Nel 1969, un quartetto di giovani musicisti inglesi, gli Audience, generatosi da una precedente band, The Lloyd Alexander Real Estate, viene ingaggiato dall’etichetta discografica Polydor dopo essersi messo in bella mostra in diversi club londinesi. L’album eponimo che incidono e pubblicano quello stesso anno viene pressoché ignorato, ma i quattro continuano a riscuotere successo con le loro esibizioni dal vivo. Al Lyceum di Londra si esibiscono come spalla dei Led Zeppelin e si fanno notare da Tony Stratton-Smith della Charisma, label tra le capofila del sorgente progressive rock, che quello stesso anno arruola anche i Genesis e successivamente i Van der Graaf Generator. Di lì passeranno anche i Nice di Keith Emerson, prima della fondazione degli Emerson, Lake e Palmer, così come gli Steeleye Span, campioni del folk rock inglese. Stratton-Smith mise subito a segno un gran colpo grazie ai Rare Bird, autori di Sympathy, clamoroso successo da un milione di copie, che arrivò anche in Italia a sfiorare il primo posto in classifica e divenne L’umanità nella versione di Caterina Caselli. Oltre al sound, la label si caratterizzerà per il particolare logo nella seconda versione utilizzata a partire dal 1972 con un montaggio di personaggi da Alice in Wonderland e che riportava la sfacciata affermazione “The Famous Charisma Label”.
Tornando agli Audience, la loro parabola ascendente inizia, si è detto, proprio con la Charisma, dove avverrà anche loro fine. Infatti, in appena tre anni l’avventura si chiude dopo aver pubblicato tre dischi: Friend’s Friend’s Friend (1970), The House on the Hill (1971) e Lunch (1972). A ripescarli ci ha pensato la solerte Esoteric Records che scava da diversi anni nel passato della musica psichedelica (Brainticket, Hawkwind, United States of America e altri ancora), del progressive (Beggar’s Opera, Paladin, Premiata Forneria Marconi, Stomu Yamashta, per fare qualche nome) e del Canterbury rock (Egg, Gilgamesh, Khan, Matching Mole, National Health e così via) e altre terre all’epoca considerate di confine, a partire dalla pietra miliare Ear of Beholder di Lol Coxhill, ma anche i Procol Harum, i Tangerine Dream e i sopra citati Rare Bird. Gli album degli Audience sono stati oggetto delle consuete cure amorevoli: accurata rimasterizzazione, doviziose note critiche e dove possibile una manciata di bonus di interesse altalenante.
La prima versione della band
Ai tempi del primo album, gli Audience erano: Howard Werth (chitarra e voce), Keith Gemmell (sax tenore, clarinetto e flauto), Trevor Williams (basso e voce), Tony Connor (batteria, percussioni e vibrafono). Tre quarti della formazione arrivava dall’oscura, già citata, Lloyd Alexander Real Estate con l’esclusione del batterista, e la formazione resterà invariata nei due dischi successivi. Sin dal primo disco gli Audience mettono in vetrina il meglio di sé, la voce potente, talvolta epica di Werth, invaghito di black music, le doti inventive di Gemmel ai fiati, le influenze jazz e folk, la discreta ed efficace sezione ritmica. Emerge anche il loro eclettismo, lo stesso che trionferà, affondandoli, nell’ultimo capitolo della vicenda, Lunch. Una spia è costituita dal nome che la band si era data. Avventurandoci nella singolare tassonomia che concerne i nomi dei gruppi rock e prima ancora beat, gli Audience si possono classificare, con il senno di poi, tra quelli che dichiaravano la loro meta nel nome, così come altri alludevano allo spirito che li caratterizzava (Animals, Troggs, cioè tutti grossomodo ragazzi selvaggi); diversamente, alcuni andavano per le spicce, affidandosi al cognome del fondatore del gruppo o del band leader (Santana, Patto, per esempio), mentre altri si rivolgevano a un buon manuale di zoologia (Turtles, Scorpions), oppure al citazionismo (Blood, Sweat & Tears, Soft Machine), alla sigla d’effetto (basti pensare agli psichedelici Peanut Butter Conspiracy), ma anche all’incomprensibile, come proprio uno dei maggiori gruppi del progressive, gli Yes.
Gli Audience con il loro nome paiono suggerire che fossero principalmente a caccia di pubblico. Non si pensi a musiche di facile presa, soltanto che la compresenza di vari generi non sempre è andata al di là di una sequenza di brani con diverso taglio, senza effettiva sintesi; quando la miscela è stata equilibrata, infatti, la musica che ne è scaturita conserva tuttora forza e bellezza. Alcuni preziosi sono già nello scrigno del primo album, a iniziare da Leave It Issued, dove il progressive è in nuce, con un bell’alternarsi di sognanti passaggi folk, di invenzioni al clarinetto di Gemmell e la voce incalzante di Werth che sovrasta i crescendo. Si paga pegno anche alla brevità dei brani (in media tre minuti), ma la stoffa c’è e si sente anche nel taglio rock di Heaven Was an Island. In chiusura di disco venne collocata la cosa migliore: House on the Hill. È una versione molto più concisa di quella che apparirà sul disco del 1971, ma la ballad anche in questa forma esprime appieno tutta l’energia del gruppo, alimentata dai riff potenti e fiammeggianti dei fiati di Gemmell e dalla voce drammatica e dolce al tempo stesso di Werth.
L’ingresso nella Charisma
L’anno successivo, si è anticipato, gli Audience entrano a far parte della scuderia Charisma e incidono Friend’s Friend’s Friend, che uscirà nel maggio del 1970. L’ingresso nella nuova casa discografica coincide con l’uscita di scena del produttore Shel Calmy che ritiene poco commerciali le nuove scelte del gruppo. Poco importa agli Audience, che si autoproducono il disco e finanche la copertina, di taglio decisamente psichedelico (Werth aveva disegnato nei Sixties diverse copertine, anche per i Kinks). La svolta si sente: i brani sono di durata maggiore, le trame si infittiscono, le suggestioni folk e l’attrazione verso il jazz concorrono alla costruzione di un discorso più omogeneo all’insegna della sperimentazione. Anche i testi si lasciano catturare dall’imperante fiabesco che ispira tutto il progressive rock, ma aleggia un che di tenebroso. Sintesi di tutto è Raid, quasi nove minuti in buona parte strumentali, una cavalcata che trascina con sé tutto il bagaglio d’esperienza e tutte le suggestioni musicali della band. Impazza il sax ormai free di Gemmell che ricorre a echi e sovraincisioni fino a raggiungere un climax parossistico mai più ricreato dalla band. Tra le altre cose migliori ci sono anche l’iniziale Nothing You Do e It Brings A Tear, la prima chiusa da un felice inserimento del flauto di Gemmel, quasi un omaggio al maestro Roland Kirk, e l’altra che vede invece il flauto solista in un’apertura di tono decisamente più pastorale. Notevoli entrambe le prove vocali di Werth intense, robuste e sempre caratterizzate da un tono drammatico, il cui timbro ricorda a tratti quello di Van Morrison. Flauto e sax si avvicendano da protagonisti anche in Priestess, storia di un’assassina che Werth narra con adeguata drammaticità. Anche in Friend’s Friend’s Friend fanno capolino brani che testimoniano l’irrisolta questione della direzione da intraprendere. Un brano come Ebony Variations assai leggero, quasi un ballabile da festa di campagna, è eloquente in tal senso.
Gli Audience però convincono, vanno anche in tournée negli Usa con i Faces, la band da dove spiccherà il volo la futura rockstar Rod Stewart; si ritrovano anche a far da spalla ai Pink Floyd e ai Genesis: il successo sembra ormai a un passo. È il 1971, i quattro ritrovano un produttore, Gus Dudgeon, che vanta in curriculum, tra gli altri, John Mayall ed Elton John. Il grande pubblico sembra a portata di mano. L’album che realizzano, The House on the Hill, fa sfoggio di una copertina di rara bellezza, opera dello studio Hipgnosis (e di Werth), che ha già lavorato e continuerà a farlo per i Pink Floyd (una su tutte: quella delle mucche di Atom Heart Mother). È la foto di un interno di una dimora di lusso. Sulla destra, in piedi, un uomo, giovane, in elegante doppiopetto, cappello nella mano destra e sguardo fisso, anch’esso alla sua destra. Al centro c’è un grande camino spento. A sinistra, tacchi alti, sigaretta accesa nella mano sinistra, seduta in poltrona c’è una giovane donna bionda che guarda nella medesima direzione. L’edizione originale in vinile in formato gatefold (apribile) svelava la scena osservata dai due: un anziano signore, si direbbe un maggiordomo, che trascina il cadavere di un uomo verso una rampa di scale. Il cadavere è reso ancor più inquietante dalla somiglianza sospetta con Hugh Hopper, all’epoca bassista dei Soft Machine. Si direbbero fotogrammi di una pellicola hitchcockiana, mentre il testo del brano eponimo narra di tale Re Topo che dimora in una misteriosa casa sulla collina, cingendosi il capo con un cappello da giudice. Di notte si trasforma in una fanciulla che, quando nevica, divora chi cerca rifugio nella casa. I testi sono sempre abitati dalla presenza del Male, compresi quelli dei brani presenti nei dischi precedenti e l’assenza di tastiere: ecco che cosa personalizzava la proposta musicale degli Audience rispetto al resto della scena progressive.
L’apertura del disco è stupefacente, Jackdaw, con un riff implacabile di sax ad accompagnare la voce tormentata di Werth, un leggiadro interludio di flauto che precede i suoni distorti della chitarra elettrica mai finora così in primo piano, un clarinetto che lambisce la free improvvisation, sezione ritmica esuberante e precisa. La successiva You’re Not Smiling è una leggiadra canzone d’amore, intensa e sofferta. Ancor più lo è I Have a Dream, davvero cantata con il cuore. Il primo lato originale del disco chiudeva con Raviolé, danza per chitarra acustica e archi (della London Synphony Orchestra), piccolo saggio di perizia tecnica da parte di Werth. Bizzarro eppur riuscito incrocio tra raga e folk elisabettiano.
Si è detto di Van Morrison, e il brano che apriva la seconda facciata, Nancy, non sfigurerebbe affatto nel repertorio dell’irlandese, con Werth davvero affine per timbro e con un pizzico e più di grinta. Il flauto di Gemmell è il protagonista invece della successiva Eye to Eye, dotata di un tema piuttosto ossessivo e atmosfera da soul jazz Ancora più black è la sorprendente cover di I Put Spell on You, lo spiritato brano di Screamin’ Jay Hawkins (1956); tutti in gran spolvero per rendere omaggio a un pilastro della musica popolare nera e all’amore che per essa nutrivano gli stessi Audience. Il gran finale venne affidato al brano comparso nel primo disco della band e che diede anche il titolo al nuovo ellepì: The House on the Hill. Durata doppia, per dare spazio alla fantastica performance di Gemmell, una prova maiuscola sia al sassofono tenore sia al flauto. Ancora una volta la fiaba nera del Re Topo rende giustizia alla capacità della band di miscelare le radici folk e blues della band con le sonorità più squisitamente progressive (indubbia la parentela del sound spaziale dei fiati di Gemmell con quello del sassofonista David Jackson dei Van der Graaf Generator).
La ristampa Esoteric è in questo caso davvero povera di aggiunte, integrando l’album con la versione pubblicata come 45 giri di You’re Not Smiling e il suo retro, Indian Summer, oltre a una versione radiofonica dello stesso brano della side A. Va annotato a margine che Indian Summer riscosse un certo successo nel mercato statunitense al punto che la casa discografica Elektra, che distribuiva i dischi della Charisma in Usa, la infilò in apertura di disco, eliminando dalla scaletta Eye To Eye. Misfatti discografici a parte, House on the Hill è il vertice della band, che subito dopo perse Gemmell, contrario alle scelte musicali che si stavano intraprendendo. Se ne andò più o meno a metà della registrazione di Lunch nel febbraio del 1972, che vedeva in studio al pianoforte Nick Judd. A completare i lavori vengono chiamati Jim Price (tromba e trombone) e Bobby Keys (sassofono tenore, clarinetto e flauto). L’album è un patchwork che evidenzia in negativo la storica eccletticità del gruppo e si caratterizza per scelte davvero inconsuete per l’epoca. I brani tornano alla misura quarantacinque giri, tre minuti circa, i temi si semplificano, mentre i campioni del progressive allestiscono suite anche mastodontiche, dai Van der Graaf Generator agli Yes, dagli Emerson, Lake & Palmer ai Gentle Giant; le loro composizioni diventano complesse, intricate, riducendo la distanza dalla cosiddetta musica colta, mentre gli Audience, forse sempre alla caccia del successo e di un’ampia audience, puntano sulla melodia facile, passando in rassegna i generi.
Qualcosa si salva ancora, in particolare l’iniziale Stand By The Door, altra ballata vigorosa, uno dei brani ancora con Gemmell dove c’è tutto l’amore mai spentosi per il soul. Poi tutto va in frammenti. Werth viene contattato dai restanti Doors per sostituire lo scomparso Jim Morrison, ma l’operazione si concluderà in un nulla di fatto. Lui appronta una sua band, i Moonbeans e registrerà qualche disco, nessuno fondamentale. Gemmell si perde in gruppi minori come i Sammy e gli Stackridge e poi a suonare per colonne sonore. Williams farà il sessionman e il batterista Connor finirà negli Hot Chocolate del giamaicano Errol Brown, autori all’epoca di una versione reggae di Give Peace A Chance di John Lennon che fruttò un contratto con la Apple, l’etichetta dei Fab Four. Infine, complice la retromania, ecco una reunion nel 2005 con concerti e la registrazione di un live. Tutto dimenticabile, la piccola grande storia degli Audience è quella di una breve stagione collocata tra due dischi, prima che il Re Topo ne divorasse la creatività.
- Audience, Audience, Esoteric Records, 2015.
- Audience, Friend’s Friend’s Friend, Esoteric Records, 2015.
- Audience, Lunch, Esoteric Records, 2015.