La toccante vicenda dei musicisti sudafricani insediatisi a Londra nella seconda metà degli anni Sessanta, falcidiati nel pieno della loro vita creativa uno dopo l’altro, ha lasciato un po’ nell’ombra la sorte altrettanto maligna di un altro talento sbocciato in quegli anni e che proprio con i fratelli sudafricani visse non poche avventure musicali: Michael Evans Osborne, inglese, nato a Hereford, West Midlands, il 29 settembre 1941. Il sassofono contralto era il suo strumento, i dischi li firmava Mike Osborne, gli amici lo chiamavano “Ossie”.
Osborne è il Syd Barrett del jazz d’oltremanica. Suonerà per una quindicina d’anni, non mancando mai all’appello nelle sedute in studio e nei concerti che daranno luogo a un gran numero di opere chiave della nuova musica inglese di matrice jazzistica, ma poi si ritirerà fra le rovine della sua mente causate da un micidiale cocktail di schizofrenia, anfetamine, alcol e altre droghe, restando confinato nella casa dei suoi genitori per oltre un quarto di secolo, grossomodo come il signor Floyd. Le analogie non vanno oltre, perché il mito di Barrett sovrasta imponente il solo ricordo affettuoso che i vecchi amici di Osborne hanno conservato di lui e il valore che è riconosciuto alla sua musica. Quanto alla notorietà, i numeri non sono neanche minimamente confrontabili, ma fatto sta che nessuno dei due è più ritornato da quelle lande ignote. Osborne non ha inciso e pubblicato moltissimo a suo nome. Un tassello in più alla sua discografia viene aggiunto dalla Cuneiform Records, la casa discografica di Steve Feigenbaum che da anni ricostruisce con amorevole cura la variegata scena del brit-jazz, recuperando registrazioni inedite, tutte preziose, oltre a documentare sulla musica fuori dagli schemi dei nostri giorni.
Spesso il certosino lavoro di restauro ha visto all’opera Michael King, un canadese innamorato di quei suoni e di quelle vicende. Ogni appassionato di musica deve molto al lavoro di King, che per la Cuneiform ha curato dischi a nome dei Matching Mole, dei Soft Machine, di Gary Windo e per ultimo Dawn di Mike Osborne prima di togliersi la vita in un tragico giorno di marzo, quest’anno.
King aveva dato vita anche a una propria etichetta discografica, la Reel Recordings, chiusa lo scorso anno con un catalogo di venti titoli, tutti firmati dai suoi eroi. Aveva anche scritto una biografia di Robert Wyatt, Wrong Movements e sempre di Wyatt aveva appena ultimato la cura di un nastro perduto, testimonianza della serata del 14 aprile 1973 all’Upstairs Room di Ronnie Scott a Londra, che vedeva sul palco un quartetto comprendente oltre a Wyatt (batteria e voce), Dave McRae alle tastiere, Gary Windo al sassofono tenore e Richard Sinclair al basso elettrico. È l’ultima registrazione che riprende Wyatt alla batteria, prima della sua fatale caduta di lì a poche settimane, la sera dell’1 giugno. Si intitola One Night Stand e lo ha prodotto Philippe Renaud, un altro appassionato di questa mercanzia sonora, che ne ha stampato trecento copie in vinile per il suo magazine/sito Improjazz, anticipando la versione in cd che verrà prodotta da Gonzo Multimedia, per la quale proprio King aveva curato recentemente una serie di ben dieci dischi contenenti tutte registrazioni inedite di Hugh Hopper, storico membro dei Soft Machine. La consueta eleganza della misteriosa regia delle vicende umane compensa queste tristi cronache con della musica traboccante energia vitale, luminosa, infuocata, proprio come quella che era capace di creare Mike Osborne.
Il collage di Dawn (titolo efficace, come quello di un brano che vi è raccolto, perché davvero fotografa l’alba di una nuova musica) si compone – in base alla datazione – di tre blocchi, presentati in ordine inverso dal più recente al più lontano nel tempo che chiude il disco. Quest’ultima tranche, risalente al 1966, vede coinvolto un quartetto comprendente il contrabbassista sudafricano Harry Miller, il batterista Alan Jackson e un altro sassofonista, John Surman, oggi sicuramente il jazzista inglese di maggior prestigio internazionale. I due si conoscevano da un paio d’anni e Surman già allora alternava il sassofono soprano al baritono. Si erano incontrati per la prima volta quando Osborne si presentò a un’audizione per entrare nella band di Mike Westbrook. A quell’epoca per i giovani jazzisti inglesi la cosa più importante era suonare a qualsiasi prezzo e in qualsiasi luogo e unirsi in interminabili jam session. Osborne divenne subito il compagno ideale di queste maratone musicali.
“Al venerdì sera – ricorda Surman – cominciai a frequentare il Peanuts Club che era una sala sopra un pub in New Hall Street. Ci andavo in compagnia di Osborne insieme a Harry Miller e a Alan Jackson portandoci dietro gli spartiti di Mike Westbrook su cui dovevamo esercitarci. Io e Osborne diventammo grandi amici ed entrambi andavamo pazzi per le jam session. Non potevamo letteralmente farne a meno. Andammo perfino a provare in una cantina che si trovava sotto un negozio di strumenti musicali a Portobello Road. C’era una gran puzza di gas e credo che non fosse il massimo per la nostra salute, ma non ci importava molto. Sebbene ognuno vivesse per conto proprio, ci fu un periodo che ci vedevamo quasi ogni giorno e c’era sempre qualche posto dove andare a suonare, circa due o tre volte la settimana”
(Heining, 2012).
I ricordi di Surman datano grossomodo 1964. Lui e Westbrook sono arrivati a Londra due anni prima. In molti si incamminano dai quattro angoli del Regno verso la capitale. Qualcuno però arriva da più lontano, dal Sudafrica. Tra i primi musicisti a trovar casa a Londra c’è il contrabbassista Harry Miller che con Osborne condividerà vita e passioni musicali. Iniziano nel 1966, dunque, quando siamo nel punto di massima ascesa e di inizio del declino dell’era beat. Le classifiche sono dominate da gruppo come i Monkees, gli Herman Hermits, gli Small Faces, i Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick & Tich, gli Hollies e altri ancora, mentre escono album che prefigurano la maturità del rock, a iniziare da Revolver dei Fab Four, ma anche Pet Sounds dei Beach Boys, Fresh Cream, esordio dei Cream, Freak Out! di Frank Zappa. Mentre intorno è tutto un fiorire di coretti, riff a presa rapida e tempi pari, il quartetto citato da Surman fa apprendistato jazz. Viene colto nel suo fiorire negli ultimi quattro brani di Dawn, registrati il 9 giugno del 1966. Surman aveva già inciso un disco, anche se non a suo nome, Local Colour di Peter Lemer, considerato il primo album di free jazz inglese. Lo aveva pubblicato la Esp-Disk, etichetta cardine nella storia della New Thing statunitense. I quattro eseguono una composizione originale di Osborne, An Idea, e tre pescate dal repertorio della nuova musica jazz statunitense: Seven by Seven di Pharoah Sanders, And Now The Queen di Carla Bley e Aggression di Booker Little. Si noti che i primi due brani provenivano da album pubblicati proprio dalla Esp-Disk, ovvero dal primo disco di Sanders uscito due anni prima e da album firmati da Paul Bley poi marito di Carla: Barrage (1965) e Closer (1966). L’ultima composizione era nota invece solo per essere stata eseguita in concerto al Five Spot nel 1961 dallo sfolgorante quintetto di Eric Dolphy nel quale militava Booker Little.
Il quartetto ha passo sicuro, affronta lancia in resta il tema battagliero di Sanders e non si smarrisce nella trama astratta di Carla Bley e soprattutto in Aggression lascia intravvedere l’acrobatico interplay di cui saranno capaci i due sassofonisti negli anni successivi. Infine, An Idea mostra già la materia di cui saranno fatte le composizioni di Osborne, con ricami continui su temi ariosi in continua fibrillazione. Dell’intero Dawn, l’unico brano in realtà già noto è quello scritto da Osborne, perché pubblicato proprio da Mike King come ultimo atto della sua etichetta Reel Recordings. Il disco si chiama Trad Dads, Dirty Boppers and Free Fusioneers ed è una sorta di supporto sonoro alla lettura dell’omonima storia del jazz inglese scritta dal giornalista Duncan Heining, ripercorrendo grossomodo gli stessi anni narrati nel libro. Il quartetto costituiva i due terzi del sestetto di Westbrook che un paio di mesi dopo registrò un album tuttora inedito. Bisognerà aspettare ancora un anno per ritrovare il bandleader in studio con il doppio degli elementi, tanti sono i componenti della Concert Band, per registrare il primo disco a suo nome, Celebration (sempre con Osborne e Surman). Tra il 1966 e il 1970, Osborne viaggia come un treno soffiando energia in molte delle opere fondanti il jazz inglese. Spesso troverà al suo fianco Surman, oppure Skidmore, o entrambi, a iniziare dai successivi due album di Westbrook (Release e Marching Song) e nei primi dischi di Surman (l’eponimo e How Many Clouds Can You See), lavori a cui vanno aggiunte le sedute pubblicate decenni dopo dalla Cuneiform, Flashpoint: NDR Jazz Workshop—April ’69.
Una maratona che troverà nel trio S.O.S. (Skidmore/Osborne/Surman) un’instabile sintesi sulla linea di confine tra jazz ed elettronica, allora poco esplorata. In questo susseguirsi frenetico di incontri, di registrazioni in studio, di concerti, sempre nel 1970 Osborne firma il suo primo album da titolare, Outback, con una formazione che resterà un unicum nella sua discografia. In campo c’è un quintetto, in pratica l’inseparabile Miller e altri due musicisti sudafricani, il batterista Luis Moholo e il pianista Chris McGregor. Quinto elemento, il citato Beckett, trombettista proveniente dall’isola di Barbados. È qui che si cementa il sodalizio con l’intera comunità di musicisti sudafricani. A sua volta Harry Miller lo chiamerà ripetutamente al suo fianco negli Isipingo, formazione aperta ma che non si privava di Osborne. Date e titoli che si affastellano sì, ma che danno conto della incredibile stagione creativa che vide protagonisti questi musicisti, della fulminea maturità che raggiunsero in pochi anni sia sul piano della tecnica individuale, sia della autonomia e della originalità compositiva. Seguendo una propria strada, ma analogamente a quanto accadeva nel resto d’Europa, i jazzisti inglesi in un breve lasso di tempo smisero di essere dei buoni esecutori di standard.
Istruttive in tal senso le restanti sei registrazioni incluse in Dawn, risalenti al 1970 (tre datate agosto e le altre dicembre), che vedono all’opera la medesima sezione ritmica, un trio che, annota Andrey Henkin nelle note di copertina, registrerà insieme ben diciotto volte, circa un terzo dell’intera discografia di Osborne. Il trio registrerà due album ufficiali soltanto più tardi, entrambi per la Ogun che Miller aveva da poco allestito: Border Crossing (1974) e All Night Long (1975) documentando su vinile due incendiarie prove dal vivo, la prima a quel Peanuts Club che Osborne e Miller frequentavano come ricorda Surman da anni, la seconda al prestigioso festival di Willisau, con Osborne alle prese con una rilettura dai tempi acrobatici della monkiana Round Midnight, che riassume alla perfezione come furia creatrice e maestria strumentale fluissero insieme con assoluta naturalezza nelle esecuzioni di Osborne. Il trio era già collaudatissimo in queste sedute, ora riemerse, risalenti all’alba dei Settanta. In scaletta c’è una sola cover, Jack Rabbit di Herbie Hancock, tratto da Inventions and Dimensions del 1963, le altre cinque composizioni sono tutte firmate da Osborne. Apre le danze la gagliarda Scotch Pearl, postbop scoppiettante. Sarà ripresa su disco dopo un lustro nell’album All Night Long. Lavoro d’archetto e piatti sostengono l’avvio solenne di Dawn prima che lo swing prenda il sopravvento e successivamente si dia luogo alla frammentazione del tema e alla sua repentina ripresa. Partenza fulminea e reiterata per saltare in corsa sulla composizione di Hancock, accelerata e sistematicamente decostruita.
Nel secondo blocco di registrazioni, quelle di dicembre, la lingua di Osborne si è arricchita di frasi complesse, di lunghi periodi, di digressioni, di citazioni, il timbro è ancora più sferzante, spesso, fulminee, partono delle vere rasoiate. Il piglio rude del primo brano, TBC esprime alla perfezione il vigore di Osborne nel suonare. Del trittico ha particolare valore, anche storico, 1st, che finirà nell’unico disco del S.O.S. anni dopo. In questa prima stesura si esprime una forza drammatica anche superiore a quella della versione definitiva, con il tema che faticosamente riesce a essere pronunciato per intero. È il brano che da solo vale l’intero disco. Chiude un’arrembante TBD, dal tema spensierato e dal ricamo leggiadro. Negli anni a seguire il curriculum di Osborne si infittisce. Nel 1972 sarà nell’austera London Jazz Composers Orchestra di Barry Guy con la quale registrerà Ode, atto di nascita discografica dell’ensemble ed è ancora della partita quando la LJCO si esibisce al Donaueschingen Musiktage in Germania, con la composizione Statements III.
Al 1972 risale anche il primo emozionante incontro con il pianista Stan Tracey, il maggior esponente della generazione precedente dei jazzman inglesi, che con il tempo si guadagnerà l’affettuoso appellativo di nonno del jazz inglese. Musicista raffinato, sempre pronto a mettersi in gioco, come farà anche decenni dopo in spericolati duetti con il sassofonista Evan Parker, tra i pesi massimi della musica improvvisata e che sempre nei Seventies incrocerà anche Surman e Tippett dando vita a opere liriche e cerebrali al tempo stesso. Emozionanti ancor di più saranno proprio le conversazioni strumentali intrattenute con Osborne, prima in Original e dopo in Tandem registrato al festival di Bracknell alla fine del 1976. Il timbro sempre tagliente di Osborne qui risuona a tratti malinconico, l’effluvio sempre dirompente trova modo di soffermarsi su passaggi più drammatici, anche grazie alla sensibilità del suo interlocutore. I due offrono in quaranta minuti una esemplare storia del jazz in compendio. Ancora nel 1972, Osborne inciderà Shapes, rimasto inedito per oltre trent’anni. All’opera un sestetto piuttosto anomalo, somma di due trii, da un lato Skidmore e Surman, dall’altro Miller e Moholo, con l’aggiunta di un secondo contrabbassista, Earl Freeman. Lavoro di enorme spessore, a tratti furibondo, ma che non sfugge mai di mano anche nei momenti di improvvisazione al calor bianco, prossime ad analoghe performance del sassofonista tedesco Peter Brötzmann. A differenza di questi, però, il sestetto si muove dentro una architettura più solida e con una robusta vena epico/lirica. Ancora un altro trio (sempre con Miller e alla batteria Tony Levin) prende vita a metà decade, e sarà documentato solo in anni recenti (2012) dalla registrazione di un fluviale concerto tenuto a Birminghan nel 1976.
Ossie è però stanco, lascia il S.O.S. che chiude i battenti perché secondo i due sodali Osborne è insostituibile, fa ancora in tempo a scendere in campo con un quintetto inedito con l’inseparabile Miller. Registrano in studio Marcel’s Muse insieme al trombettista Marc Charig, noto anche a chi di jazz ne mastica poco per i suoi interventi nei crimsoniani Lizard e soprattutto Islands. Il chitarrista Jeff Green e il batterista Peter Nykyruj completavano la formazione. L’energia vitale sembra intatta, la musica che si ascolta è sfavillante, Osborne ancora una volta dimostra la sua insuperabile capacità di catturare, disfarsi e ricostruire temi, di affidarli ai suoi partner e poi ancora riafferrarli e farli viaggiare a tutta velocità e oltre al solito Miller anche Charig repentino ribatte colpo su colpo. La gioiosa partenza all’unisono del quintetto in Where’s Freddy non lascia certo presagire che presto la luce si spegnerà.
Le ultime gesta di Osborne le ritrova e le documenta proprio King, che pesca chissà dove e pubblica con la sua Reel Recordings, Force of Nature, cucendo insieme due esibizioni, la prima a Colonia nel 1981 e l’altra a Londra l’anno successivo. Partito con un quartetto, Ossie chiude con due quartetti. Quello all’opera in Germania nella performance del brano Ducking & Giving (oltre quaranta minuti senza sosta) schiera Dave Holdsworth alla tromba, con il quale si frequentava sin dai tempi del primo disco di Westbrook e che aveva a più riprese incrociato, fino ad averlo come partner in pianta stabile dal 1979. A completare la formazione c’erano Marcio Mattos al contrabbasso e Brian Abrahams alla batteria. Quello londinese vede all’opera un’altra sezione ritmica, proponendo Paul Bridge al posto di Mattos e Tony Marsh in sostituzione di Abrahams. È un vecchio cavallo di battaglia a chiudere la partita, All Night Long, arrembante sin dalle prime battute, arzigogolato e impervio il tema è uno dei trampolini di lancio favoriti da Osborne per i suoi emozionanti assoli. È sempre l’urgenza di dire tutto ora che segna la sua musica, perché il sentore della fine probabilmente lo ha sempre accompagnato. Fine che arriva di lì a poco, Ossie se ne torna alla natia Hereford. Nel 1983 se ne andrà il suo compagno di tante avventure all night long, Harry Miller. Un tumore ai polmoni spegne definitivamente Ossie nel 2007, ma non la sua musica, rutilante come un’alba fiammeggiante.
- Autori vari, Trad Dads, Dirty Boppers and Free Fusioneers. British Jazz, 1960-1975, Reel Recordings, 2012.
- Mike Cooper, Trout Steel, Paradise of Bachelors, 2014.
- Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Fledg’ling, 2007.
- Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Brotherhood, Fledg’ling, 2007.
- Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Live At Willisau, Ogun, 1994.
- Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Eclipse At Dawn, Cuneiform Records, 2008.
- Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Bremen To Bridgwater, Cuneiform Records, 2004.
- Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Travelling Somewhere, Cuneiform Records, 2001.
- Harry Miller, Different Times, Different Places, Ogun 2013.
- Harry Miller’Isipingo, Family Affair, in The Collection, Ogun, 1999.
- Harry Miller’Isipingo, Which Way Now, Cuneiform, 2006.
- Harry Miller’Isipingo, Full Steam Ahead, Reel Recordings, 2009.
- London Jazz Composers Orchestra, Ode, Intakt, 1996.
- London Jazz Composers Orchestra, Statements III (Fragment) in That Time, NotTwo Records, 2020.
- Mike Osborne, Outback, FMR, 1994.
- Mike Osborne, Shapes, FMR, 1995.
- Mike Osborne Trio, All Night Long, Ogun, 2008.
- Mike Osborne Trio, The Birmingham Jazz Concert, Cadillac, 2012.
- Mike Osborne Trio & Quintet, Border Crossing + Marcel’s Muse, Ogun, 2004.
- Mike Osborne, Forces of Nature, Reel Recordings, 2008.
- Mike Osborne & Stan Tracey, Original, Cadillac, 1973.
- Mike Osborne & Stan Tracey, Tandem, Ogun, 1976.
- Alan Skidmore Quintet, Once Upon A Time, Vocalion, 2005.
- Alan Skidmore Quintet, TCB, Vocalion, 2011.
- S.O.S., S.O.S., Ogun, 2006.
- S.O.S., Looking For The Next One, Cuneiform, 2013.
- John Surman, John Surman, Vocalion, 2005.
- John Surman, How Many Clouds Can You See, Vocalion, 2006.
- John Surman, Flashpoint: NDR Jazz Workshop—April ’69, Cuneiform, 2011.
- John Warren/John Surman, Tales of Algonquin, Vocalion, 2005.
- Mike Westbrook Concert Band, Release, Deram, 1998.
- Mike Westbrook Concert Band, Celebration, Universal, 2008.
- Mike Westbrook Concert Band, Marching song, Vol. 1.& 2, Righteous, 2009.
- Duncan Heining, Trad Dads, Dirty Boppers and Free Fusioneers. British Jazz, 1960-1975, Equinoc Publishing, 2012.