La triade sepolta: Béla Tarr
e le difficili dimore

Il cinema di Béla Tarr
è stato protagonista
della retrospettiva Senza fine.
Il cinema di Béla Tarr

(17 maggio – 2 giugno)
promossa dal Comune di Napoli
e curata da LaDoc
per il Maggio dei Monumenti 2024.
Una retrospettiva integrale
con contributi  di studiosi,
critici e artisti
e un workshop gratuito
per giovani filmaker.

Il cinema di Béla Tarr
è stato protagonista
della retrospettiva Senza fine.
Il cinema di Béla Tarr

(17 maggio – 2 giugno)
promossa dal Comune di Napoli
e curata da LaDoc
per il Maggio dei Monumenti 2024.
Una retrospettiva integrale
con contributi  di studiosi,
critici e artisti
e un workshop gratuito
per giovani filmaker.


* Dopo il ritiro dalla regia annunciato nel 2011, Béla Tarr si è dedicato a un’appassionata attività di formazione, tenendo masterclass e workshop un po’ ovunque ai quattro angoli del mondo. Quest’anno è approdato a Napoli, dove ha tenuto e diretto un corso immersivo di cinema destinato a un numero ristretto di giovani filmaker. In contemporanea è stata allestita una retrospettiva completa delle sue opere intitolata Senza fine. Il cinema di Béla Tarr, correlata da incontri e tavole rotonde con la partecipazione dello stesso Tarr, ospitata in sale di tutta la città dal 17 maggio al 2 giugno. Il progetto a cura di Ladoc è stato promosso e finanziato dal Comune di Napoli nell’ambito del progetto Cohousing Cinema, in occasione del Maggio dei Monumenti 2024 (manifestazione culturale che si svolge ogni anno a Napoli articolata in varie sezioni) e in collaborazione con Scuola di Cinema – Accademia di Belle Arti di Napoli, l’Asilo, Riot Studio. Un’occasione per riflettere su quell’unicum rappresentato dal suo cinema, iniziando dalle origini, i suoi primi lungometraggi: Nido familiare (Családi tűzfészek, 1977), L’outsider (Szabadgyalog, 1981), Rapporti prefabbricati (Panelkapcsolat, 1982). Le tre piccole monografie che seguono intendono proporre l’apertura di una riflessione sugli albori del suo cinema, che lungi dai giovanilismi di cui può essere tacciato, inaugurano un radicale discorso sull’Uomo.

L’esordio con “una storia vera”: Nido Familiare
Due smunte galline beccano la sudicia terra di uno squallido isolato; tra cartacce e rottami, cercano qualcosa di cui nutrirsi. È custodito qui, subito, in un pugno di secondi, tutto il senso del lungometraggio d’esordio del giovane Béla Tarr. Due esseri umani desideranti anelano la fuga dal nucleo domestico in un’Ungheria travolta da una lancinante crisi degli alloggi e somma povertà. L’esergo della pellicola recita: “È una storia vera, non è accaduta ai personaggi del nostro film, ma sarebbe potuta accadere anche a loro” e ciò mette subito a tema l’intrinseca direzione speculativa dell’opera: la condensazione del patire umano in un assetto sociale quanto mai tossico e imprigionante. Occorre osservare infatti, che in quel sarebbe potuta sono contenuti gli intenti sociologici tarriani. L’inusuale utilizzo del condizionale passato nelle avvertenze iniziali svela un preciso orientamento, un rimando centrale: lo spettatore deve congedarsi dalla consueta fruizione alla quale è stato abituato – improntata cioè, a un distacco passivo rispetto alla finzione filmica – e aprirsi al mondo rappresentato, considerandolo come se fosse il proprio.

La Storia concerne tutti, questa storia potrebbe colpire ogni uomo in quanto essere sociale e, sembra suggerire Tarr, a essere filmate non sono semplici narrazioni, ma, al contrario, contingenze in cui chiunque di noi potrebbe precipitare da un momento all’altro. Comincia a farsi strada così, da questa frase impressa nel nero di uno schermo, il refrain presente in forme diverse in tutte le future pellicole dell’autore ungherese; l’invito a spogliarsi, finalmente, di tutte le personali convinzioni e di tutti i nocivi pregiudizi sull’Altro per spalancarci, senza esitare, al nostro simile. Come ha dichiarato in una conferenza tenutasi al Lincoln Center di New York il 13 giugno 2023:

“La mia vera università era stare con la gente e capirla, al fine di comprendere che, nonostante fossi giovane, avevo una responsabilità”.

In questa opera prima, modello per quelle che la seguiranno, la donna che lavora è Irén Szajki, giovane madre-operaia intenta a stipare insaccati in un lugubre salumificio budapestino. È sola tra (e contro) tanti, taciturna prende la busta paga e fa ritorno a casa. Si piomba così nella costrizione di un soggiorno domestico. Irén è oramai nella morsa, imbrigliata nelle sempre reiterate illazioni che il Pater familias, vertice autoritario del nido del marito Laci presso il quale si trova ad essere ospite, scaglia contro di lei. Come è stato argutamente notato, la casa assume sembianza e valore d’uno spazio totalitario (cfr. Stefanoni, 2017) in cui la parola diventa asfittico controllo e il discorso si fa sterile profluvio lemmatico. Non si dà dialogo tra i topi che dimorano nelle mura ma solo voci impazzite che virano dalla lamentela del suocero per la cena sgradita, a un’estemporanea partita a carte. Come il fascismo domestico che impera nelle quattro mura, Tarr co-stringe l’inquadratura addosso ai volti: non si esce dai limiti del frame facciale. L’intero lungometraggio formula l’impossibilità di abbandonare il volto umano che, pura allegoria dell’indigenza, fa da leitmotiv dei cento minuti di durata. Gli unici momenti in cui a levarsi sembra essere una lirica esperienza di felicità, si circoscrivono alla sequenza della giostra. Laci, Irèn e la piccola Krisztike planano assieme su di una ruota panoramica che vorticosamente piroetta tra cielo e terra. Questa splendida joie de vivre, vissuta a suon di musiche popolari tra le risa, il vento e l’oblio illusorio delle proprie condizioni di vita, viene tarpata di colpo dal vomito di Laci che, chino su di sé, racconta il ritorno martellante alla routine.

Il covo parentale appare come una gabbia necessaria in cui il vettore relazionale tra i due nuclei, quello cioè dei Padri e dei Figli, si connota per l’astio, l’ipocrisia e l’assenza d’ogni rispetto intergenerazionale. I due nidi appaiono embricati l’uno con altro. O meglio, da un lato ci sono i genitori di Laci che, sfruttando la concessione di ospitalità alla famiglia senzatetto, legittimano ingratamente il loro potere di sorveglianza quotidiana. Il padre, come un Cesare de facto, asfissia la giovane operaia, invocandole di tornare a casa subito dopo la fabbrica. L’uomo è l’immagine paternalistica di un moralismo ridicolo sotto il cui stemma prendono sede la cieca fede nello Stato, nell’onore e nel (suo) passato. Dall’altro lato, il nido in via di costruzione dei tre sembra davvero penzolare “dal selvaggio rosaio scheletrito” (Pascoli, 2015), cercando di abbrancare con travaglio e usura, uno spazio proprio indipendente dal governo dei genitori.
Non v’è alcuno svolgimento narrativo. I personaggi abitano l’intreccio confusamente, come vacanti stranieri della loro stessa vita.
Al di qua dello schermo, assistiamo come spie al dipanarsi di una ricerca – una casa, dimora stabile per costruire una vera famiglia – debilitante. Nulla sembra portare a tale compimento. A imporsi è un’irriducibile tensione tra il lavoro desiderante di Irén e il giogo negante dello Stato e dei suoi adepti. Ciò è manifesto nel bruto dialogo tra la protagonista e il funzionario dell’ufficio alloggi. La scena ci fa testimoni senz’armi di un reiterato diniego abitativo. Vediamo l’avvilito volto della donna chiedere per l’ennesima volta se vi fossero novità rispetto alla settimana precedente: “le richieste di alloggio sono classificate in ordine di importanza” tuona stolidamente l’esecutore statale. Segue l’addizionarsi caotico delle loro voci e Irén che se ne va, senza una casa in cui poter vivere. A materializzarsi in tal senso, è un vero e proprio straripamento del privato (la vita di Irèn e della sua famiglia) nel pubblico (la fredda burocrazia ungherese) che diventa simbolo dello scollamento totale tra Stato e cittadini. “Da qui al 1980 mi avranno seppellita se continueremo a vivere così”. Irén dice la fatica snervante dell’uomo moderno; il burocrate, al contrario, esprime l’anonimia spersonalizzante dell’apparato amministrativo.
In mezzo ai due estremi, sembra però albergare – con affanno – il desiderio, l’attesa sempre rivangata che un giorno, magari, la promessa giungerà ad attuarsi. Dal canto suo, il marito Laci è dimentico di tutta questa situazione, tornato dal servizio militare, mostra ciò che ha imparato in esercito: stupra una donna con il fratello, beve una birra e torna a dormire con la moglie. Il vigile indugiare della cinepresa su ciò che non vediamo in maniera esplicita – l’abuso sessuale – permette l’affiorare irrefutabile delle tanto sibilate quanto inascoltabili grida della violentata. Come un’ossessa, la donna contorce la testa con furia immonda e poi si lascia andare, inerte, alle bestie degradate che sono i due uomini. Tarr insiste con forza sulla durata straziante della scena, dipingendo il volto della donna dopo il sopruso, come quello di un morto. In questo suo misero vivere, Laci è globalmente sostenuto dal padre che anzi, contro ogni eminente giustezza, lo attenziona sulla possibile infedeltà della coniuge.

Sotto questo aspetto, Nido Familiare, fotografa anche la crisi del genere maschile (Marco Ferreri l’anno prima, nel 1978, aveva girato Ciao Maschio), dimostrando l’inconsistenza – a tratti becera – della figura genitoriale. Il padre di Laci predica moderatezza dei costumi dispensando, come un sacerdote con il suo breviario, precetti morali da seguire e indicazioni – non richieste – sul metodo d’educazione della figlia Krisztike. Il capofamiglia, proselita di una sorta di mos maiorum magiaro, cade ben presto però, umano come è, dei suoi istinti sessuali. Anch’egli, come il figlio, si scopre un fedifrago che tradisce la moglie passando le serate al bar affogato nella viscida seduzione di povere sfortunate. Nella sequenza d’adescamento coatto della sventurata Vali, prende forma un saggio sulla penuria esistenziale di un uomo che, ubriaco e goffo, crede di poter convincere la donna sul suo trattamento in quanto oggetto da usare. Diviene chiaro che il padre, mancando d’intelligenza e fascino, deve poggiare le proprie possibilità di conquista sulle insulse proprietà che ostenta di possedere, “deve essere contenta di un uomo come me, che ha persino una macchina…”. Vali lo rifiuta. Nei suoi occhi scavati leggiamo il tormento al quale è asservita. Lo insulta, dice di detestarlo, l’uomo confessa il proprio infantilismo, “non credevo che mi avreste scaricato così / non rifiutarmi” e poi, come ci si impadronisce di qualcosa che ci repelle, l’alcolizzato tenta di trattenerla a forza, prima portando la sua testa a sé e infine mordendole la mano. La scena si tronca con l’allontanamento della donna e la solitudine bieca, di un uomo che canta la propria deficienza d’affetto materno:

“mia madre ha fatto tanti sacrifici per crescermi […] ma quando io sono tornato a casa / il cielo si è aperto da tutti i lati e le stelle mi guardavano / ma non sapevano che ero orfano”.

Lo sguardo del regista assume sovente la prospettiva e del disagio e del titanismo femminile: la macchina da presa si pone come ascoltatore interagente di un mondo in cui le donne sono sole nello sforzo, costrette a dimenarsi, senza il sostegno del maschio, nell’inseguire un tetto sotto cui staranno, poi, anche gli stessi uomini. Nel suo primo film, Béla Tarr avvia l’imponente realizzazione di un affresco che perdurerà per tutta la sua opera e che si potrebbe definire come il racconto attentivo dei marginali. L’autore, attraverso la pellicola, sente il dovere politico d’avvicinarsi alle zone più remote della società, quelle cavità oscure in cui l’umano s’approssima all’animale, i corpi rimpiccioliscono in pollai periferici e la speranza diventa lamento vuoto. L’opera poi, zampilla di un assoluto rilievo documentale. A essere denunciata ad alta voce è l’insolvenza del socialismo sovietico che fa dell’immagine dello Stato, la nebbiosa icona di un’Ungheria dimidiata nel profondo, preda di un conflitto tra la parola data – il sogno collettivista e il benessere di tutto il popolo – e l’effettivo presentarsi di un mondo disgraziato e nullatenente.

Un abulico “Beethoven”: L’outsider
Una triste melodia si eleva nell’aria stanca di un manicomio. Un giovane si muove cauto tra le file di letti. Il suo violino sembra interpretare i pensieri di chi, inerme, ascolta. Sono i derelitti, i dimenticati, gli ex-uomini gorkjiani, i malati, i senza-dignità, l’irreprensibile pubblico di questa ouverture musicale. Si è scaraventati, come dinanzi a una violenta luce inattesa, dentro la musica inaugurale. Obbligati a udire, percepiamo il susseguirsi incollato di note acuminate e il loro rimbombare nel dormitorio degli infermi, rivela l’abbandono della società, lo specchio di vite trascurate. Lentamente la musica scema nei guaiti dei degenti. I volti scarni, le pelli tirate e il mangiare stentato, palesano un gusto dreyeriano per la collezione di fattezze antropiche sulla quale un paziente chiosa: “Siamo uomini, meraviglie della natura”. Sin dalla prima scena, András viene plasmato da Béla Tarr non come personaggio centrale, lui che protagonista non lo è nemmeno della sua vita, bensì come perno attorno al quale gravita una striata sequela di tipi umani rispetto ai quali, il violinista funge da organo ricettivo impermeabile.

Primo dei soli tre film girati a colori da Béla Tarr, assieme a Macbeth e Almanacco d’autunno, sempre con attori non professionisti, L’outsider è un film sul vagabondare nella perdita. Mercé degli eventi, il ritratto di András è quello di un ignavo che dondola da un dissesto all’altro. Licenziato dall’ospedale, mentre diventa padre pianta in asso la prima moglie Anna, perdendo così una casa in cui dormire. Quando trova lavoro in fabbrica, il suo migliore amico muore per overdose. Scopre di avere un fratello e grazie a lui conosce Kata, che sposa senza pensare. A causa di dissapori economici, dovuti all’obbligo di mantenimento del figlio, il matrimonio rovina e la sua nuova moglie lo tradisce con il fratello ma András non se ne cura. Il violinista in abito elegante, sembra smarrirsi nel cielo di una stanza; immagina di dirigere un’enorme orchestra quando poi, con un movimento verso il basso, apprendiamo che la gigantesca Settima Sinfonia proveniva da un giradischi abbandonato a terra.
L’ascendenza verghiana è manifesta: inefficace è il tentativo di “Beethoven” (così viene chiamato dai suoi amici) di dimostrare i suoi talenti. L’ostacolo all’uscita dall’anonimato risiede proprio in sé stesso. E lucidamente, come evidente è la trasparenza dell’acqua, Kata, infervorata a causa dell’ennesima negligenza del neo marito, urla una verità:

“Se uno vuole una cosa, se la prende! Un modo si trova sempre. Tu invece non vuoi niente”.

È un vivere senza assetto il suo, dislocato dalla precarietà di una relazione a un impiego malcondotto. Egli è un passante, un uomo della folla, un fuori-classe in una società di reietti. È migrante da un luogo ad un altro, da un lavoro a un altro, da una donna all’altra ma non per volontà individuale bensì per apatica inedia. Insieme con lui, lo spettatore è trascinato da un interno a un esterno, prima in un pub, poi in un atelier, dissolto nell’avvicendarsi di situazioni irrelate che corrompono la linearità narrativa sin dagli albori dell’opera.
András si pone sempre come uditore passivo. Un saggio uomo gli narra le gesta di Haydn, di Goethe, di Napoleone; con impeto lo persuade a dedicarsi con fermezza alla musica: “Un artista vive per ciò che dipinge. Per ciò che crea”. Lui non assorbe nulla, come si diceva poc’anzi, il suo apparato relazionale è come irrigidito, imperniato su di un’impermeabilità paralizzante.

Il ritornare intermittente e sempre repentino ai brani musicali sembra suggerire con evidenza che l’unica direzione, non progressiva, che persegue András è insita nel rapporto che stringe con il suo violino. La vita del giovane smagrito è racchiusa tutta nell’accostarsi alla mentoniera del suo strumento. Tuttavia, la musica, come il vino, appare come asettico divertissement, congruo all’ebbrezza di un giorno festivo o come pallido e svalutante “sottofondo”. Il violino non è un progetto. La musica, come del resto i colori della pellicola, non vivificano il suo presente e non abbelliscono niente di ciò a cui, comunque, non si approda.
La scelta cromatica, al contrario, spregiando le singole sequenze, difende un procedere stanco e, per l’appunto, scolorito del pigro musicista. Béla Tarr esibisce, quasi impressionisticamente, l’ondivagare fiacco di un uomo-spettatore del mondo, il quale, proprio nella sua testualità, dà forma a un pensiero tuttavia fondamentale: la realtà quotidiana nel suo agire senza fine, non può essere né raccontata o narrata, né posseduta e conosciuta, ma solo vista. Considerando al di là della sgrammaticatura linguistica e virando al di qua dell’andamento naïf della pellicola, scorgiamo una struttura binaria pressoché costante per la totalità dell’opera. I tableaux sinfonici in cui la musica è regina dell’inquadratura senza alcuna origine o implicazione narrativa, entrano in compendio con lunghissimi monologhi-intervista in primo piano. E, a tal proposito, talora adocchiando il primo Jean-Luc Godard, le sequenze dialogiche fondano la propria durata sul loro essere come spiate. La macchina da presa sorveglia le bocche, gli occhi, i capelli, degli interlocutori. Ancora una volta, non v’è alcuna direzione di senso, il chiacchierare a circuito chiuso del violinista con la moglie, gli amici e altri sconosciuti profuma d’insipida irrilevanza narratologica.

In una conversazione di oltre dieci minuti tra il protagonista e la nuova consorte, osserviamo András rammentare il “grande incontro” con suo fratello all’età di dodici anni, per poi rievocare un concerto disastroso in cui non fece altro che sbagliare ogni nota e quindi il sogno di dare vita ad una band musicale. Senza nemmeno portare a termine un discorso compiuto, “Beethoven” ripensa agli anni di conservatorio, a suo padre e ai soldi che gli hanno rubato e infine confessa che, se avesse ancora quel denaro, lo sperpererebbe tutto per comprarsi un violino da poco, pagare l’affitto e ubriacarsi in birreria. Di colpo svela di avere un figlio e con ciò la scena s’invade di silenzio e sguardi indolenziti tra i due.
La conversazione attesta l’insignificante equipollenza degli avvenimenti della vita di András, o meglio, lo spessore che egli ne dà, denota la considerazione omogenea sia del ricordo d’infanzia (il concerto, il conservatorio) che di un evento-rottura come la nascita di un figlio. András si sposta dall’uno all’altro polo senza incagli, conscio che quello che gli accade non lo sconvolge e che perciò, è destinato a trascorrere.

“Il lavoro dei proletari, grazie all’espansione dell’uso delle macchine e della divisione del lavoro, ha perso, per l’antico lavoratore, ogni carattere autonomo e dunque ogni attrattiva. Egli diventa un semplice accessorio di una macchina, cui viene richiesto di compiere solamente una semplicissima operazione manuale, monotona e facilissima da imparare. I costi che comporta l’operaio si riducono perciò, quasi esclusivamente, ai mezzi di sostentamento, a ciò di cui abbisogna per il proprio mantenimento e per la riproduzione della specie”
(Marx, Engels, 2009).

Lo sfondo socio-storico delineato da Marx ed Engels nel Manifesto serve infine da volano riflessivo intorno a un discorso che la pellicola abbozza solo in parte. L’obnubilarsi della persona quando questa è schiacciata dalla fabbrica, costituisce il sostrato critico di una delle scene in cui lo spirito politico tarriano si fa più aggettante. Durante il pranzo che Andràs conduce alla mensa della raffineria, il parlottolare arruffato di un suo collega mostra che il luogo del lavoro, così come questo si configura nello spazio della fabbrica, è – solo – l’opprimente ambiente che si vuole rifuggire. Si lavora per soldi, per farsi una casa. Si è liberi e rilassati solo quando si mangia. “La sirena può suonare da un momento all’altro” si dicono i due. Gli uomini sono programmati, controllati, appesi al bottone di una macchina, inseriti in rigorosi segmenti produttivi, desiderosi e impazienti di vedere finire il proprio turno di lavoro, che qui assume tutto il valore di un travaglio automatizzante. Questa scena, tuttavia, non fa de L’outsider un film politico, perché non propaganda un’ideologia o non ne rovescia una opposta. Né un film sociale perché non si impianta su di un’analisi specifica delle condizioni del lavoratore dell’Ungheria socialista. Tarr è altresì interessato all’inseguimento descrittivo di un emarginato. Non vi sono mete. Non vi sono ragguagli tra il giusto e l’ingiusto, tra doveroso e volontario. C’è solo la vita di Andràs: un uomo che in virtù del suo esserci, è al di fuori di qualsiasi storia o narrazione. Fuori anche dal territorio del filmico, in cui sembra fuggire da ogni situazione come da ogni scena. Un individuo dentro e fuori la società, situato in un sopravvivere risolto in una perenne tensione abulica.

Solitudini e mutismi: Rapporti prefabbricati

“Prefabbricato (pre·fab·bri·cà·to) agg. ~ Di strutture o costruzioni risultanti dal complesso di più elementi preparati fuori opera ed eventualmente completati in sede di montaggio: solaio a travetti p.; case, scuole p.; come s.m., unità prefabbricata • fig. Elaborato o approntato in precedenza, in vista di uno scopo o di un risultato: si sospetta una sentenza p. [P. pass. di prefabbricare]
(Devoto, Oli, 2002).

La parola prefabbricato riguarda, innanzitutto e perlopiù, l’ambito edilizio. Un pre-fabbricato suppone un prius, un tempo antecedente nel quale il fabbricato è stato congegnato e portato a termine per l’assemblaggio con gli altri elementi. Pertanto, se relazionato a un’opera filmica, il titolo istituisce già una dimensione forzata, turata, inospitale. Come ha notato Jacques Rancière, il terzo film di Béla Tarr comincia là dove finiva Nido Familiare (cfr. Rancière, 2022). La questione della casa è risolta, la servitù ai genitori è stata espunta e c’è anche un lavoro a prima vista stabile. Judit è una casalinga esasperata dalla prigionia di madre sola nell’educazione dei figli e di donna disaffezionata. Robi fa l’operaio in una centrale elettrica. La famiglia c’è, ma è contusa. I due sposini seguono opposti movimenti comportamentali. Lui è barricato nell’ininterrotta volontà di evadere all’esterno, lontano da una moglie piangente e vicino al sollazzo alcolico; Lei è come rinserrata nella macerazione delle mura domestiche, tra il pranzo e la cena, pulire il pavimento e attendere il marito. Dentro un falansterio della periferia ungherese, la donna soffoca le proprie tristezze nella manciata di metri quadri che la confinano. In un dialogo a inizio film, Judit esplode tutto il suo soffrire. È sfinita, svuotata dalle naturali attenzioni che richiede un bambino e che di norma dovrebbero essere affrontate in coppia. Il coniuge, invece, vive come se non avesse alcuna responsabilità, ciondolando come un orso da una birreria all’altra, senza curarsi del nido che, nel frattempo, pericola.

Non si parla. Non v’è scambio di posizioni. L’accidiosa indifferenza di Robi alimenta i supplizi di Judit la quale, con l’avanzare delle non-risposte del marito, condanna sé stessa al completo disfacimento emotivo. A riproporsi con accentuata intensità simbolica è dunque l’iconografia della donna dolente. Il cineasta consacra ad attimi vivissimi di rara verità, squarci subitanei sul mondo femminile.
C’è una festa. Il fragore delle voci dei commensali crea un tappeto compatto di suoni, che rende impossibile distinguerne uno. Tutt’a un tratto, i sorrisi felici di una cerchia piccolo-borghese vengono catalizzati da una cantante che dice di voler dedicare il prossimo pezzo a un “vero uomo”. Comincia così la perlustrazione nella sala e un signore viene scelto tra gli invitati. Subito dopo il brano, la stanza si trasforma in un’euforica danza e la donna porta a sé diversi uomini per ballare con loro. Lungi dalla trivialità cassavetesiana e dal folklore spensierato, la scena accende un faro su quello che oramai è il tarriano problema dell’inettitudine maschile. Da questo ufficioso rito di iniziazione alla mascolinità, Robi, infatti, viene lasciato fuori. La gioiosa, quanto intuitiva cantante, coinvolge giovani e adulti e l’operaio presenzia con lo sguardo così avvinazzato da gridare sciocchezze.
D’altra parte, lo avevamo visto poco prima bambineggiare con gli amici in ufficio, rincorrendo un pallone mentre sedeva su una sedia girevole. La piccolezza dell’uomo-padre-marito si dà come ostacolo anche quando la sua vita sembra sull’orlo di riformarsi. In maniera inattesa, riceve una proposta di trasferimento in Romania: la paga raddoppierebbe ma dovrebbe partire da solo. Judit dissente in toto. Risuona in lei il sogno disperato di tenere unita la famiglia che tuttavia prende sempre più le forme di un cretto smembrato. Accettare significherebbe andarsene per due anni, trascurare i figli e moltiplicare il dolore della compagna. Robi rifiuta. Neppure il desiderio di una vita più agiata lo ha proteso fino in fondo. È noto che la rinunzia non scaturisca dall’amore ma dalla visibile indolenza che affolla le sue giornate. Tarr poi, spinge il tribunale relazionale ai suoi minimi termini, radicalizzando tale cedevolezza del maschio attraverso l’esibizione della sua impotenza sessuale. Avvinghiati in un abbraccio esanime, i due provano ad avere un amplesso ma la carne si fa schermo ricacciante e Robi crolla supino, inghiottendo l’ennesimo fallimento.
La solitudine della donna è totalizzante e la macchina da presa crudele: ancora una volta vicina al patire, disarciona ogni piacere. Sdraiato su d’una sedia senza alcuna grazia, mentre Robi farfuglia ubriaco una canzone d’amore del Giorno di Pentecoste (“Abbracciami dolcemente, tesoro mio, stringimi a te…/ Culla il mio cuore impazzito d’amore”), l’occhio di Tarr si posa sulle gote della moglie, a fermare il tempo della mancanza. Judit è dispersa nella condizione del senza, sciupata d’ogni sprone e spolpata d’ogni energia. E quando l’armonica accelera inarrestabile il ritmo, la musica stringe un accordo con l’alcol: il volto di Judit si fa statua e gli occhi impietriscono nel baluginio dei pensieri più ferenti.

A rivestire un’intrigante posizione di interesse è l’intelaiatura complessiva del film. Per riprendere un’immagine evocata prima, l’opera stessa è ingabbiata, compressa tra due pre-fabbricati appena diseguali. Principio ed epilogo mostrano Robi che, immotivatamente, fa le valigie per andarsene, angosciando in maniera assordante la moglie che, in un singhiozzo di parole frammiste a lacrime, chiede un perchè-non-dato. Le due sequenze sono tuttavia incongruenti, mutano alcune battute e movimenti di macchina, esito di una medesima scena montata in due take differenti. Pertanto, questa forbice narrativa, fa del film un’analisi retrospettiva sugli ultimi brandelli di un legame amoroso, ma stringendo via via le sue lame, constata l’avariarsi dei Rapporti sin dal loro debutto. La fine alberga nell’inizio: non ci si muove dal blocco. A insinuarsi tortuosa, è l’idea di una coazione a ripetere che nutre recriminazioni e ricatti emotivi, menefreghismo e incuria per il femminile e che, non da ultimo, rende paralitica la stessa architettura dell’opera.
Gli ultimi minuti della pellicola tuttavia, scompaginano la falsa circolarità dell’opera. Dopo il violento addio tra Robi e Judit, segue una scena singolare: i due acquistano una lavatrice. Non sappiamo cosa sia successo. Non ci sono date coordinate temporali. Vediamo l’uomo e la donna optare per uno degli ultimi elettrodomestici in commercio a ben 12.800 fiorini. E poi l’ultima immagine, destinata a rimanere immortale proprio perché espressione di un enigma: Robi, Judit e una Minimat 65 distesi sul cassone di un pick-up mentre sfilano nella periferia della città. Sinossi di una modernità mercificata, l’ultimo piano sequenza di Rapporti prefabbricati enuncia la menomazione degli affetti interumani. La lavatrice non parla. Come l’uomo e la donna affondati nel mutismo generale, l’inanimata umanità sembra appartenere più al bene acquistato che agli individui i quali appaiono deprivati di tutto, anche della possibilità di muoversi. La felicità è stata uccisa e seppellita nel ricordo. Indice di un germe sì endogeno agli esseri ma sgorgante per di più da un regime politico votato all’integrale annichilimento della persona. Pertanto, a ritornare con amara solerzia è il profilo di una società incupita in cui i cittadini non riescono a “distinguere un fumo da una nuvola” e l’unica meta veramente agognata, è quella della partenza.

* Questo articolo è l’esito di un lavoro di ricerca svolto all’interno del corso di “Storia e teoria dei media” tenuto da Antonio Rafele presso l’Università La Sapienza di Roma.

Letture
  • Giacomo Devoto, Gian Carlo Oli, Il dizionario della lingua italiana, Casa Editrice Felice Le Monnier, Firenze, 2002.
  • Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Giunti Editore, Firenze, 2009.
  • Giovanni Pascoli, Myricae, BUR Rizzoli Classici moderni, Milano, 2015.
  • Jacques Rancière, Béla Tarr. Il tempo del dopo, Bietti, Milano, 2022.
  • Dario Stefanoni, Nido familiare di Béla Tarr, Gli spietati, 2017.
Visioni
  • Béla Tarr, Nido familiare, Movies Inspired, 2017 (home video).
  • Béla Tarr, L’outsider, Movies Inspired, 2017 (home video).
  • Béla Tarr, Rapporti prefabbricati, Movies Inspired, 2017 (home video).