra i quali Le avventure della differenza, La fine della modernità, La società trasparente o, ancora, Tecnica ed esistenza –, è uno dei pensatori più squillanti dell’attualità. Legato a un pensiero che ha definito debole, Vattimo ha proposto, via via, un nuovo, inedito e trasparente, rapporto tra il moderno e quello che moderno non è per evidenziare cosa significa pensare dopo filosofi come Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger o Theodor Adorno. Dalla recente impresa della casa editrice Meltemi che ha avviato il monumentale progetto di pubblicare le sue Opere complete (sono previsti undici volumi per un totale di 42 tomi) – di cui sono usciti il Volume Introduttivo (2007), Ermeneutica. Tomo 1 (2007) e Ermeneutica. Tomo 2 (2008) –, all’agilità di Addio alla verità (Meltemi, 2009), l’instancabile penna di Vattimo propone al lettore altre riflessioni – e lo dimostrano due recenti libri del 2010, Magnificat. Un’idea di montagna (CDA Vivalda Editore) e Introduzione all’Estetica (ETS Edizioni) –, avventure senza tempo di un pensiero dall’esemplare chiarezza e dalla suadente lucidità. Quest’ultimo testo, infatti, venne originariamente pubblicato dalla casa editrice il Mulino nel 1977 come introduzione all’antologia Estetica moderna e viene ora riproposto con una postfazione scritta appositamente dall’autore per questa nuova edizione.*
Partirei dalle origini, o meglio dalla sua formazione liceale. In una lunga intervista rilasciata a Luca Savarino e Federico Vercellone ricorda d’essere stato politicamente molto impegnato. Con Migliardi e Fubini ha fondato, negli anni Cinquanta, finanche un giornale studentesco che si chiamava il Vitellone.
Noi tre eravamo molto diversi, ma in quell’ambiente rappresentavamo un po’ quelli che non volevano fare soltanto “i vitelloni”. Il vitellone era proprio un modo di sfottere ironicamente il disimpegno. Migliardi era davvero divertente. Era un comunista molto ortodosso. Leggeva Rinascita, Società… Era un ragazzo serissimo. Pensi che, dopo gli studi liceali, aveva pensato di andare a studiare a Mosca. Era il 1955-1956. Doveva andare a studiare nell’ex Unione Sovietica, ma poi, con i fatti d’Ungheria ha cambiato idea. Per un po’ di tempo ricordo che ha indossato dei cappottoni lunghissimi che dovevano servirgli lì, a Mosca, e che, naturalmente, erano poco adeguati a Torino. Con Fubini poi, eravamo davvero molto amici, avevamo in comune un grande impegno politico sostanzialmente sempre sul lato del centro-sinistra.
Si è laureato nel 1959 con una tesi sul pensiero aristotelico. In seguito avrebbe voluto concentrare l’attenzione su Adorno, ma non l’ha fatto (almeno allora). Luigi Pareyson, il suo maestro, le consigliò Nietzsche e Heidegger. Quanto, queste letture, hanno condizionato il suo pensiero?
Pareyson trovava che Adorno era un tema ancora troppo contemporaneo, troppo giornalistico, e forse aveva ragione. Io, sia nella tesi su Aristotele, sia dopo, andavo cercando un pensiero che mi permettesse di ragionare da cristiano senza essere, però, uno di quei tomisti durissimi e intransigenti. In quel periodo c’era un cristianesimo che ci sembrava reazionario, poi c’era un pensiero laicista molto anticlericale. E poi, naturalmente, c’era il comunismo. Io che allora avevo letto i vari Maritain e i vari Monnier, autori del rinnovamento cattolico post-guerra, cercavo dei critici della modernità che non fossero però dei puri e semplici reazionari conservatori. Certo Nietzsche, per alcuni versi, appariva un po’ reazionario, però non era un bigotto. Quindi devo dire che studiare Nietzsche è stata un’ottima scelta. Poi mi sono reso conto (anni dopo) che in uno dei testi di Monnier che leggevo sempre (L’avventura cristiana), c’erano moltissime frasi in cui non si citava la fonte che era appunto Nietzsche. Quindi avevo cominciato a leggere Nietzsche senza saperlo. In ogni modo, come lei ricorda, Pareyson mi dice di studiare Nietzsche. (In quel momento il problema che mi sembrava fondamentale era quello dello storicismo, uno storicismo troppo rigidamente provvidenzialistico, rivoluzionario, tipo quello marxiano). Per cui ho cominciato a studiare La nascita della tragedia. Una lettura seguita dalla Seconda Considerazione inattuale. Così ho fatto la grande scoperta di Nietzsche. Tra l’altro lo leggevo d’estate, in un rifugio a tremila metri sul Theodulo dove di mattina andavo a sciare e di pomeriggio studiavo. Poi, nel 1960, Heidegger ha pubblicato il suo libro su Nietzsche così ho dovuto considerare anche lui che ho cominciato a leggere proprio attraverso il libro su Nietzsche. E devo dire che sono state le letture decisive della mia formazione e della mia vita.
“Nel 1962, a Heidelberg, ho iniziato a lavorare alla traduzione di Verità e metodo, che però sarebbe uscito soltanto nel 1972. L’ho finito, sempre ad Heidelberg, nell’estate del 1969, andando a discutere la traduzione da Gadamer circa una volta alla settimana […]”. Le andrebbe di ricordare questa figura che ha conosciuto, frequentato, tradotto?
Gadamer era un personaggio olimpico. Aveva qualcosa di goetheiano. Già allora zoppicava per via di una polio che aveva avuto da giovane, a vent’anni credo. Tutto sommato era davvero un omaccione. Sono stato stupito poi, negli anni successivi, fino all’ultima volta che l’ho visto (quando ha compiuto cent’anni), che si era un po’ rattrappito, era diventato piccolo. In ogni modo mi dava sempre un’impressione di monumentalità fisica. Lo ricordo come un uomo davvero molto cordiale e gentile. L’episodio più buffo che non posso non ricordare risale all’ottobre del 1962. Ero arrivato, da poco, ad Heidelberg. L’Università non era ancora cominciata e io ero già lì per un corso di tedesco. Gadamer mi aveva invitato subito a cena per Zonabendt. Zonabendt era una parola per dire sabato ma io conoscevo le varie giornate – Samstag, Sonntag ecc –, e mi sono presentato con un giorno di ritardo (per giunta avendo comprato fiori per la sua signora). Ecco, in quell’occasione Gadamer, uomo elegante, non mi fece osservare nulla di quella mia svista clamorosa. Anzi, mi ricevette molto gentilmente. Tra l’altro a cena c’era anche un altro giovane studente, figlio di Oscar Becker. Come suo traduttore ho sempre avuto un senso di disagio perché mentre il testo che traducevo mi appariva chiarissimo (come anche le sue lezioni) quando parlavamo privatamente lui usava molto spesso dei giri di parole tedesche che non capivo. Kaum, per esempio, è ancora una cosa che mi spaventa molto. Kaum è come dire si, no, ohibò, quasi si o quasi no. Ancora adesso non ho capito che cosa fosse quel Kaum che lui, tra l’altro, usava spessissimo. Ora, avendo tradotto il suo libro questa cosa mi sembra uno strano rovesciamento perché quando gli parlavo avevo sempre l’impressione che mi sfuggisse qualcosa. Fortunatamente a un certo punto lui ha cominciato a parlare in italiano e lì abbiamo risolto molti problemi. Per un po’ ho avuto questa sensazione di disagio continuo. Anche quando andavo ai suoi seminari. D’inverno si andava nel suo studio e d’estate si andava a casa sua, dopo cena, normalmente alle otto e trenta. Era una cosa molto divertente perché in serata uscivamo tutti, andavamo a bere nelle osterie. Mangiavamo sempre un po’ di pane nero e bevevamo del vino con lui che, tra l’altro, era un buon bevitore. In quelle serate lui faceva un seminario sullo spirito, sulla fenomenologia dello spirito. Io, purtroppo, non capivo assolutamente niente. Tutto sommato la traduzione con Gadamer è andata bene. Solo che c’era sempre una sorta di equivoco perché Gadamer, che era ancora più narcisista di me, era convinto che io fossi in Germania unicamente per tradurre il suo libro e invece io ero lì per studiare Heidegger. Anche questa cosa del suo narcisismo è fenomenale. Quando nel 1998 mi hanno invitato a fare una serie di lezioni a Lovanio io ho subito telefonato Gadamer per informarlo anche perché lui aveva inaugurato quella cattedra con quello scritto intitolato Il problema della coscienza storica. Ero molto emozionato. Lui disse subito “si, a Lovanio, ma quella francese o quella fiamminga?”. Io risposi “penso quella francese”. Lui disse “si, perché adesso sono separate, quella francese è molto piccola”. Insomma, mi ha preso un po’ in giro. Devo dire, però, che era anche una persona affettuosa. Ricordo che per alcuni anni un gruppo di noi professori delle università italiane, si riuniva presso il Convento dei Francescani, a Perugia, dove c’era, ogni estate, un collegio fenomenologico. C’eravamo io, Guerra, Severino, Cacciari, Vitiello, Sini, Perniola. Ecco, il primo anno che siamo andati a Perugia c’era anche Gadamer. Dopo la mia relazione sullo sfondamento (che era, allora, una delle mie grandi idee), lui mi ha detto esplicitamente che ero un autentico filosofo. Da allora gli sono diventato ancora più devoto sperando che lo ripetesse continuamente.
Nel 1954 Pareyson ha scritto una Estetica oppositiva al pensiero idealista crociano. In questo volume puntava l’attenzione sulla formatività, sull’aspetto realizzativo della produzione artistica; sui materiali e sulle tecniche adottate, sul versante processuale, su “un fare che mentre fa inventa il modo di fare”. Cosa ne pensava allora di questa nuova visione delle cose? E cosa ne pensa, ora, a distanza di tempo?
Era una grande trovata perché in quel periodo c’erano tutte queste estetiche di tipo più operativo. Anche Umberto Eco veniva da questo discorso. Forse il bello di Pareyson è che già allora aveva trovato il modo di giustificare il giudizio estetico senza norme extraestetiche perché il vero problema era quello. In Croce c’era sempre un po’ di intuizionismo mentre Pareyson aveva già introdotto i primi elementi di ermeneutica in cui evidenziava che il processo è un fare che inventa il modo di fare e anche il da farsi. Questa è la formatività specificata. L’essenziale era che la vita spirituale è una totalità di attività. Questa totalità si specifica in attività, ha dunque delle specificazioni. Mentre il produrre tecnico è un fare che inventa il modo di fare ma non il da farsi, perché la cosa da fare è data da esigenze pratiche ecc. (naturalmente dietro c’è sempre Kant). Il formare artistico è un formare che inventa insieme l’oggetto da fare, la regola del fare e il modo di fare. Come dire, l’oggetto estetico non è richiesto da niente ma una volta che uno comincia a farlo non può più dire “adesso faccio di testa mia” perché effettivamente una cosa che mi ha sempre impressionato nella formatività di Pareyson è che lui prende l’esempio del produrre artistico perché l’artista corregge. Paryson sostiene che nel formare si annuncia una forma formante che, una volta iniziato il processo, cresce un po’ come un organismo.
“Fare spazio è libera donazione di luoghi. Nel fare spazio parla e si cela al tempo stesso un accadere”. Nell’Introduzione a questo brevissimo scritto (L’arte e lo spazio), lei ricorda che Heidegger era legato ad una problematica temporale. Riversando nel presente questa idea possiamo parlare, secondo lei, di uno spazio temporalizzato, di un luogo, cioè, che si fa tempo, di un movimento continuo del materiale (tangibile) e dell’immateriale (intangibile)?
Si, credo che volendo si può fare un discorso del genere. Introducendo e ripensando all’arte e lo spazio mi ero reso conto che avevo assistito a una conferenza di Heidegger in casa di Gadamer nel luglio del 1964 in cui lui aveva detto che se avesse dovuto scrivere Sein Und Zeit l’avrebbe chiamato Sein Und Lichtung perché Lichtung ha più a che fare con lo spazio, con la radura, con lo spazio aperto del bosco. Poi, leggendo L’arte e lo spazio mi sono reso conto che se c’era un movimento nel pensiero heideggeriano era un movimento dal tempo allo spazio. Adesso giustificherei una tesi del genere perché lo spazio non implica la riassunzione in un punto. Preferire il tempo allo spazio significa sempre immaginare che tu puoi possedere tutto in uno momento determinato; che è sempre come una sorta di autocoscienza hegeliana, non per niente in fondo in Hegel poi le arti supreme sono sempre l’appropriazione della coscienza. Parlare di spazio significa aprire maggiormente la possibilità di più universi. Già in qualche studio su Heidegger che io avevo letto durante gli anni Sessanta si parlava di topologia. Per esempio adesso uno che parla di topologia è Vincenzo Vitiello; e credo che usa quest’idea applicandola ad Heidegger per fondare una prospettiva multiculturale. Lo spazio permette una molteplicità che il tempo non ammette. Del resto anche in Kant c’è questa priorità del tempo sullo spazio perché tu vedi gli spazi unificandoli sotto la categoria del tempo e non viceversa. Sono convinto di questo ma non so come applicarlo. Parlare di topologia dell’Essere, per esempio, è soltanto una metafora. Se parlo di topologia posso fare una filosofia multiculturale. Cosa vuol dire? Teoricamente vuol anche dire che in Africa hanno una cultura diversa dalla mia. Ma personalmente non sono pronto ad approfondire la metafora spaziale fino a questo livello.
Veniamo a quello che lei ha definito pensiero debole…
Devo dire che il primo nucleo riflessivo del “pensiero debole” nasce a Salerno durante un incontro tenuto nella piccola Galleria Taide di Pietro Lista. Mi aveva invitato Filiberto Menna. Era il 1978. Ricordo che lui non c’era. Era andato a Roma, forse. Tra i presenti c’erano Maria Paola Fimiani, che coordinava il dibattito, e Angelo Trimarco. All’epoca loro due erano fidanzati. Così proprio in quella occasione presentai una prima relazione sul pensiero debole. Con il pensiero debole il mondo non ha più bisogno di assoluti. La dissoluzione delle basi – come dice Nietzsche – porta all’emancipazione, alla presa di coscienza, alla liberazione dal e del simbolico (come credenza da una parte e come volontà sperimentativa dall’altra). Ecco allora il nuovo pensiero, debole appunto. Diciamo che tutto dipende da una certa lettura di Heidegger. In Heidegger la differenza ontologica evidenzia che l’Essere non si identifica con gli Enti (e quindi nemmeno con un determinato ordine dell’ente). La differenza ontologica è stata poi letta dallo stesso Heidegger come un Essere che si sottrae per lasciare apparire l’Ente. In altre parole, mentre appaiono gli enti l’Essere non appare. Il suo accadere, l’accadere dell’Essere appunto, consiste proprio nel lasciare apparire gli enti. Per esempio l’accadere dell’Essere è un’apertura storica come se fosse, per esempio, un paradigma di Kuhn. In questo discorso della differenza però entra già subito, nella riflessione di Heidegger, il problema della metafisica. La differenza ontologica non è una pacifica descrizione della struttura del mondo, ma piuttosto una specie di attacco alla struttura del mondo così com’è. Si scopre soltanto in conflitto. Essere e tempo nasce, esemplarmente, nel periodo delle avanguardie storiche. Le avanguardie storiche erano fondamentalmente l’Espressionismo. L’idea di rifiutarsi di accettare l’ordine da rappresentare tranquillamente. Se uno legge Spirito dell’utopia di Ernst Bloch sente lo spirito di quell’epoca. L’uomo deve imprimere all’esterno il suo monogramma intimo e non viceversa. Ora, quando Heidegger scrive Essere e tempo è insoddisfatto della concezione dell’Essere che è quella del positivismo tardo ottocentesco che fonda per lui anche l’organizzazione totale del mondo, la razionalizzazione della società. Quello che i francofortesi chiamano, poi, organizzazione totale, che è anche il problema di Heidegger. Non sono solo problemi metodologici. C’è, dietro, il mondo della libertà che viene sempre di più aggredita dal mondo dell’organizzazione industriale diventata estremamente cogente intorno alla prima guerra mondiale. Taylor scrive il libro Interpretazione scientifica del lavoro nel 1907. Fiat e Ford nascono tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Insomma, c’è tutto questo che si riflette nell’insofferenza di Heidegger per la concezione metafisica oggettivistica dell’Essere. Allora a lui è data la tesi della differenza ontologica ma gli è data anche insieme alla scoperta che ce la siamo dimenticata. Secondo me significa che lui non può teorizzare la differenza ontologica senza domandarsi perché tende a sfuggirci. Quello che lui, del resto, chiama metafisica. La metafisica è l’oggettivismo che identifica l’Essere con l’oggetto. Platone è già metafisico perché identifica l’Essere con l’idea, con la visibilità dell’idea. Ma è soltanto l’affare di un’epoca? Su questo Heidegger oscilla sempre. Anche perché non riesce a trovare il linguaggio adatto per parlare in termini non metafisici. Alcuni dicono che lui poi è andato in cattedra e se ne sia dimenticato. Anche questa spiegazione apologetica non è così inverosimile perché tutto quello che ha fatto dopo non è stato altro che riflettere sul rapporto tra Essere, Linguaggio e Cultura. Questa distinzione sulla differenza ontologica per me è decisiva perché vuol dire che se abbiamo dimenticato l’Essere o è un errore o è un destino. Heidegger, dal canto suo, si è illuso che si potesse costruire una società più simile a quella greca delle origini, preclassica (un’idea legata a Nietzsche e a Hölderlin). Del resto la Grecia antica è più simile alla Germania di oggi. Questo è, appunto, l’errore, secondo me, per cui Heidegger ha sbagliato filosoficamente a diventar nazista. Poi si può pensare invece, ed è stata la mia tesi, che la metafisica è il destino dell’Essere. E allora io trasformo l’Essere in pensiero debole. Un modo di ricordare l’Essere è ricordarselo sempre come già sempre andato via. Ciò presuppone anche i rischi di pensare l’Essere come qualcosa che può ritornare. Può ritornare o perché noi costruiamo una società diversa dal nazismo o perché noi, per esempio, lo invochiamo. Queste sono vie che Heidegger non ha voluto percorrere e che, tutto sommato, mi sembrano escluse dall’idea della differenza ontologica. L’idea che l’Essere o non c’è più ma torna o c’è da qualche parte che noi dobbiamo raggiungere in qualche modo, significa sempre ignorare la differenza ontologica. L’unico modo in cui possiamo rispettare la differenza ontologica è pensarla dinamicamente come qualcosa che…
La temporalità…
Sì, proprio la temporalità. Io sono convinto che c’è nella visione heideggeriana dell’Essere una concezione anche un po’ hegeliana perché l’Essere accade e si autentica nel momento in cui dissolve progressivamente la perentorietà dell’ente dell’oggetto. E qui vanno persino a osare i fisici. Anche la fisica, procedendo verso livelli sempre più astratti, dissolve la concretezza del dato. E questo a me sembra importante perché poi, per esempio, la liberazione del simbolico vuol anche dire: trasformiamo tutto in linguaggio, istituzioni, convenzioni, diritto formalizzato. Tutti modi di prendere distanza dalla perentorietà della presenza. Ora, se c’è una emancipazione umana attraverso un recupero dell’Essere è nell’alleggerimento progressivo dell’ente dato spazio-temporale. Il pensiero debole è questo. È l’idea che il nichilismo è la storia autentica, che il cristianesimo è simbolicamente la Storia dell’Essere perché la chemiosis, l’incarnazione di Cristo, è l’abbassamento di dio. Quello che racconta René Girard sul fatto che la religiosità naturale antica identificava il sacro con il violento (Gesù Cristo è stato messo in croce perché ha rivelato questa connessione) ha svelato un meccanismo violento del sacro, il sacrificio. E tutto questo a me sembra chiaro come il sole. Anzi mi sembra così chiaro che sembra quasi non vero. È troppo bello per essere vero. E io a questo pensiero ho applicato tutta una serie di tesi. Ho messo la modernizzazione. Se io, per esempio, come cattolico di sinistra degli anni Cinquanta trovo che Voltaire è più cristiano dei Gesuiti del Settecento (perché lui, a differenza dei Gesuiti, era contro il diritto divino dei re), dico che la verità del cristianesimo è la chemiosis, lo svuotamento progressivo delle pretese di assolutezza che hanno sempre dato luogo soltanto a stermini e a guerre di religione e che invece, essendo alleggeriti, demitizzati, lasciano aperto il discorso della carità. Anche Nietzsche in fondo lo dice quando ci predica che non ci sono valori oggettivi. Ci mette in una condizione bipolare. È una premessa alla scoperta della verità come fraternità in confronto alla pura violenza elementare in cui siamo sempre avviluppati.
C’entra qualcosa la Dialettica dell’illuminismo con il pensiero debole – almeno da un punto di vista schiettamente antiscientifico –, o è soltanto una nostra riflessione mancata?
Credo proprio di si. Deve sapere che era mia intenzione studiare Adorno. Del resto La dialettica dell’illuminismo è l’idea che richiede un’alternativa. Da qualche parte ho detto però che nella soluzione di Adorno c’è, permanentemente, un’idea metafisica dell’Essere che dovrebbe essere pieno, trasparente, bello. E ovviamente non è possibile, è utopico. Per questo motivo Heidegger mi sembra più filosoficamente convincente. Proprio perché non mi lascia con l’idea di un’utopia. Trovo che seguire Heidegger sull’idea di una vocazione dell’Essere alla sottrazione della perentorietà sia più costruttivo.
Possiamo parlare di pensiero debole come di una ideologia antiideologica?
Certamente, antiideologica nel senso che è contro tutte le assolutizzazioni di valori. Effettivamente possiamo parlare di pensiero debole come ideologia antiideologica perché il debolismo critica fortemente tutte le ideologie che pretendono d’essere vere e assolute. È un atteggiamento più che una serie di contenuti.
“L’essenza ornamentale della cultura della società di massa” lei scrive in, La società trasparente, “la effimerità dei suoi prodotti, l’eclettismo che la domina, l’impossibilità di riconoscervi una qualche essenzialità – che fa spesso parlare di Kitsch per questa cultura – corrisponde invece pienamente al Wesen dell’estetico nella tarda modernità”. L’esteticizzazione dell’arte (e della politica come avvisava Benjamin), l’arte ormai definitivamente scomparsa, disseminata nella vita, “il delinearsi di una esperienza estetica di massa”, hanno determinato, secondo lei, un “passaggio dall’utopia all’eterotopia come carattere dell’esperienza estetica”. Un passaggio (dal non-luogo all’altro-luogo appunto) che lei identifica come “carattere ornamentale ed eterotopico dell’estetico di oggi”. Esiste ancora una forma o la forma sta diventando (è diventata) una informazione transitoria da individuare nella dimensione eterotopica? E la dimensione eterotopica può essere individuata negli spazi fittizi offerti dai media tecnologici (la tv, il web…)?
Io mi auguro che vada a finire così. Sono convinto che quello che ci spetta oggi è soltanto una perversione della tecnologia (che è nata per scopi bellici) di senso estetico. Pensare che la società della pubblicità, della fantasmagoria delle merci sia già l’estetico è alquanto contraddittorio.
È davvero così contraddittorio oppure dobbiamo individuare delle differenze all’interno di questo mondo?
Il problema vero è che da un lato dell’indebolimento dell’Essere fa parte il passaggio al mondo della finzione e delle immagini, dall’altro, come diceva già Marcuse, noi potremmo abbandonare la repressione, quindi liberare le immagini, servircene più liberamente per lavorare meno, per esempio. Tuttavia c’ è ancora un di più di fatica. E in parte la fatica ci è imposta da chi detiene il comando. Quindi non possiamo godere abbastanza del mondo delle immagini. L’estetizzazione della vita è lo scopo anche della tecnologia.
In un altro suo libro, La fine della modernità, ripercorrendo alcuni pensieri heideggeriani rivolti al tempo e alla temporalità delle cose e della vita (Sein und Zeit), dice che “L’opera d’arte è l’unico tipo di manufatti che registri l’invecchiamento come un evento positivo, che si inserisce attivamente nel determinare nuove possibilità di senso”. Dunque è l’opera d’arte a mostrare il mutamento, radicale o lento, indolore o amaro, di un’epoca? Ad aprire, di volta in volta, inoltre, a una nuova Weltanschauung?
Sì. Io professo quella tesi hegeliana secondo cui l’opera d’arte apre un mondo. L’opera d’arte, rispetto all’oggetto d’uso, vive del suo invecchiamento. Io credo che nella stessa costituzione dell’oggetto artistico ci sia un meccanismo di mummificazione preventiva. Per esempio, le filastrocche che sono scritte in versi per essere ricordate meglio. C’è una specie di monumentalizzazione, di eternizzazione, nel fissare qualcosa in un ritmo che lo rende più disponibile a essere ricordato. Sono sempre stato convinto che nell’esperienza estetica c’è un forte elemento di retrospettività. L’opera d’arte, anche se viene costruita oggi, ha dei meccanismi di eccettuazione dal corso del tempo e comincia a registrare il tempo. E poi c’è la critica d’arte che invecchia l’opera, che la classicizza. La Verità dell’opera d’arte è un modo di stare nella temporalità che non è strettamente quello del passare degli istanti.
Un’ultima domanda. In Non Essere Dio lei parla di libertà. E, precisamente, di una inedita libertà.
È una libertà filosofica, legata a quella ontologica Filosofia della libertà pareysoniana o piuttosto un suo sentimento personale?
La libertà per me è antiaggressiva. È la libertà dell’ontologia debole. Un’idea di riduzione dell’essere. Per me la libertà è, soprattutto, libertà da qualcosa, più che libertà di. Una libertà dai doveri, dalla schiavitù delle dipendenze che schiacciano l’umanità.
* Queste righe introduttive necessitano di un aggiornamento poiché risalgono al 2011 come l’intervista, originariamente pubblicata sul numero 31 dell’edizione bimestrale di Quaderni d’Altri Tempi. Si tenga conto per esempio che il progetto editoriale Meltemi è stato interrotto. Negli ultimi anni sono stati invece pubblicati da La nave di Teseo le raccolte Essere e dintorni nel 2018 e Scritti filosofici e politici nel 2021 (ndr).
- Gianni Vattimo, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1980.
- Gianni Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano, 1989.
- Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1989.
- Gianni Vattimo, Tecnica ed esistenza, Bruno Mondadori, Milano, 2006.
- Gianni Vattimo, Magnificat. Un’idea di montagna, CDA Vivalda Editore, Torino, 2010.
- Gianni Vattimo, Introduzione all’Estetica, ETS Edizioni, Pisa, 2010.