Rinviato a tempi migliori (al momento la data è aprile 2021), l’ultimo episodio della saga Bond, No Time To Die, affidato alla regia di Cary Fukunaga, ha in serbo una rivoluzione copernicana per l’agente segreto più famoso del mondo: il cambio di genere di 007 da uomo a donna e per giunta di colore. Prima o poi doveva succedere. Accade che Bond (Daniel Craig), stanco della vita assai movimentata degli ultimi cinquant’anni, decide di ritirarsi per godersi la meritata tranquillità. Inevitabile il cambio della guardia, meno scontato che lasci a una simile collega il compito di proseguire nella lotta ai malvagi, che continuano a spuntare come funghi ai quattro angoli del pianeta. Lo ha rivelato in un’intervista ad Harper’s Bazaar Lashana Lynch, l’attrice che vestirà i panni dell’erede.
Evitando considerazioni sulla mossa di marketing operata nel segno di un generico politicamente corretto (percorso avviato con i sette film che vedono Judi Dench nei panni di M), e del parallelo fiorire di eroine dal cinema alle serie e a fumetti, l’entrata in scena di Lashana Lynch va sottolineata in quanto, involontariamente, chiude un cerchio, avvolgendo in un’unica trama immaginario e storia, portando sullo schermo una figura femminile nei panni della spia indomita.
Impensabile ai tempi in cui è nato e si è affermato il mito di Bond e ancor di più ai tempi in cui visse una donna che fu un vero agente segreto, una donna coraggiosa e audace ai limiti dell’incoscienza, affascinante seduttrice, intelligente, colta, in grado di parlare diverse lingue, fuori orario rispetto all’epoca in cui visse: Krystyna Skarbek, in arte (dello spionaggio) Christine Granville.
È la sua storia quella che racconta con dovizia e abbondanza di particolari l’inglese Clare Mulley in La spia che amava, al termine di una non semplice ricerca e consultazione di archivi e documenti originali, integrata con interviste a ex colleghi, amici e amanti, riportando scrupolosamente ogni fonte. Una minuziosa ricostruzione semplice a dirsi ma non a farsi, dal momento che una vera spia non lascia tracce dietro di sé. Nel suo caso, le poche rinvenibili sono spesso contraddittorie, proprio perché il ruolo la induceva a mescolare le carte, le versioni, le informazioni, insomma a raccontare anche frottole, in un continuo scivolamento della realtà nella finzione e viceversa. In La mia ricerca su Christine Granville: una nota sulle fonti, posta in chiusura, l’autrice rende chiaro il grado di difficoltà dell’impresa:
“Documentarsi sulla vita di un’agente segreto comporta delle ovvie difficoltà. Christine stessa conservò pochi documenti; ho trovato solo undici lettere scritte di suo pugno, e una di queste era soltanto un appunto scarabocchiato sulla carta quadrettata usata per codificare i messaggi radio. Molti documenti, ufficiali e non, che la riguardavano sono stati distrutti per caso o di proposito, mentre altri rimangono segreti. Quelli disponibili sono spesso contraddittori”.
Ciononostante, Clare Mulley, scrittrice, biografa e opinionista della BBC, del Guardian e del Telegraph, disegna un ritratto (in)credibile, narrando le vicende di una donna la cui identità si celò sin dalla nascita. Un segno del destino, probabilmente. Maria Krystyna Janina Skarbek nacque a Varsavia, di venerdì, il primo maggio 1908, in quella porzione della Polonia attuale che all’epoca era parte dell’Impero Russo mentre il territorio restante allora apparteneva alla Prussia e all’impero Austro-Ungarico. Altre fonti, dicerie romantiche sorte da quelle parti, raccontano che in realtà nacque una sera di primavera del 1915 “e che la sua nascita coincise con la comparsa in cielo di Venere, il primo corpo celeste della sera. Per questo fu soprannominata «Vespera»”.
La neonata aveva un’aria fragile e i genitori (il conte Jerzy Skarbek, un Casanova amante del gioco d’azzardo, e Stefania Goldfeder, figlia di un ricco finanziere ebreo) la battezzarono in fretta e furia, salvo poi ripetere il rito in forma più adeguata a Beczkowice nel 1913. Cosicché, ad appena cinque anni, la futura eroina della Seconda Guerra Mondiale si ritrovò con tre date di nascita e due certificati di battesimo! Era già nata una spia… Ci impiegò poco Krystyna Skarbek a diventare Christine Granville, la prima spia donna al servizio di Sua Maestà britannica, arruolata da Winston Churchill e che sedusse con le sue gesta Ian Fleming, e qui si torna a James Bond.
Nella prima avventura su carta del suo specialissimo agente raccontata in Casino Royale (1953, l’anno dopo la morte di Christine), Fleming gli affianca la prima Bond-girl, che guarda caso si chiama Vesper-Lynd, ed era “molto bella… davvero molto bella” (Fleming, 2012). Quando era Krystyna Skarbek partecipò al concorso per Miss Polonia con ottimo piazzamento. Aveva capelli neri, un “taglio squadrato e corto sulla nuca, che le incorniciava il viso fino a sotto la linea chiara e bella della mandibola… la sua pelle era leggermente abbronzata e non aveva alcuna traccia di trucco, se non sulla bocca… al quarto dito della mano destra portava un grosso anello di topazio” (ibidem). Si osservino le foto di Christine Granville (il volume ne riproduce diverse). Mulley esclude che si siano mai incontrati, conferma invece che lo scrittore fosse a conoscenza delle sue eroiche imprese.
Tutto in questa biografia, ovvero nella vita di Christine Granville o come la si voglia chiamare, sembra una storia di spionaggio alla pari di quelle scritte da Fleming, a iniziare dalle location internazionali, marchi di fabbrica dei film bondiani: lei è a Varsavia, a Berlino a Londra, al Cairo, è nel Sinai, nei Balcani, in Francia, viaggia in condizioni impossibili, improbabili, sprezzante del pericolo, del dolore, della morte e affronta nemici spietati, crudeli, ossessionati dalla folle intenzione di dominare (e distruggere il mondo): i nazisti. Si oppone con ogni mezzo, sprezzante del pericolo.
Si chiama Jacqueline Armand, nome in codice “Pauline”, quando viene paracadutata in Francia “munita di un casco protettivo rivestito di gomma, un revolver carico, un pugnale d’assalto affilato come un rasoio, una torcia e una compressa tonda, marrone, di cianuro, rivestita di gomma, cucita nell’orlo della gonna”. Nessun timore, si lancia e si avventura in territorio nemico.
Quando nel 1941 la Gestapo la ferma a Budapest per sottoporla a interrogatorio assieme al suo amante e compagno d’avventure, Andrzej Kowerski, Christine
“si morse la lingua così forte e ripetutamente che ben presto sembrò tossire sangue. Fu una tattica dolorosa ma brillante, e portò risultati immediati. I tedeschi erano, giustamente, terrorizzati dalla tubercolosi, che si diffondeva rapidamente attraverso le goccioline espulse nell’aria durante l’atto di tossire, starnutire o anche solo parlare. Un medico della prigione fu rapidamente chiamato per diagnosticare le condizioni di Christine […] le fece fare una radiografia al torace. Christine non avrebbe potuto sperare in un risultato migliore. Le macchie erano chiaramente visibili su tutti i polmoni: era l’impatto dei fumi che aveva respirato quindici anni prima durante il suo lavoro alla concessionaria Fiat. Il dottore “confermò” la diagnosi di tubercolosi e sollecitò il suo rilascio immediato per motivi di salute. Il sangue freddo di Christine diede i suoi frutti. Dopo un breve consulto, lei e Andrzej, che si pensava potesse essere stato contagiato, furono rilasciati – ma a certe condizioni”.
Da lì una rocambolesca fuga. Lei è nascosta nel bagagliaio della Chrysler appartenente al console britannico, seguita da Kowerski a bordo della sua Opel. Passano il confine sotto falso nome ed è allora che nasce Christine Granville, di sette anni più giovane di Krystyna Skarbek, perché lei ricicla la data del 1915. Proseguiranno verso Belgrado, poi Sofia, dove consegneranno all’ambasciata britannica il microfilm comprovante i preparativi per l’invasione dell’Unione sovietica (l’operazione Barbarossa), fanno tappa a Istanbul, a Beirut e dalla Palestina al Cairo.
Quello con Kowerski fu il suo legame più duraturo, ma non certo l’unico, perché, oltre a due mariti, di amanti ne ebbe in gran numero. La seduzione, come per Bond è un’ulteriore arma. Scrive Mulley:
“Christine fu una moglie, due volte, e avrebbe potuto esserlo di nuovo, e fu un’amante molte più volte, ma non fu mai definita dalla sua relazione con un uomo. Christine amava in maniera appassionata. Amava gli uomini e il sesso, l’adrenalina e l’avventura, la sua famiglia e il suo Paese; amava la vita e la libertà di poterla vivere appieno. Quando questa libertà le era stata negata, dalla legge o dalle convenzioni, aveva sfidato le aspettative, infrangendo le regole o semplicemente cambiando la sua fede, la sua età, il suo nome o la sua storia. […] La libertà fu la passione di Christine: in amore, in politica e nella vita nella sua accezione più ampia”.
Fuori orario e già molto prima di dedicarsi alla lotta contro il nazismo. Prima della guerra frequentava bar, cinema, locali, da sola beninteso, senza l’accompagnatore maschile d’obbligo all’epoca. Personalità magnetica, se la ricorda anche Witold Gombrowicz, “assiduo frequentare dei suoi stessi ambienti”, che la segnala nei ricordi raccolti in Una giovinezza in Polonia. I destini che si biforcano. Anche il grande scrittore polacco non si trovava in patria quell’uno di settembre del 1939, quando la Polonia venne invasa. Era in Argentina, così come Krystyna in Egitto con il secondo marito, Jerzy Mikolaj Ordon Gizycki. Lui restò a Buenos Aires oltre ventitré anni e la guerra resterà solo sullo sfondo della vicenda narrata in Pornografia, lei si recò a Londra sul finire dell’anno e si mise al servizio del Regno Unito per sconfiggere il nemico comune. Entrò a far parte dei servizi segreti britannici.
Aveva contro i nazisti, ma non solo: era una donna, era mezza ebrea e mezza polacca, un’autentica outsider. Non se ne curò, si impose. È il 1940. Nasce il SOE, lo Special Operations Executive, un’organizzazione di sabotaggio istituita da Churchill. Viene arruolata ed entra subito in azione. È allora che conosce Andrzej Kowerski, il Granville-boy per eccellenza, potremmo dire rovesciando il concetto di Bond-girl. Dopo averla fatta franca con la Gestapo, attraversato l’Ungheria, i Balcani e la Turchia, giungendo fino al Cairo, torna in Europa. Ora è sul confine franco-italiano, sulle Alpi che attraversa ripetutamente.
“Christine partì per il suo viaggio sulle Alpi italiane vestita con sandali alla contadina, una camicia a maniche corte, una gonna a tinta unita, una maglia legata intorno alla vita e un fazzoletto che le teneva raccolti i folti capelli scuri. Sulla schiena portava uno zaino pieno di pane, formaggio e bombe a mano”.
Scruta i movimenti delle truppe tedesche, cerca di fare da collegamento tra resistenza francese e partigiani italiani. L’impresa riesce. In seguito, raggiunge il forte sul Col-de-Larche, posto a duemila metri di altezza sulle Alpi. Lì c’è un gruppo di polacchi reclutati a forza dai nazisti. Li convince a disertare, a sabotare le installazioni tedesche e passare alla resistenza, consegnando armi e munizioni ai partigiani italiani e francesi. È il 1943. L’anno dopo riesce a liberare Francis Cammaerts un agente della resistenza francese (divenuto anche suo amante) che era a capo della rete di spionaggio della Francia meridionale e altri due agenti francesi arrestati dalla Gestapo e condannati a morte. Inscena un bluff temerario e vincente riuscendo a liberarli a due ore dall’esecuzione.
Le apparenze ingannano. Ricordiamo quanto apparisse gracile la neonata Krystyna. Le avventure di questa donna straordinaria si leggono tutto d’un fiato grazie all’abilità narrativa di Mulley, alla forza intrinseca degli avvenimenti, all’impasto di storia, vicenda personale e valenze finzionali che in più occasioni fanno pensare a un racconto a metà tra action e spy story. Invece, questa è stata la vita di Christine Granville, dimenticata colpevolmente perché invase spazi del dominio maschile, tant’è che non solo venne censurata qualsiasi pubblicazione che la riguardasse, ma addirittura una sceneggiatura in cui il suo ruolo avrebbe dovuto essere interpretato da Sarah, la figlia di Churchill.
Un riscatto cinematografico pare essere ora all’orizzonte, grazie proprio a La spia che amava: gli Universal Studios, che ne hanno acquistato i diritti cinematografici e proposto ad Angelina Jolie il ruolo della protagonista. Fuori orario, ma meglio che mai. La fine della storia è infatti deplorevole, triste, e drammatica. Con un incredibile voltafaccia, non le fu concessa la cittadinanza britannica, nonostante le medaglie al valore riconosciutole dalla Francia e dallo stesso Regno Unito (al valor civile, l’unico riconosciuto alle donne).
In quel lasso di tempo, la Polonia era passata nuovamente al nemico, diventando un Paese del blocco socialista, e lei rimase da esiliata a Londra sola e indigente, impossibilitata a rientrare in patria. Dapprima se ne torna in Africa, in Kenya, su invito di un altro suo ex amante (durante il suo soggiorno al Cairo), Michael Dunford, che vi si era trasferito per lavorare al British Council. È una parentesi, ritorna a Londra, successivamente ancora con Dunford va in Medio Oriente e vola a Bonn dove Andrzej Kowerski è nel frattempo finito in ospedale in seguito a un grave incidente automobilistico. Infine, ritorna a Londra, stabilendosi all’Hotel Shelbourne e inizia ad arrangiarsi con vari lavoretti, come operatrice telefonica all’India House, la sede dell’Alta Commissione dell’India, come commessa da Harrods, presso la lavanderia di un hotel e come cameriera in una piccola caffetteria polacca. Durano tutti poco. Lo stesso dicasi per il tentativo di avviare un’attività di concessionaria d’auto in Australia in società con un altro suo ex, un pilota serbo, George Michailov, altro uomo conosciuto al Cairo. Infine, trova lavoro come assistente di bordo sul transatlantico Ruhaine della società neozelandese Shaw Savill Line, dove avverrà l’incontro fatale della sua vita: quello con Dennis Muldowney, anch’egli impiegato a bordo. I due prendono a frequentarsi, lei continua la sua attività, lui inizia ad annoiarla, ad assillarla, lei cerca di liberarsene.
Nel frattempo, considera la proposta di matrimonio fattale da Kowerski. Ha in programma un viaggio con lui in Belgio, ma il volo viene cancellato per un guasto al motore. Ha quarantaquattro anni. È la sera del 15 giugno 1952, lei rientra in albergo, Muldowney è lì per strada ad aspettarla. Una volta entrata, la segue e le urla contro nella hall, nella tasca posteriore dei pantaloni ha un coltello con una lama di cinque centimetri e mezzo. Il diverbio è breve, lui affonda per intero la lama fino al cuore. Femminicidio, diremmo soltanto oggi. Lei è sempre stata fuori orario, anche in occasione della sua tragica fine segnata dalla banalità del male. Restano le vicende della sua vita, che paiono riecheggiare le parole di Andrea Sperelli, il protagonista de Il piacere di Gabriele D’Annunzio: “Bisogna fare della propria vita un’opera d’arte” (D’Annunzio, 2016).
Christine Granville ci è riuscita, anche se un vandalo ha cercato di deturparla con un coltello.
- Gabriele D’Annunzio, Il piacere, Mondadori, Milano, 2016.
- Ian Fleming, Casino Royale, Adelphi, Milano, 2012.
- Witold Gombrowicz, Una giovinezza in Polonia, Feltrinelli, Milano, 1998.