“La montagna è un’esperienza di concretezza che ti porta dentro a una dimensione spirituale, gli esseri umani lo sanno dalla notte dei tempi” (Zovi, 2024)
Sulle Alpi si è scritto e si scrive molto, soprattutto da quando sono diventate mete sempre più frequentate delle esplorazioni degli umani. Se per millenni, infatti, le società umane hanno temuto le cime, riservandole a pochi eletti e avvolgendole in racconti mitici o in descrizioni di elementi lontani, si pensi a Ovidio ma anche a Virgilio e Dante, almeno a partire dalla fine del Settecento, con la nascita dell’alpinismo, i racconti si sono fatti sempre più frequenti e articolati. Nel 1834 il libro Impressions de voyages di Alexandre Dumas, che raccontava la storia della prima scalata del Monte Bianco a opera di Jacques Balmat e Michel-Gabriel Paccard, ebbe un enorme successo di pubblico. Il racconto scritto da Dumas, che ebbe modo di conoscere e intervistare Balmat, fa leva sull’eccezionalità del gesto, sull’emotività del lettore che legge il racconto di quell’esperienza descritta in termini iperbolici da un Balmat che si prese volentieri tutti i meriti. Quella spedizione, avvenuta l’8 agosto 1786 fu voluta dal geologo e fisico ginevrino Horace-Bénédict de Saussure, nonno del celebre linguista, che voleva studiare da vicino la montagna che gli abitanti del luogo avevano a lungo chiamato “Montagne Maudite”, nome riportato nell’Atlante di Mercatore del 1595 e che ancora oggi indica una cima del complesso del Bianco. Lo stesso Saussure, l’anno successivo all’ascesa di Balmat e Paccard, compì la sua scalata raccontata poi in Voyage dans les Alpes, pubblicato in due volumi nel 1780. Questi due primi esempi di racconto ravvicinato della scalata della montagna più alta del continente rispecchiano due modalità che spesso ancora oggi si trascinano nel pensiero comune relativo al paesaggio in generale e anche al paesaggio alpino. Da un lato la logica dell’eccezionalità del gesto e del paesaggio stesso, visti in un’ottica estetica e oculocentrica, dall’altro la visione scientifica dello studioso che osserva l’oggetto studiato “dal di fuori”, con spirito oggettivo.
Dolomiti. Foto di Markos Mant su Unsplash.
Entrambe queste pratiche, da sole, sono una sorta di riduzionismo poco utile e poco interessante che livella la ricchissima complessità che caratterizza invece ogni paesaggio – che è sempre un’interrelazione di elementi – e anche quello alpino. Un riduzionismo che il libro di Daniele Zovi Sulle Alpi. Un viaggio sentimentale (con illustrazioni di Piero Macola) pubblicato recentemente da Raffaello Cortina Editore, cerca di evitare, a dispetto di un sottotitolo e di una copertina a effetto tessuto con acquerello che potevano dare adito a facili equivoci. Zovi, ex guardia forestale nel Veneto, già autore di diverse pubblicazioni di nature writing e vincitore del Green Book 2024 con il libro per bambini I racconti dell’inverno (DeAgostini), chiarisce fin da subito che lui uno scalatore non lo è mai stato, non di quelli che “conquistano le vette”, ma è piuttosto un camminatore e un alpinista, qualcuno che parte da solo o in compagnia e attraversa valli, sentieri e, qualche volta, cime della catena montuosa di quell’arco alpino situato nel cuore del continente europeo. E i suoi attraversamenti sono di lungo corso, il libro racchiude infatti cinquant’anni di escursioni e camminate tra le Alpi da ovest a est, in una serie di racconti che, cuciti insieme, riescono ad abbozzare una visione d’insieme del paesaggio alpino senza ridurlo a immagine stereotipata. Scrive Zovi, il quale spesso nel corso della narrazione ritorna anche sulle proprie passate ingenuità:
“Ho cominciato ad andare sulle Alpi cinquant’anni fa. Ero giovane e volevo vedere con i miei occhi. Tutto concentrato sull’organizzazione, trattavo le emozioni con rudezza, parlavo poco, i miei modelli erano Casarotto e Bonatti. Camminare in montagna è un sapere che si costruisce un po’ alla volta, leggendo le carte e leggendo i sentieri, perdendosi e ritrovandosi, interpretando i rumori, sbagliando scarponi e compagni di viaggio, inventandosi un modo e imparando dagli altri”.
La lentezza di questo sapere e la sapienza acquisita in decenni di esperienza sul campo è restituita al lettore attraverso una costruzione del racconto che mescola agevolmente narrazione in prima persona, disamina scientifica, brani tratti dai diari di viaggio dell’autore, interviste e analisi critiche ad alcune pratiche del presente e del futuro. È questa costruzione che permette al libro di restare in equilibrio e muoversi tra una dimensione appunto sentimentale, come recita il sottotitolo e la lucidità di un osservatore attento e mosso da intenzioni che travalicano l’orizzonte del presente e dello sport alpinistico:
“Il mio viaggio attraverso le Alpi mi ha convinto che la cultura della montagna non deve andar persa, perché nessuna cultura dovrebbe avere questo destino. Lo spopolamento dovrebbe essere impedito perché le Alpi costituiscono un serbatoio di storie, di simboli e di forza. La gente di montagna ama la difficoltà e la capacità di vivere nella difficoltà va raccontata e può diventare, nel racconto, patrimonio comune in grado di rafforzare la vita di ognuno di noi. […] Scrivere di cammino è augurarsi che ciascuno di noi scelga di spostarsi nel modo più semplice e pulito possibile, lasciando solo segni leggeri, perché tutto ciò che sporca e stravolge la natura sporca e stravolge anche la nostra esistenza”.
Il viaggio di Zovi, dedicato agli “avi montanari”, si apre con un prologo che ci racconta il viaggio di una bambina in gita scolastica a Bocchetta di Altare, al confine occidentale tra Alpi e Appennini. La bambina, ascoltando le parole della maestra che spiega questo confine delineato dalle frecce che indicano appunto da una parte le Alpi e dalla parte opposta gli Appennini, osserva gli alberi ed esaminando le loro foglie ritrova da ambo le parti dei castagni. Alpi e Appennini iniziano in un castagneto nel quale la frontiera fisica stabilita dalla cartografia umana sfuma nel mescolarsi della vegetazione che travalica sempre, specialmente negli ecotoni, ambienti di transizione tra due ecosistemi, linee e divisioni prestabilite. Ed è questa la via seguita da Zovi per inoltrarsi nelle Alpi Marittime, la via dei confini che sfumano per far emergere le connessioni che intercorrono tra gli elementi naturali, umani e non umani, vegetali e minerali, climatici e geologici.
Il racconto inizia da una scuola elementare, con quella filastrocca che tutti i bambini recitano per ricordare i nomi delle Alpi: “Ma con gran pena le reca giù”. Marittime, Cozie, Graie, Pennine, Lepontine, Retiche, Carniche, Giulie. Ma i nomi, come ha agevolmente notato la bambina osservando gli alberi, non sempre ci dicono poi molto, certo, ci servono da qualche secolo per classificare, per parlare il linguaggio della scienza, quello che, andando oltre la filastrocca, oggi ha suddiviso il sistema alpino in una toponomastica chiamata SOIUSA, come ci ricorda l’autore, la “Suddivisione orografica internazionale unificata del sistema alpino”. È la stessa questione, quella del cortocircuito che provoca il nominalismo scientifico sull’immaginazione e la visione popolare, posta dal poeta brasiliano Manoel de Barros in una poesia del suo O livro des ignorãnças:
“O rio que fazia uma volta atrás de nossa casa era a imagem de um vidro mole que fazia uma volta atrás de casa.
Passou um homem depois e disse: Essa volta que o rio faz por trás de sua casa se chama enseada.
Não era mais a imagem de uma cobra de vidro que fazia uma volta atrás de casa.
Era uma enseada.
Acho que o nome empobreceu a imagem”
(de Barros, 2016)*.
Nelle Marittime, Zovi, dopo aver situato la geografia in termini scolastici e scientifici, nei pressi di Spotorno, si mette sulle tracce dei licheni poetici di Camillo Sbarbaro, altro autore che ha fatto della classificazione e della raccolta dei licheni una dichiarazione di poetica. I licheni sono organismi simbionti, derivanti dall’associazione di due individui: un’alga e un fungo e ben rappresento quella connessione tra elementi che, attraverso un mutuo aiuto, divengono specie resistenti e adatte a qualsiasi ambiente. Lasciata Spotorno l’autore si incammina verso la salita del monte Saccarello percorrendo la Valle Argentina fino a Verdeggia e qui l’individuo che entra in scena è il lupo, “Ligabue, il primo lupo in Italia ad essere munito di radiocollare e quindi seguito nei suoi spostamenti”. Attraverso la storia di Ligabue, Zovi ci racconta, dopo “secoli e secoli di una guerra di sterminio” del ritorno del lupo nelle Alpi e negli Appennini e del lavoro di ricerca svolto dal Centro Uomini e Lupi di Entracque.
Lasciate le Marittime arrivano le Cozie con i pini cembri del Piemonte e le torbiere del Monviso, zone umide di lentissima formazione che sono fondamentali per regolare l’ecosistema. È qui che nasce il grande fiume e il Monviso è altresì una delle montagne più nominate della letteratura, a partire da Dante e Virgilio. Sempre di queste montagne è uno dei primi racconti alpini, quello di Tito Livio sulla conquista romana della Alpi. I romani, preceduti dai Celti, decisero per una conquista permanente e per fare delle Alpi un luogo strategico di passaggio per conquistare la Gallia. A partire da quel momento nelle valli alpine non si farà che aprire valichi.
“La storia dell’uomo è legata allo sviluppo dei commerci e degli scambi, che necessitano di vie di comunicazione. Le Alpi si presentano oggettivamente come ostacoli da superare, ma la percezione delle barriere si è molto modificata nel corso dei secoli”.
Sulle Graie, ci accompagnano gli stambecchi di Ildegarda di Bingen descritti nel Libro delle creature. Differenze sottili delle nature diverse e un giovane Mario Rigoni Stern che sul ghiacciaio della Tribolazione, sul Gran Paradiso, fece un corso di “aspirante specializzato sciatore rocciatore”. Sul Monte Bianco invece, l’autore ci accompagna, peccando, come ammetterà lui stesso, in funivia. Un’opera che egli definisce “spettacolare” scivolando fin troppo facilmente in quell’idea di paesaggio come spettacolo, come evento unico e extra-ordinario, in questo caso reso possibile dalla tecnologia degli umani. I cammini proseguono attraversando il Cervino e il Monte Rosa, la Val Grande fino alle Alpi Retiche, dove incontriamo gli orsi del Trentino, sui quali Zovi si sofferma per rilevare che
“mentre scrivo, in Trentino alcuni politici stanno proponendo il dimezzamento dell’attuale popolazione costituita da un centinaio di esemplari, chiedono cioè di ammazzarne una cinquantina. In queste proposte si scorgono echi di epoche lontane, medievali, posture padronali che considerano il pianeta e tutto ciò che in esso vive proprietà esclusiva dell’uomo, oggetti su cui esercitare il diritto di vita e di morte”.
Si potrebbe obbiettare che da parecchi secoli l’uomo esercita questo diritto e che non occorre andare lontano per ritrovare un simile atteggiamento. Ai piedi del Mangarat, nelle Alpi Giulie, Zovi incontra Nives Meroi, alpinista di fama mondiale che racconta la storia delle sue scalate, una storia non di conquista, come lei stessa sottolinea, ma di bellezza, bellezza intesa come “sentire che sono parte di quello che mi circonda”. Il sentire di cui parla Meroi è, in realtà, molto più di un sentimento, quanto il funzionamento reale che muove i meccanismi che regolano la natura e le comunità umane. Solo che, nella maggior parte dei casi, come fa notare Paul Krafel, autore di Sillabario della natura
“i nostri presupposti sulla natura sono basati su ciò che vediamo intorno a noi; ma spesso ciò che vediamo, soprattutto dalle città che hanno dominato la nostra cultura per migliaia di anni, è la conseguenza della nostra presenza nel mondo, che può generare falsi, quanto radicati, presupposti sulla natura”
(Krafen, 2004).
Per imparare a (ri)conoscere questi legami occorre (re)imparare a leggere i segni della terra, e libri come quello di Daniele Zovi possono essere un valido strumento per iniziare questo apprendimento, in quanto testimonianza diretta di azioni concrete, scoperte sul campo, esperienze. È solo con l’esperienza che si realizza quella che l’antropologo Tim Ingold chiama “comprensione della pratica”, e il paesaggio, spazio di interrelazioni, è il luogo prediletto alla realizzazione di questa comprensione.
*“Il fiume che faceva una curva dietro la nostra casa era l’immagine di un vetro molle che faceva una curva dietro casa.
Passò poi un uomo e disse: questa curva che il fiume fa dietro casa tua si chiama insenatura.
Non c’era più l’immagine del serpente di vetro che faceva una curva dietro la casa.
Era un’insenatura.
Penso che il nome abbia impoverito l’immagine”.
(traduzione di Costanza Aliverti Piuri).
- Manoel de Barros, O livro das ignorãças, Rio de Janeiro, Alfaguara, 2016.
- Alexandre Dumas, La Speronara. Impressioni di viaggio, Giannini Editore, Napoli, 2004.
- Ildegarda di Bingen, Libro delle creature. Differenze sottili delle nature diverse, Carocci, Roma, 2011.
- Tim Ingold, The Perception of the Environment Essays on Livelihood, Dwelling and Skill, Londra-New York, 2000.
- Paul Krafel, Sillabario della natura. Imparare a leggere i messaggi della terra, Blu Edizioni, Torino, 2004.
- Mario Rigoni Stern, Storie dall’Altipiano, Milano, Mondadori, 2003.
- Horace-Bénédict de Saussure, Voyages dans les Alpes, Neuchâtel, Samuel Fauche, 1780.
- Alberto L. Siani, Introduzione al paesaggio, Il Mulino, Bologna, 2024.
- Massimo D’Anolfi, Martina Parenti, Bestiari, Erbari, Lapidari, Italia-Svizzera, 2024.
- Giuseppe Petruzzellis, La ricerca, Italia-USA, 2023.