Abdallah e Jehad, fondatori del Gaza Parkour Team, sono due acrobati tra le rovine di un tempo sospeso; corpi individuali, sociali e politici che praticano storie, esercitandosi nel desiderio di futuri possibili; movimenti incandescenti dentro una stasi a loro assegnata. In un “mondo senza evasione possibile”, scriveva Victor Serge nell’incipit di Memorie di un rivoluzionario, non resta “che battersi per un’evasione impossibile” (Serge, 2017). Il parkour è, per loro, la disciplina atletica di questa evasione: imparano a saltare abilmente da un punto all’altro, superando ostacoli con destrezza, improvvisando equilibrismi che uniscono le distanze, siano esse due diverse sponde delle macerie a Gaza o di mondi resi lontani dalle frontiere.
È soprattutto nell’esplorazione di questa doppia dimensione spaziale che il documentario di Emanuele Gerosa, One More Jump, trova la propria potenza rivelatrice, seguendo i salti di Abdallah, emigrato in Italia, e quelli di Jehad, rimasto nella striscia di Gaza, ma desideroso di partire. Non sono così frequenti le esplorazioni visive di quella che il sociologo Abdelmalek Sayad definiva la “doppia assenza” (Sayad, 2002) di chi è emigrato, suggerendo di guardare sempre alle migrazioni come a dei movimenti da un qui a un là, tra quei due punti che rendono possibile il salto, per attingere al lessico del parkour. A tal punto che il parkour stesso appare, in questa narrazione, quasi come una disciplina sportiva per imparare a praticare la migrazione, percepita e vissuta dai protagonisti come l’unica alternativa possibile alle forti costrizioni storiche, socio-economiche, politiche imposte alla loro vita. E non solo in Palestina, chiaramente. Abdallah vive in una casa abbandonata nella periferia di Firenze, cerca con fatica un lavoro per “vivere con dignità come tutti gli altri”; si allena alla stazione ferroviaria, giocoliere di spazi liminali tra treni in transito, veloce come una freccia che vibra verso l’uscita di un tunnel di cemento. Anche Jehad cerca un lavoro che non riesce a trovare nella striscia di Gaza e, con maestria, allena giovani e bambini al parkour e ai suoi valori: assenza di competizione, attenzione, rispetto, fiducia, modestia. Nell’ennesimo doloroso contrasto tra la fissità senza possibilità e il movimento della speranza, assiste il padre infermo per il quale cerca farmaci introvabili. La luce elettrica sfarfalla e poi si spegne sia dal barbiere dove Jehad si va a tagliare i capelli sia nel rudere dove vive Abdallah: si accendono delle piccole torce per vedere ancora, tutto è connesso a lunga distanza. La partenza di Abdallah ha lasciato interrogativi a Jehad e agli altri amici che la evocano con risentimento: è emigrato da solo, senza attenderli; loro sono rimasti a Gaza dove “puoi solo aspettare il visto” e affidarti alla forza di Dio che regge il destino. “Anche se rimanessi a Gaza per un milione di anni non potrei mai costruirmi un futuro”, dice qualcuno.
Nel tempo della sospensione si accende una memoria di corpi acrobatici tra esplosioni di bombe, mentre qualcuno dice: “Ragazzi andiamocene, ci stanno bombardando”. In una spiaggia, il vento muove ombrelloni sbrindellati. L’Europa è il luogo del silenzio al di là di un mare-confine che si guarda con occhi pensierosi: “Abdallah è partito e non sappiamo nulla di lui”. Gli amici si chiedono se abbia un lavoro fisso, se viva in un appartamento. Silenzio. Intanto lui, in Italia, invita un amico a pranzo in quella casa invisibile che, con gesti meticolosi, cerca di rendere vivibile, in attesa di partire per la Svezia per la sua occasione più grande, vincere un’importante competizione internazionale di parkour.
L’amico invitato al pranzo ingaggia un severo conflitto con le aspirazioni di Abdallah, mettendogli davanti agli occhi una presunta verità, forse quella che egli ricorda a sé stesso, quasi rimproverandolo di essere emigrato, di essere diventato uno ‘straniero alla seconda’: “Sei venuto in Europa e vivi in una casa abbandonata. Gaza ti offre maggiori possibilità di questo luogo”. “Il problema è essere uno straniero nella tua stessa terra. (…) E sei venuto qui per diventare uno straniero. Adesso sei un immigrato e uno straniero, quindi sei uno straniero ovunque ti trovi”. Lui replica, concentrato e fermo: “Io sono venuto qui con un obiettivo. Sono un atleta, ho un’ambizione e voglio realizzarla, costi quel che costi”.
Uno dei costi è essere solo con le proprie forze e dover dire al padre al telefono: “Sarebbe troppo lungo spiegarti com’è la vita qua”. Abdallah prepara il suo borsone e parte per la Svezia, lo vediamo entrare nella palestra dove giovani di tutto il mondo si stanno allenando in attesa della competizione di parkour. Non conosce nessuno, timido si fa largo tra di loro, accenna qualche salto, aspetta il suo turno. Jehad e i suoi allievi ci regalano pirotecnici salti con il cielo come sfondo mentre lui, finalmente, ottiene un visto per lasciare la striscia di Gaza.
Comunica la sua decisione di partire alla madre che, inizialmente, cerca di dissuaderlo, ricordandogli che è il figlio maggiore, quello designato a occuparsi della famiglia: “Vuoi abbandonarmi? (…) Non posso vivere senza di te”. Per poi accettare, in un doloroso pianto, di rendergli libera la scelta perché “magari la vita è meglio là fuori”, dicendogli infine: “Prego che Dio ti renda facile il cammino”. Portandoci dentro l’intimità di questi attimi, sottolineandone il climax con tracce sonore delicate, la presenza del regista resta invisibile, riesce a raggiungere quel livello di ascolto visivo che solo il tempo di una lunga ricerca e una profonda curiosità per la vita e per gli altri, possono dare. Generosi nel condividere la propria parabola, Abdallah e Jehad danno corpo a un canto della speranza, continuamente intralciato da quella violenza strutturale che li trascina in una lotta per la sopravvivenza. La vediamo rappresentata in tutta la sua asprezza, soprattutto nel finale. Nella loro resistenza sono diventati maestri come nel parkour e vorremmo continuare a seguirli per vedere, imparare un altro salto, ancora.
- Abdelmalek Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002.
- Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario, edizioni e/o, Roma, 2017.