Una delle peculiarità dell’attuale momento storico da inquadrarsi in uno spazio geologico più ampio, meglio noto come Antropocene, con cui si suole connotare l’ingerenza umana ben oltre la soglia del lecito nell’equilibrio fisico, chimico e biologico dell’ambiente terrestre, è quella di rappresentare la realizzazione di gran parte degli incubi trasposti su un piano letterario dalla fantascienza sin dai suoi esordi.
Sostanzialmente molti degli accadimenti che ci è toccato in sorte di vivere sono la manifestazione del superamento di un limite: se in origine il genere fantascientifico distorceva il reale facendosi interprete delle paure collettive sottese ai mutamenti scientifici, tecnologici e, conseguentemente, sociali, esasperandone il dubbio, la fragilità legata alla porzione di imponderabile che si affacciava parallelamente alla potenza di dominio legata agli albori del tecnicismo, oggi esso è, in qualche modo, la verificazione del reale e pone all’attenzione generale una serie di questioni in merito al ruolo che è ancora in grado di ritagliarsi nella sfida che la letteratura dovrebbe porsi in merito alla creazione di un immaginario e alle sue inevitabili ricadute sul presente. È questo, probabilmente, il senso del saggio Raccontare la fine del mondo, Fantascienza e Antropocene, di Marco Malvestio, recentemente edito da Nottetempo. A ben guardare lo dice chiaramente l’autore stesso nell’introduzione:
“Raccontare la fine del mondo parla di questo: di come la fantascienza, nella sua declinazione distopica e post-apocalittica, sia in grado di immaginare un futuro possibile, e attraverso questo futuro di ripensare il presente”.
Ora è proprio il fatto che quest’ultimo coincida con l’Antropocene a generare una serie di problematiche che inducono a mettere in discussione la funzione della letteratura di fantascienza rispetto alla creazione di quello che ancora non c’è: in sostanza, rispetto al nostro potere immaginativo e alla sua efficacia retroattiva, nell’ottica della narrazione di ciò che accadrà, sull’attualità, su un presente in cui ricorrere alla categoria della crisi ambientale è estremamente riduttivo in relazione alla portata dei fenomeni a cui stiamo assistendo e in cui è, parallelamente, più facile focalizzarsi su un pensiero che accede alla visualizzazione del mondo e, più in generale, del reale mediante l’estremizzazione di un problema nella forma catastrofica.
Quella con cui abbiamo l’immediata percezione di un pericolo non necessariamente attuale, ma anche il rischio della paralisi, e dell’agire e dell’immaginare. Il racconto dell’Antropocene può scegliere due strade differenti: da un canto quella distopica, dall’altra quella offerta dagli scenari apocalittici. Mentre la prima, muovendo da un novum, cioè da una novità strana, da un elemento che si presenta destabilizzante, ma scientificamente plausibile, produce un distanziamento dal reale limitato all’opportunità di generare nel lettore lo spazio immaginativo in merito a come potrebbe essere la realtà, riportandolo al termine al suo presente con un pezzo in più, gli altri rompono la linea tra il passato e il presente attraverso la proposizione di un evento eccezionale dopo il quale tutto è rovina e non c’è spazio per residue forme di speranza.
Un intero capitolo del saggio di Malvestio è dedicato all’energia atomica non tanto in funzione della portata devastante della bomba, proporzionale alla quantità di radioattività liberata dalla medesima, dunque non tanto per ciò che concerne la gravità degli effetti sul nostro pianeta già ampiamente provato dall’agire umano, oltre che sul genere umano, quanto in relazione al fatto che essa sia l’emblema del potere dell’ingegno umano, in grado di generare e distruggere. Potremmo dire che l’era atomica rappresenti, in quest’ottica, la degenerazione estrema delle fondamenta dell’Antropocene. Scrive Malvestio:
“La scoperta dell’energia atomica e la costruzione di armamenti nucleari non sono tradizionalmente associate con l’Antropocene, eppure, come abbiamo visto, le tracce delle esplosioni nucleari rappresentano uno dei primi segnali della trasformazione della specie umana da forza biologica a geologica”.
Dal lato delle conseguenze sul piano dell’immaginario, l’ansia che la letteratura e la cinematografia finiscono per sviluppare non sono altro che la prefigurazione di una possibilità distruttiva estremamente concreta. La preoccupazione volta in questa direzione e a cui un certo filone fantascientifico sceglie di aderire è amplificata non solo dall’impossibilità per la collettività di assistere a un combattimento o a uno scontro fattuale a cui ricondurre il principio della fine, poiché il conflitto atomico reca con sé l’ambigua portata dell’invisibilità (che si estende agli effetti, dalla distruzione più evidente fino alla diversificazione di una sorta di avvelenamento globale), ma anche dalla scelta di declinare la narrazione nella dimensione dell’assenza, dai paesaggi urbani privi di gente allo svuotamento ideologico dei simboli della modernità.
Se da un canto, in certi romanzi si affaccia l’opportunità di una redenzione morale, nella ricerca di un punto di congiunzione tra scienza ed etica, in altri ci si concentra sul terrore per il rischio dell’incontrollabilità degli effetti dell’energia atomica, talvolta rimosso per una sorta di incapacità di contenimento della portata della tragedia, o sullo stupore per le possibilità ad essa legate. Appare evidente un’instabilità del pensiero che, muovendosi tra poli opposti, ha finito per produrre nell’immaginario collettivo una difficoltà abnorme nel collocare il ruolo degli scienziati rispetto alla politica e al bene generale. Si tratta, in fondo, di qualcosa che abbiamo recentemente visto, seppure in un’accezione differente, in merito alle svalutazioni dell’operato dei virologi: la novità destabilizzante, il novum, e l’iniziale incapacità di comprendere quello che stava accadendo a livello globale con la diffusione del covid-19 hanno generato uno scenario di instabilità di posizioni rispetto all’accadimento che ha finito per investire gli scienziati che, in prima linea, stavano avendo a che fare con qualcosa di difficilmente catalogabile nell’ordine naturale delle cose. Se rispetto all’energia atomica la diffidenza era generata dalla duplice natura dell’atomo, qui è la complessità del reale, unita alla fatica nell’attingere strumenti di comprensione adeguati da fonti attendibili, a produrre una sorta di spaesamento.
Non è stata la prima pandemia, quella da noi vissuta, a interessare il genere umano, ma la sua origine zoonotica, cioè la sua trasmissibilità dall’animale all’essere umano, l’ha resa un altro emblema dell’Antropocene, laddove l’uomo ne ha facilitato la diffusione e la rapidità nel processo attraverso gli sconvolgimenti ambientali.
Sul piano della letteratura di fantascienza, la trattazione del virus ha finito per involgere piani antropologici, portando talvolta a concepire il rischio di contaminazione quale fenomeno culturale e politico, prima ancora che sanitario, come se l’origine, spesso individuata in Paesi di estrema povertà e fatta coincidere con una sorta di inciviltà o “devianza da una giusta norma”, potesse tradursi in un ridimensionamento del cittadino occidentale che si trasformerebbe in un essere umano inferiore. In fondo, questo è anche un modo per deresponsabilizzare l’uomo e limitare fortemente la connotazione antropocenica della fase che stiamo vivendo.
Al di là di ciò, il virus quale elemento narrativo non si presta perfettamente alle griglie necessarie all’impostazione di uno schema narratologico tradizionale che vuole l’identificazione del momento esatto della sua origine o la possibilità di ricavare un andamento il più possibile determinabile della malattia che ne consegue o l’individuazione di momenti clou che spesso mancano, proliferando piuttosto delle logiche ripetitive. Non solo: la pandemia genera una coesistenza tra sani e malati esprimendo ai massimi livelli la precarietà della condizione umana e opponendosi alla possibilità di essere narrata in una forma post-apocalittica dove esistono nette demarcazioni, prima fra tutte quella tra morti e sopravvissuti. Ciò non significa che non possa essere raccontata. Lo si è fatto, ad esempio, puntando il dito sulla stoltezza della società che si abbarbica ai comportamenti della quotidianità, nonostante l’eccezionalità dell’evento ne determini la perdita di senso, o ricorrendo alla categoria degli zombie, quei non-morti o non-vivi che si legano all’Antropocene nell’istante stesso in cui la loro origine è rintracciata nell’esperienza (zombie significherebbe dio, spirito, feticcio nella lingua kikongo, parlata in Congo) del lavoro nelle piantagioni caraibiche degli schiavi neri.
Il fatto che certe realtà, come “fattorie, pascoli, foreste a gestione umana”, siano state trasformate in “piantagioni estrattive chiuse fondate sul lavoro schiavile” non è altro che l’imposizione di un modello culturale che prevede l’annientamento della biodiversità, l’abuso di sostanze nocive per l’ambiente, la creazione della figura dello “schiavo ideale” che, come un automa, realizza l’esclusivo interesse del padrone. Nel cinema più recente, predomina, più che l’accezione servile, la chiave interpretativa consumistica, oltre che l’idea che la condizione di zombie derivi da un contagio, con la conseguenza che la paura non è più quella di morire, ma di scivolare nella categoria dei non-vivi per effetto di un’epidemia. Rimane, nonostante tutto, l’idea che la figura richiami comunque quei migranti da cui partì tutto e che, nella trattazione delle vicende pandemiche, incarnano il rischio di contaminazione e l’illusorio convincimento di avere trovato l’origine del male.
L’argomento principe dell’Antropocene declinato in chiave letteraria è chiaramente il cambiamento climatico, per quanto esso rechi con sé la fatica di individuarne un potenziale immaginifico scevro da catastrofismi. La derivazione fantascientifica post-apocalittica finisce per essere il canale privilegiato della trattazione letteraria ambientale. Si impressiona fortemente, ma ci si discosta dalla fedeltà al dato di realtà e, parallelamente, si blocca il processo immaginifico in grado di generare quello che ancora non c’è e destinato a sostituirsi alla vecchia fantascienza i cui incubi sono stati spazzati via dalla loro realizzazione. Perché è complesso inserire il cambiamento climatico all’interno di una narrazione che non abbia le coordinate catastrofiste di cui si è appena detto? Perché, ci spiega Malvestio, “costringe a confrontarsi con l’agentività della natura”, traducibile in una sorta di influenza che essa esercita, e nella componente organica e in quella inorganica, sulla fenomenologia umana e non umana, in un intreccio estremamente complesso, ma unificato del vivente. E l’agentività non è facilmente rappresentabile se non ricorrendo a un processo di antropomorfizzazione o ad altre forme di approccio che rischiano, per comodità, di scadere nella banalità, nel tentativo di sottrarre all’invisibilità ciò che “deve” essere tangibile per potere essere funzionale alla fiction. Non solo. Non esistendo il cattivo a cui imputare la responsabilità dello stato delle cose né un buono, soggetto identificabile quale latore di salvezza, si riconosce una responsabilità diffusa che sfugge agli schemi tradizionali rendendo estremamente complicato il rispetto dei pattern narrativi conosciuti dalla tradizione.
Si troveranno espedienti per fuggire dal rigorismo schematico, ma nulla potrà raccontare il cambiamento climatico in sé. Poiché la scelta del genere in cui fare rientrare una narrazione determina ciò che saremo in grado di dire e la modalità in cui lo faremo, si è optato per la categoria del cambiamento climatico per una soluzione che intercetta la letteratura apocalittica, senza disdegnare la distopia, in una forma ibrida meglio nota come eco-distopia, la quale, concentrandosi su quei movimenti quotidiani, singoli e collettivi, personali e politici, che producono il disastro, non ha interesse all’esito finale quale portato inevitabile e improvviso del passato, ma offre lo spazio per un’alternativa, un margine di immaginazione per un futuro prossimo in cui la componente biografica dell’autore avanza a discapito della tragedia pubblica.
In concreto, è un equilibrio fragile in cui accade più di frequente che vengano colti i momenti clou, incluso quello del collasso, con buona pace di un tempo più lungo e, forse, più idoneo a rappresentare la realtà. Altro elemento che Malvestio considera è quello della rappresentazione delle piante, la cui problematica è aggravata dalla peculiarità che nessuno di noi di solito pare accorgersi che esistano. Esse sono “un enorme rimosso”. Dice l’autore:
“Questa plant blindness proviene dalla nostra tendenza di animali a guardare al mondo con uno sguardo zoocentrico, che privilegia forme di vita più riconoscibili ai nostri occhi e secondo i nostri paradigmi”.
Abbiamo finito per espellere dalla nostra esperienza conoscitiva del quotidiano l’universo vegetale, concentrandoci sulla maggiore differenziazione offerta dal mondo animale che siamo maggiormente in grado di vedere e riconoscere perché rimanda a noi in un rapporto di somiglianza più tangibile. Sul piano della fiction, ciò si è manifestato nell’idea, stando così le cose, di facile assimilazione delle peculiarità vegetali a una sorta di minaccia. D’altronde, è stato da più parti fatto notare come sia più naturale, dunque più giustificabile, ma non per questo necessariamente più giusto, compenetrarsi nel mondo animale a cui, a questo punto, anche nella logica dei movimenti di liberazione animale, dovremmo risparmiare tutto ciò che non vorremmo toccasse a noi. Parallelamente, si è andata affermando l’urgenza di una rivendicazione di diversità delle esigenze dei nostri simili che, pur nella loro somiglianza a noi, non sono esattamente come noi e possiamo solo illuderci invano di credere che il loro agire sia dettato dalle nostre stesse istanze. Ora, se è vero che l’approccio all’universo vegetale è viziato ab origine dalla incapacità di vedere le creature che lo compongono, quello relativo agli animali reca con sé l’evidenza che, nella gran parte dei casi, il nostro rapporto è sostanzialmente legato al nostro bisogno alimentare a tal punto che il nostro sguardo è quasi esclusivamente quello dei consumatori (“Gli animali sono soggetti a una ‘traiettoria di oggettificazione, frammentazione e consumo’.”).
Fatto sta che, laddove gli animali confluiscono nella narrazione letteraria, accade lo stesso fenomeno che si svolge per le piante, seppure nel rispetto della maggiore accostabilità all’umano, a meno che la questione non riguardi tutto quel mondo meno esplorato e invisibile che pure abbiamo costantemente sotto gli occhi – si legga al riguardo il recente Memorie dal sottobosco, insolito trattato sul Diaperis boleti in cui Tommaso Lisa esplora l’infinitamente piccolo trasponendo sul coleottero, pur nel rispetto dell’alterità, ciò che gli è funzionale alla lettura di sé e dell’ordine delle cose in un tempo sempre più veloce che macina ogni residua forma di umanità a tal punto da rendere necessario ricercarla altrove (cfr. Lisa, 2021) –: essi vengono raffigurati in un’accezione mostruosa, estremizzando certe loro caratteristiche, sebbene si preservi il loro essere espressione dell’agentività di cui si è detto, oltre che certi punti che li pongono in parallelo con la specie umana. Il risultato è una letteratura dentro la quale la visione profonda è molto più complessa del rischio di banalizzazione insito nell’idea di un confronto-conflitto tra natura e cultura, i cui più alti rappresentanti dovremmo essere noi.
Malvestio ci induce a riflettere sul fatto che la distopia ha perso la sua carica politica, così come il post-apocalittico, per quanto ampiamente diffuso, reca con sé il fascino del facile risucchio. In che direzione muoversi allora? Forse, una soltanto: abbandonare l’umano, ripensare al nostro modo di stare al mondo, ricongiungerci, in nome di quell’agentività di cui sopra, al resto del vivente. Non reputarci il fulcro di tutto e lasciare che la fine del mondo possa significare fine dell’umano senza che questo sia necessariamente un male. Contenere la visione catastrofista e lasciare agire un pensiero che congiunga la letteratura e lo spazio visionario conseguenziale a tutto ciò che non ci riguarda direttamente e che è foriero di un altro novum. Qualcosa che non c’è, che è fuori di noi intesi singolarmente e che ha il sapore del futuro della prossima fantascienza.
- Tommaso Lisa, Memorie dal sottobosco, Exorma edizioni, Roma, 2021.