“Il tempo fluisce dal futuro al presente […] Il momento in cui il futuro si trasforma in passato, è il momento che chiamiamo presente” ricordò in una sua lezione Jorge Luis Borges, richiamandosi al metafisico inglese James Bradley. Al di là della percezione comune, il tempo è un concetto niente affatto scontato e tantomeno i suoi corollari. Lo sanno bene i viaggiatori nel tempo e i passeggiatori tra universi paralleli, al corrente, ma non sempre, dei rischi e dei paradossi in cui si può incorrere. Viaggiatori nel tempo: visitatori perturbanti, stranieri che alterano il nostro quotidiano. Una razza che dai tempi del Viaggiatore wellsiano è cresciuta e si è moltiplicata in tante storie della fantascienza, in romanzi, racconti, film e non solo nel cinema di genere. Lo sapeva anche Adolfo Bioy Casares, sodale di Borges, quando affida a Morel il compito di esplorare “l’influenza del futuro sul passato” (Bioy Casares, 2017). In parallelo, si sono moltiplicati altrettanto gli abitanti degli universi simili al nostro, tranne che per un dettaglio, dai quali ci separa un nonnulla.
Ne sanno qualcosa anche filosofi più contemporanei, come Gilles Deleuze, che argomentò non poco riguardo alle immagini cristallo, come definì, riferendosi al cinema, che possiedono un carattere proprio oggettivo, di doppiezza (dei vari doppi che lo spettatore altrimenti produce: attuale e virtuale, presente e passato, reale e immaginario, vero e falso), per esempio, nel caso delle immagini allo specchio nei film (cfr. Deleuze, 2017). Un proprio tempo (dell’immagine) dentro un tempo altro (del film), di fronte al tempo dello spettatore e del suo apparato interpretativo.
Lo sapeva bene, probabilmente, anche André Farwagi quando realizzò Le Temps de mourir (1970) che, ribattezzato in modo fuorviante in italiano con il titolo L’assassino ha prenotato la tua morte, testimonia dell’attrazione suscitata dai paradossi temporali causati da chi si sposta avanti e indietro nel tempo, anche in autori al di fuori della cerchia di quelli dichiaratamente di fantascienza. Farwagi, per la verità, è autore di un cinema fantastico piuttosto autoriale. All’epoca non aveva granché alle spalle, avendo firmato un unico cortometraggio, L’Ombre dans sa glace (1968), anch’esso di taglio fantascientifico e in seguito le poche opere realizzate per il grande schermo (il corpo maggiore della sua opera è costituito da film per la tv), saranno anch’esse nel segno del fantastico. Questo suo primo lungometraggio non avrebbe affatto sfigurato come un episodio lungo di Ai confini della realtà e basterà un sunto della prima parte della trama per convenirne. Al tempo stesso, si rivela una riflessione su tempo e cinema, un metadiscorso che indaga sulla struttura stessa della vita delle immagini. Un intento che viene messo in chiaro nelle primissime battute, tra due comprimari della storia, le guardie del corpo del protagonista, astutamente mascherate da chiacchiere sul lavoro:
“Helmut: Ci diamo al cinema adesso?
Marco: Tanto per ammazzare il tempo … Sai a me piace molto il cinema”.
Max Topfer (impersonato da Bruno Cremer, futuro commissario Maigret) è un uomo di enorme potere, a capo, questa è l’unica informazione certa, di un’azienda (probabilmente monopolistica) che produce pellicole. Vive in una maestosa villa circondato da guardie del corpo. Arredi classici e oggetti tecnologici, monitor, telecamere, un mix post moderno… ante litteram che deve qualcosa ad Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (1965) di Jean-Luc Godard. Nelle prime inquadrature, una donna giovane e bella (Anna Karina, già nella pellicola godardiana) cavalca come se fosse in fuga da un pericolo incombente, stringendo con sé una bobina. Sbalzata da cavallo, sbatte contro un albero, sviene e la bobina rotola lontano. Viene ritrovata da uno degli uomini di Topfer che schiaccia un pisolino su un prato.
Topfer visiona la pellicola: sono le riprese del suo assassinio. Un uomo, a lui del tutto sconosciuto, gli spara in una sala della villa. Ritrovano la fanciulla ancora priva di sensi e la portano nella villa. Lei ha perso la memoria. Riemerge solo qualche immagine. Come se non bastasse, c’è un altro fatto inspiegabile: la bobina è stata realizzata con un materiale non ancora in commercio. Topfer è un uomo potente, che ha peso all’interno di una fantomatica struttura di controllo centrale e dopo brevi ricerche riesce a individuare il potenziale assassino. Si tratta del proprietario di un’azienda operante nel ramo del turismo, tale Hervé Breton, presidente della società Sole e Natura (sic!). L’uomo, interpretato da Jean Rochefort, a sua volta non conosce Topfer. Questi, pur restando scettico su tutta la faccenda, fa sequestrare il suo possibile killer e lo tiene sotto sorveglianza nella villa. Qui, nel frattempo, la fanciulla rivede a tratti scene di un suo passato recente, sostenendo di essere tornata a casa. In seguito, sarà chiaro che in passato i due sono stati amanti, anche se questo ricordo non appartiene a Topfer. È della partita anche un computer centrale, che ricorda l’Hal 9000 kubrickiano per le funzioni di supervisore. Una meraviglia della scienza e della tecnica naturalmente di proprietà di Topfer.
Da lì in avanti, la trama condurrà inesorabilmente alla morte di Topfer, perché proprio le mosse di questi per prevenire il suo assassinio creeranno le condizioni per il tragico finale. Quasi finale, perché ci rivelerà la perfetta circolarità degli eventi narrati.
Un racconto fantastico, non privo di qualche ingenuità, con personaggi sufficientemente naturali, seppur stilizzati nei ruoli: la vittima annunciata, il possibile assassino, la donna misteriosa.
La chiave di tutto è la donna senza nome, che possiamo investire di molteplici significati, tutti plausibili, nessuno del tutto certo: viaggiatrice nel tempo o proveniente da un universo parallelo, veggente soprannaturale, fato, dispositivo narrativo, oppure, soprattutto, crocevia delle possibilità.
Il cinema, detto altrimenti.
- Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel, Sur, Roma, 2017.
- Jorge Luis Borges, Oral, Editori Riuniti, Roma, 1981.
- Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Einaudi, Torino, 2017.