Musica e molte altre cose
da una lacrima sul viso

Chris McGregor’s Brotherhood of Breath
Procession
Live At Toulose
Formazione

Chris McGregor (pianoforte),
Harry Beckett, Mark Charig (tromba),
Radu Malfatti (trombone),
Mike Osborne, Dudu Pukwana (contralto),
Evan Parker (tenore),
Bruce Grant (baritone, flauto),
Johnny Dyani, Harry Miller (contrabbasso),
Louis Moholo-Moholo (batteria).
Ogun, 2013

Chris McGregor’s Brotherhood of Breath
Procession
Live At Toulose
Formazione

Chris McGregor (pianoforte),
Harry Beckett, Mark Charig (tromba),
Radu Malfatti (trombone),
Mike Osborne, Dudu Pukwana (contralto),
Evan Parker (tenore),
Bruce Grant (baritone, flauto),
Johnny Dyani, Harry Miller (contrabbasso),
Louis Moholo-Moholo (batteria).
Ogun, 2013


Quando l’orchestra Brotherhood Of Breath salì sul palco della Halle aux Grain di Tolosa, il 10 maggio 1977, tra i suoi ranghi era assente il trombettista sudafricano Mongezi Feza, uno dei componenti storici della formazione scomparso il 14 dicembre 1975. C’era la sua musica nella scaletta del concerto, la meravigliosa Sonia, danza sinuosa e ammaliante. Quasi a pareggiare i conti, la formazione che calcò la scena di Tolosa proponeva un secondo contrabbassista, Johnny Dyani, in affiancamento a Harry Miller. Erano entrambi connazionali di Feza e di parte degli altri componenti il nucleo originario dell’orchestra: il sassofonista Dudu Pukwana, il batterista Louis Moholo, il pianista e arrangiatore Chris McGregor e lo stesso Miller. Quel concerto da tempo irreperibile, forte anche di un brano come Kwhalo, concentrato di afro funk e free jazz dai riff micidiali e di Sunrise Of The Sun, che mette in risalto il solismo dell’autore (McGregor) e del trombettista Harry Beckett, è stato ripubblicato integralmente, includendo i quasi venti minuti in più di altri tre brani (You Ain’t Gonna Know Me Cos You Think You Know Me, sempre di Feza, TBS e Andromeda) esclusi all’epoca per ragioni di spazio nell’edizione in vinile.
Un altro amorevole recupero delle storiche incisioni di quegli anni realizzato dalla Ogun, la casa discografica creata nel 1975 da Miller e sua moglie Hazel per dare l’opportunità ai musicisti sudafricani esuli a Londra di poter incidere liberamente la loro musica. Oggi è la sola Hazel Miller a portare avanti quella missione. La morte di Mongezi Feza, però, non era destinata a rimanere isolata: quella della confraternita del respiro è una storia triste, come sono tristi tutte le storie che gli esuli vivono. È anche una storia gioiosa e gloriosa, quella della confraternita; gioiosa come quella di tutti gli artisti che sanno fondere in un sol gesto, in un solo respiro, le emozioni, le vibrazioni e la genialità; gloriosa perché questi uomini segnarono profondamente l’intera generazione dei musicisti impegnata in prima linea in quegli anni nell’inventare la nuova musica, dal pop alla musica improvvisata, realizzata nel Regno Unito tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta, sconfinando di molto in tutte le direzioni.

Quando nel 1992 venne pubblicato Spirits Rejoice, il primo dei due album della Dedication Orchestra, omaggio a quei musicisti e al loro strepitoso repertorio, il sontuoso collettivo allestito per l’occasione schierava la crema di due generazioni di jazzisti inglesi che a vario titolo incrociò quei musicisti sudafricani, a riprova della influenza fondamentale che esercitarono. Ne facevano parte tra gli altri Keith Tippett e Julie Tippetts, Evan Parker, Paul Rutherford, Lol Coxhill, Kenny Wheeler, Harry Beckett, Marc Charig, Steve Beresford, Elton Dean, per un totale di oltre trenta musicisti. Tra di loro, però, c’era solo il batterista Louis Moholo, tuttora in vita, fortunatamente. La vergogna dell’apartheid verrà poi cancellata, ma sarà il solo Moholo a poter tornare a suonare in Sudafrica.

“Penso a Dudu e Johnny, a Chris e Mongs (Feza, ndr) che non videro il loro sogno farsi realtà. Cosicchè, inevitabilmente ci scappa una lacrima”, dirà in seguito
(Heining, 2009).

La loro avventura era iniziata intorno al 1960, quando a Chris McGregor non bastano più le frequentazioni di musicisti colti come Béla Bartók e Arnold Schönberg studiati al Conservatorio di Città del Capo (McGregor è un bianco). Lui è attratto dal nuovo jazz, hard bop e oltre, conosce e apprezza Horace Silver, Art Blakey, John Coltrane, Eric Dolphy, Charles Mingus e con queste che sono più che semplici suggestioni fonda un proprio gruppo, un settetto di cui fa già parte il sassofonista (tenore) Ronnie Beer. Quella di McGregor è una delle migliori formazioni in circolazione, insieme ai Jazz Epistles guidati dal pianista Dollar Brand (che in seguito si chiamerà Abdullah Ibrahim) e dal trombettista Hugh Masekela. I due presto andranno a cercar fortuna altrove: Brand comincerà da Zurigo, Masekela a New York. Nel Sudafrica razzista c’erano molte band in circolazione, attive nelle township, e in quelle di maggior spessore militavano i futuri Blue Notes. Dudu Pukwana (contralto) e Nick Moyake (tenore) erano nei Jazz Giants, e Moholo nei Jazz Ambassadors. Si troveranno tutti a partecipare nel 1962 al National Jazz Festival di Johannesburg, dove faranno conoscenza con Mongezi Feza. Anche se l’assetto non è ancora quello definitivo è in quell’anno che nascono i Blue Notes. Dispongono anche di una manager, Maxine, che fa già coppia con McGregor e ne diventerà poi la moglie. Il settetto partecipa a un jazz festival sotto l’egida della Coal-Cola e oltre a McGregor, Pukwana e Moyake, vede Elijha Nkwanyana alla tromba e Chris Columbus al baritono, mentre la sezione ritmica era composta da Martin Mgijma (contrabbasso) e Mony Weber (batteria). Lo stesso anno, in occasione di un’altra manifestazione – sponsorizzata questa volta da una fabbrica che produceva birra, la Castle Lager Brewery – McGregor si trova a dirigere la Castle Lager Big Band, composta da una quindicina di elementi. La band includeva, oltre a lui, altri musicisti bianchi. Insostenibile. “In Sudafrica non c’era spazio per niente e per nessuno. Dovevamo ribellarci […] eravamo stanchi”, ricorderà Moholo.

“Lavoravo con Chris Mcgregor, che era un bianco. Non era opportuno che suonassimo insieme; non potevamo condividere il palco con Chris; non potevamo suonare per i bianchi […] Potevo suonare in posti in cui mia madre non sarebbe potuta entrare per venirmi a sentire. E non le avrebbero solo impedito di venire ai miei concerti, forse l’avrebbero pure picchiata”
(cit. in Shipton, 2011).

Nel Sudafrica dell’apartheid, proporre in concerto una simile line-up significava suonare solo nei ghetti dei neri dove solo qualche bianco illuminato sedeva tra il pubblico di colore. Quasi assente la stampa (bianca, ovviamente), ostracismo garantito. Leggi e regolamenti, dal Reservation Of Separate Amenities del 1953 al Native Laws Amendement Act del 1957, erigevano barriere insormontabili. Se la band si azzardava a suonare in teatri riservati a bianchi, i musicisti dovevano suonare separati da una tenda in modo da tenere quelli di colore ben nascosti. Politicamente la “promiscuità” tra musicisti neri e bianchi era ritenuta pericolosa. Per evitare rischi ulteriori, McGregor si spacciava per insegnante di musica dei musicisti di colore in organico. Una difficoltà dietro l’altra (non potevano, per esempio, dormire negli stessi alberghi), che non impedirono però agli indomiti orchestrali di andare in tour e anche di incidere un album, The African Sound (1963), per la locale Gallo Records, il cui catalogo comprendeva incisioni dei maggiori esponenti della musica kwela come Lemmy “Special” Mabaso.
La kwela sarà l’ingrediente locale che renderà magica la pozione messa a punto successivamente a Londra dai componenti dei Blue Notes. Era una musica di strada fatta per ballare, gioiosa e cantabile, nata negli anni Quaranta ed esplosa nel decennio successivo, inizialmente suonata solo con il penny-whistle (flautino dolce di metallo dall’imboccatura a fischietto, con sei fori e il pregio di costare poco) con contorno di altri strumenti artigianali poi sostituiti con sassofoni, pianoforti e classiche sezioni ritmiche, ottenendo risultati più vicini al jazz. Agli inizi del 1964 i Blue Notes incidono diversi brani in studio. Vedranno la luce nel 2002 con il titolo Township Bop, un documento prezioso che testimonia la progressiva evoluzione di McGregor e Pukwana come compositori; difatti, firmano quasi tutto, eccetto Never Let Me Go di Bill Evans e due brani di Duke Ellington, Take The Coltrane Angelica. L’avvicendamento dei musicisti, inoltre, indica chiaramente il progressivo stabilizzarsi della formazione intorno ai tre membri storici (McGregor, Pukwana e Moyake). Ci sono e poi vanno via: Dennis Mpali (tromba), Mongezi Velelo e Sammy Maritz al contrabbasso, Early Mabuza alla batteria. Entrano e restano: Johnny Dyani al contrabbasso e Moholo. Si giunge alla svolta. È il 1964, i Blue Notes suonano un’ultima volta in patria a Durban, un concerto che verrà pubblicato solo trent’anni dopo (Legacy: Live in South Afrika 1964). Riprendono dei brani dalle sedute di Township Bop, ma si tratta di versioni estese, più libere e avventurose. In repertorio, inoltre, c’è già un pezzo da novanta: B My Dear scritto da Pukwana.

L’ingegnosa e combattiva Maxine fa pervenire un nastro con registrazioni della band agli organizzatori del festival jazz di Antibes Juan-les-Pins in Francia che, convinti della bontà della musica, invitano i Blue Notes (e Dollar Brand) a partecipare alla kermesse musicale. Nell’agosto del 1964, di prima mattina, sei uomini e una donna prendono un treno in direzione Mozambico. Inizia da lì il loro viaggio verso l’Europa. Sono decisi a non fare più ritorno in Sudafrica. L’apparizione ad Antibes è un successo, ma non arriva nessun altro ingaggio, così per un po’ di tempo si arrangiano a suonare per le strade di Nizza. Gli darà una mano Dollar Brand ospitandoli a Zurigo. Qui Moyake decide di tornare indietro, dando il via alla sequenza di lutti che segnerà questi uomini. Rientrato in patria morì di lì a poco per emorragia cerebrale. Nel 1965, Moholo si ritrova a Copenhagen nel New York Art Quartet con il trombonista Roswell Rudd, il sassofonista John Tchicai e il contrabbassista Finn von Eyben. Suonano al Jazzhus Montmartre, dove nel 1966 vengono ingaggiati i Blue Notes. La capitale danese sarà l’occasione di conoscere la musica di altri uomini di punta del free jazz: Cecil Taylor, Don Cherry, Archie Shepp e Albert Ayler, tutti saliti sul palco di quel jazz club. L’ingrediente aggiunto sarà esplosivo. Intanto Maxine non si è fermata e trova il modo di procurare un ingaggio al Ronnie Scott’s Club di Gerrard Street a Londra. La scena londinese che li accolse era in pieno fermento.

“Nel 1965, in piena era beat, Joe Harriott apre all’Asia con Indo-Jazz Fusion, proto fusion tra musica classica indiana e jazz firmata insieme al compositore e violinista indiano John Mayer: una geniale forma di crossover tra Occidente e Oriente in tempi assolutamente non sospetti. Howard Riley con John Hiseman e Barry Guy e il trio Joseph Holbroke (Derek Bailey, Gavin Bryars e Tony Oxley) segnalano che qualcosa di grosso bolle in pentola. Neil Ardley dirige un’orchestra/bottega, la New Jazz Orchestra, che esordisce nel 1965 con Western Reunion avvalendosi di una tromba promettente, Ian Carr, e un esuberante e altrettanto promettente sassofonista, Trevor Watts. Carr in parallelo ha iniziato un sodalizio con il sassofonista Don Rendell che durerà per tutto il resto del decennio, il Rendell/Carr Quintet, che include anche Michael Garrick, pianista raffinato e compositore ispirato. L’anno vede anche la pubblicazione del primo disco di free jazz inglese, Local Colour del pianista Peter Lemer in compagnia di un giovanissimo sassofonista, John Surman.
Le nuove leve si riuniscono in un proprio quartier generale, sempre a Londra, al Little Theatre Club vicino a Trafalgar Square. Nel frattempo, il Ronnie Scott’s aveva cambiato indirizzo trasferendosi nei locali più grandi e confortevoli di Frith Street: il vecchio spazio di Gerrard Street, con a disposizione ancora 18 mesi di affitto, diventa il centro di gravità delle nuove generazioni del jazz inglese alla ricerca disperata di posti dove suonare. Tra i primi a calcare il vecchio palco del Ronnie Scott’s Old Place nell’ottobre 1966 sono: Mike Westbrook, Surman, John McLaughlin, Mike Gibbs e Graham Collier tra gli altri”
(Bonomi, Fucile, 2005).

C’è dell’altro.

“A Londra si annunciano ancora altri arrivi determinanti. Si sposta da Canterbury un gruppo di amici originariamente membri di un complessino chiamato Wilde Flowers. Ora sono due gruppi e si chiamano Soft Machine e Caravan. Da Bristol giunge il giovane pianista Keith Tippett. Gli amici non gli mancano: Marc Charig, Nick Evans e Elton Dean. A Londra John Stevens si insedia nel Little Theatre Club vicino a Trafalgar Square e inizia a sperimentare in compagnia di due amici conosciuti durante il servizio militare nella RAF, Paul Rutherford e Trevor Watts. La formazione è aperta e si denomina Spontaneous Music Ensemble. Attira presto altri nomi destinati a essere primi attori della scena: Evan Parker, Derek Bailey, Barry Guy e Kenny Wheeler. Nello SME avviene qualcosa di determinante: ai musicisti coinvolti non basta più neanche il free jazz. La musica improvvisata viene da qui e si accentua nella prima versione della Music Improvisation Company (poi solo Company), l’altra opera aperta ruotante intorno a Bailey e Oxley, i duri del Joseph Holbrooke Trio”
(ibidem).

A Londra, come si è detto, arrivano i Blue Notes.
Alcuni musicisti sudafricani si sono già stabiliti nella capitale inglese. C’è Mike Lubowitz, che si ribattezza Manfred Mann e forma l’omonima band tra le protagoniste della prima stagione beat, con all’attivo numeri uno in classifica in piena beatlemania: Do Wah Diddy Diddy e Pretty Flamingo. Si trova a Londra anche Ronnie Beer, il tenorsassofonista già con i Blue Notes in patria. Soprattutto c’è Harry Miller, arrivato direttamente nel 1961 proprio al seguito di Manfred Mann. Si ritrovano a suonare all’Old Place. Nel 1967 McGregor, in compagnia di Beer, Moholo e Pukwana, prende parte alle registrazioni di un disco dell’ennesimo esiliato dal Sudafrica, Gwigwi Mrwebi (titolo: Kwela); poi alla fine dell’anno un settetto da lui capitanato (in pratica i Blue Notes con Beer) incide l’album Very Urgent per la Polydor, grazie a Joe Boyd (l’uomo che lanciò/scoprì i Pink Floyd, Nick Drake, i Fairport Convention e la Incredible String Band, per fare qualche nome). “Mi sembrò evidente che stessero suonando una musica più vivace di chiunque altro della scena inglese” (Boyd, 2010), ricorderà l’infaticabile produttore. Il disco andò subito fuori catalogo e fu ristampato solo nel 2008. Vi compaiono brani tra i più nobili del repertorio, come Marie My Dear di Pukwana (che fiorisce dalla precedente B My Dear) e Travelling Somewhere di McGregor.
Nel 1969 Chris McGregor incide sempre con la produzione di Joe Boyd un secondo disco, rimasto inedito fino al 2008: Up To Earth. All’opera c’è un settetto comprendente McGregor, Dudu Pukwana, Mongezi Feza, John Surman al sax baritono e al clarinetto basso, Evan Parker al tenore, Barre Phillips (membro del Trio di Surman) oppure Danny Thompson (dei Pentangle) al contrabbasso e Moholo. Phillips, Moholo e McGregor danno vita anche a un estemporaneo trio che registra Our Prayer, altro lavoro finito nei cassetti per decenni e pubblicato anch’esso solo nel 2008. Infine, sempre nel 1969, McGregor ricevette la commissione di una colonna sonora, quella per il film di Ossie Davis tratto dal racconto dello scrittore nigeriano Wole Soyinka: Kongi’s Harvest. Sarà eseguita da un’orchestra che riceverà successivamente un finanziamento dell’Arts Council. È il 1970, la Brotherhood Of Breath era nata. La componente sudafricana era costituita da McGregor, Pukwana, Feza, Beer, Miller e Moholo, ma ne facevano parte anche alcuni giovani talenti del Regno Unito: John Surman, Mike Osborne, Alan Skidmore (il futuro trio S.O.S.), Marc Charig, Nick Evans, Malcolm Griffiths e Harry Beckett. Il sound dell’orchestra fu da subito unico, sintesi di due estremi musicali: da una parte la dolcezza delle melodie africane e dall’altra il furore creativo della free music inglese.

L’esordio discografico è del 1971, il secondo lp – sempre registrato in studio – esce nel 1972, con formazione praticamente invariata. La novità è l’ingresso di Gary Windo, in sostituzione di Surman e Ronnie Beer. Quest’ultimo lasciò l’Inghilterra, trasferendosi a Parigi, suonando anche nell’album Seasons della Celestial Communications Orchestra, poi smise di suonare e si mise a costruire barche a Ibiza. Entrambi gli album furono pubblicati dalla Neon, etichetta progressive della Rca. Come altri simili tentativi ruffiani dell’epoca, anche in questo caso, trascorso il “momento novità”, questi dischi finirono nell’oblio. Il primo album, più fortunato, ebbe una prima ristampa nei Novanta grazie all’etichetta tedesca Repertoire e una seconda dell’italiana Akarma. Il secondo disco, invece, è rimasto un oggetto smarrito per oltre 35 anni. Nel 2007 la Fledg’ling Records li ha ristampati avvalendosi dei master originali, che ne restituiscono l’ottimo suono delle registrazioni originali. I due album, grazie a brani irresistibili come Mra (un inno posto in apertura del primo disco), evidenziano l’originale blend di kwela e jazz, quello di Duke Ellington e il free al tempo stesso. L’orchestra esprime furore quando occorre (Joyful Noises) e sfoggia temi deliziosi (la citata MraAndromedaDo It), mai smarrendo il filo magico con cui legare composizione e improvvisazione. Solisti in gran spolvero, suono smagliante e un susseguirsi di gioia e rabbia, ritmo e deflagrazione del suono. Partecipano alla festa musicisti che si incroceranno di continuo. Per dare un’idea degli intrecci basti ricordare che Moholo incise nel 1970 assieme a Miller e Beckett Outback, l’esordio di Osborne, Miller figura negli esordi di Westbrook (Celebration, 1967), di Surman (John Surman, 1968) e di Skidmore (Once Upon a Time, 1969, con Moholo); Feza, Charig, Pukwana, Skidmore, Evans, Miller e Gary Windo erano nei Centipede di Tippett (1971) e così via. All’epoca l’orchestra entra in azione anche in Germania, come sarà poi documentato dalle registrazioni conservate negli archivi di Radio Bremen e pubblicati dalla Cuneiform in un doppio cd: Bremen To Bridgwater. Il primo concerto – otto brani registrati nel 1971 – si apre con l’irresistibile Funky Boots March di Gary Windo e ospita in coda due lunghe cavalcate dell’orchestra registrate nel 1975 in UK.

Il secondo rivede l’orchestra in Germania proporre una mirabile sequenza che prende il via con una composizione di Feza, Sonia, forse il vertice di tutto il songbook della confraternita. Anni dopo sarà pubblicato anche il concerto tenuto a Berlino nel novembre del 1971, e ancora a Radio Bremen si devono le registrazioni (sempre della Cuneiform il merito di aver pubblicato il tutto rispettivamente come Eclipse At Dawn e Travelling Somewhere) effettuate nel gennaio del 1973. Questa però è amorevole ricostruzione dei tempi passati, mentre in tempo reale, nel seguito della storia della band, un momento chiave è rappresentato dallo spettacolare concerto registrato al festival di Willisau in Svizzera, nel 1974, che offrì l’occasione a Harry Miller di inaugurare l’etichetta Ogun, iniziando le pubblicazioni proprio con la registrazione di quel concerto. I componenti sudafricani della Brotherhood Of Breath partecipano anche alla realizzazione di alcune meraviglie del pop inglese come Bryter Later di Nick Drake e il meta-pop di Lizard dei King Crimson e Rock Bottom di Robert Wyatt. Ognuno di loro in preda a un autentico fervore creativo coltiva anche progetti personali. Tra i principali, Pukwana crea nel 1971 gli Assagai, formazione di fremente afro-rock, coinvolgendovi Feza, Pukwana e Moholo. Più vicine alle origini sono invece le musiche interpretate da altre due band da lui capitanate e attive prima, durante e dopo gli Assagai: Spear e Zila. Harry Miller mette insieme un formidabile sestetto, gli Isipingo, che vedeva all’opera anche Keith Tippett. Johnny Dyani aveva il suo da fare in Danimarca, dove partecipò a un bel po’ di registrazioni con musicisti legati all’etichetta Steeplechase e con un suo trio con Feza e il percussionista turco Okay Temiz. Infine, Moholo allestì la band per certi versi più affine alla confraternita, l’ottetto che incise il formidabile Spirits Rejoice! e in seguito formerà un altro collettivo sotto lo stesso segno, chiamato Viva La Black.

Poi i lutti. Il 14 dicembre 1975 scompare Mongezi Feza. È un colpo durissimo. “Suonava come danzano le fiamme / La bellezza delle forme in movimento gioioso / Esprimendo con chiarezza la propria luce interiore” (Onori, 1997). Così lo ricorderà McGregor, che ricostituisce i Blue Notes per un concerto omaggio. Si ritrova a Londra con Pukwana, Dyani e Moholo e i quattro suonano per circa tre ore dopo le onoranze funebri, rendendo omaggio all’amico/fratello. Il tutto viene immortalato dalla Ogun, che pubblica Blue Notes For Mongezi, un Wish You Were Here made in Sudafrica. McGregor, trasferitosi in Francia per un po’ si dedica al piano solo (tre lp nel 1977). I Blue Notes suoneranno ancora nel 1977 in quartetto (Blue Notes In Concert) e si ascoltano anche in una registrazione rimasta inedita fino al 2012, che li cattura in azione al Jazzclub De Hoop, di Waregem, Belgio; poi si ritroveranno in tre nel 1987 per ricordare Dyani, scomparso nel 1986. L’album è Blue Notes For Johnny e si chiude con la citazione di Nkosi Sikelel’i Afrika, l’attuale inno sudafricano che allora era il canto dell’opposizione al regime. È l’ultimo atto dei Blue Notes. il 16 dicembre 1983 scompare Harry Miller per i postumi di un grave incidente d’auto. Sul finire degli anni Ottanta la Brotherhood of Breath si ricostituirà, ma fornendo poche prove del suo valore (Country Cooking, ad esempio, del 1987), poi il 26 maggio 1990 viene a mancare McGregor, il 30 giugno dello stesso anno ci lascia Pukwana, il “leone di Port Elizabeth”, dove era nato nel 1938. Moholo con i Viva La Black effettua nel 1993 un lungo tour in Sudafrica, poi le elezioni del 1994. Crolla l’apartheid e una lacrima ci scappa ancora via, ma appena il tempo di riascoltare la confraternita e si respira di nuovo un’aria di gioia.
Spirits Rejoice!

Ascolti
  • Blue Notes, Township Bop, Proper Records, 2002.
  • Blue Notes, The Ogun Collection (include: Legacy: Live in South Afrika 1964Blue Notes For MongeziBlue Notes In ConcertBlue Notes For Johnny), Ogun, 2008.
  • Blue Notes, Before The Wind Changes, Ogun, 2012.
  • The Dedication Orchestra, Spirits Rejoice, Ogun, 1992.
  • The Dedication Orchestra, Ixesha (Time), Ogun, 1994.
  • Johnny Dyani, Song For Biko, SteepleChase, 1994.
  • Chris McGregor, In His Good Time, Ogun, 2012.
  • Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Fledg’ling, 2007.
  • Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Brotherhood, Fledg’ling, 2007.
  • Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Live At Willisau, Ogun, 1994.
  • Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Eclipse At Dawn, Cuneiform Records, 2008.
  • Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Bremen To Bridgwater, Cuneiform Records, 2004.
  • Chris McGregor’s Brotherhood of Breath, Travelling Somewhere, Cuneiform Records, 2001.
  • Chris McGregor & The Castle Lager Big Band, The African Sound, Teal, 1991.
  • Chris McGregor Group, Very Urgent, Fledg’ling, 2008.
  • Chris McGregor Septet, Up To Earth, Fledg’ling, 2008.
  • Chris McGregor Trio, Our Prayer, Fledg’ling, 2008.
  • Harry Miller, The Collection (oltre al disco degli Isipingo, Family Affair, include anche: Children At PlayBracknell BreakdownIn ConferenceDown South), Ogun, 1999.
  • Harry Miller’s Isipingo, Which Way Now, Cuneiform Records, 2006.
  • Louis Moholo Septet, Spirits Rejoice! (include anche Bra Louis – Bra Tebs), Ogun, 2004.
  • Louis Moholo’s Viva-La-Black, Exiles, Ogun, 1991.Louis Moholo’s Viva-La-Black, Freedom Tour: Live In South Afrika 1993, Ogun, 1994.
  • Dudu Pukwana & Spear, In The Townships, Earthworks, 1988.
Letture
  • Claudio Bonomi, Gennaro Fucile Gennaro, Elastic Jazz, Auditorium, Milano, 2005.
  • Joe Boyd, Le biciclette bianche, Odoya, Bologna, 2010.
  • Heining Duncan, Cry Freedom, in Jazzwise, dicembre/gennaio 2008/09.
  • Luigi Onori, Il jazz sudafricano, in Musica Jazz, Numero 12 (576), 1997.
  • Alyn Shipton, Nuova storia del jazz, Einaudi, Torino, 2011.