L’angelo della storia
in Kiefer, Wenders e Vasulka

L’acquerello Angelus Novus
(a sinistra) dipinto da Paul Klee
nel 1920 e presente
nella IX tesi
Sul concetto di storia
di Walter Benjamin (a destra).

L’acquerello Angelus Novus
(a sinistra) dipinto da Paul Klee
nel 1920 e presente
nella IX tesi
Sul concetto di storia
di Walter Benjamin (a destra).


* Le luci del firmamento passato raggiungono ogni sera notti contemporanee allo sguardo: la distanza dalle stelle è tale che le loro onde impiegano anni ad arrivare. Ciò che può insegnare quest’immagine, oltre all’assoluta certezza che la contemporaneità è resa impossibile dal limite invalicabile della luce, è che “passato” e “presente” sono concetti relativi. Quel che è stato può riemergere nel presente così come il presente nel futuro. Le “costellazioni” che possono crearsi nell’«adesso» per Walter Benjamin sono in effetti interferenze discontinue che si ricreano in modo analogo attraverso la fulminea congiunzione tra un momento presente e uno passato. Quell’istante che balena, la Jetztzeit (dal tedesco Jetz, “ora”, e Zeit, “tempo” o “epoca”), in cui epoche diverse si congiungono, scatena una forza redentiva al ritroso. Questo “tempo-ora”, o “adesso”, riapre un varco in una concezione del tempo che non è lineare e cronologica (da chrónos, un continuum quantitativo lineare e omogeneo), ma kairologica (da kairós, dal momento decisivo, critico, di natura qualitativa) e messianica (che contiene in sé la possibilità di redenzione) (Gurisatti, 2018). Siamo in qualche modo promessi alle generazioni passate, e il passato carica così il presente di attese nella speranza di redimere i suoi oppressi.

Elementi di affinità
Esistono alcune opere che si fanno carico di queste promesse. L’intero lavoro di Anselm Kiefer (in Italia notissimo per I Sette Palazzi Celesti, esposti alla Fondazione HangarBicocca di Milano), Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders e Art of Memory (1987) del videoartista Woody Vasulka rispondono all’appello che Marramao definisce “l’ineludibile responsabilità di ogni generazione presente” (Marramao, 2018). Il film documentario Anselm (2024) di Wenders, dedicato proprio a Kiefer, ha recentemente gettato nuova luce sulle connessioni interne a questo percorso. Oltre alle origini tedesche e l’anno di nascita (1945), Wenders condivide con Kiefer un certo sguardo sulla storia. L’immagine scandalosa delle Occupazioni kieferiane ne racchiude il nucleo principale, come molti inizi in cui il processo è ancora esplicito. Un giovane Kiefer posa davanti a una serie di luoghi dal forte significato politico: è in piedi, il braccio destro teso e la mano serrata in un saluto nazista. Mentre la Germania sembrava dimenticare le sue colpe, Kiefer le faceva riemergere dall’oblio. Le fotografie delle Occupazioni confluiranno poi in un libro di venti pagine dal titolo Heroische Sinnbilder (Simboli eroici, 1969). Wenders utilizza queste immagini per addentrarsi nel mondo di Kiefer: è l’azione artistica che più di tutte svela l’elaborazione del passato storico e di un’identità collettiva traumatica. Il rapporto con il passato avvicina Kiefer anche con gli altri artisti e mette in evidenza l’influenza di Walter Benjamin che li accomuna.

Le tesi Sul concetto di storia (Benjamin, 2012a) racchiudono la complessità del pensiero benjaminiano sul tema nella convivenza di una tripla prospettiva gnoseologica, politica e teologica (cfr. Gurisatti, 2018). Le tre prospettive vanno di pari passo e si completano a vicenda: nessuna può essere scissa dall’altra senza far cadere l’intero sistema. Occorre precisare subito che per Benjamin la Storia non presenta una serie di dati oggettivi, anzi, vi soggiace in realtà una forma di violenza latente dei vincitori sui vinti (tesi VII). In altri termini, essa può essere modellata fino a divenire “strumento della classe dominante” (tesi VI), nel caso di Benjamin il nazifascismo. Lo “storico materialista” deve perciò cogliere le particolari congiunzioni nell’«adesso» (tesi XVIII) per arrestare la successione lineare di passato-presente-futuro e permettere “una chance rivoluzionaria nella lotta del passato oppresso” (tesi XVII). La contingenza istantanea che balena nella Jetztzeit sorge in una situazione di emergenza, in realtà persistente, che è lo “stato d’eccezione”, una definizione che Benjamin riprende dalla Teologia politica (1922) di Carl Schmitt ridefinendone il significato (cfr. Gentili, 2019). Lo stato d’eccezione è quello spiraglio che va colto per agire: uno spazio sospeso in cui si può provocare la salvezza o attenderla fino all’annientamento (ibidem). Ma per Benjamin il materialismo storico può adempiere a questo suo compito solo attingendo alle energie della teologia (tesi I). Questa si incarna nel “nichilismo messianico”: un concetto ripreso dalla cabala e basato sull’unità di opposti quali “distruzione” e “redenzione”, catastrofe e salvezza. Ogni attimo porta con sé la propria chance rivoluzionaria, allo stesso modo in cui nella temporalità teologico-messianica di matrice ebraica ogni secondo può essere la porta attraverso cui può arrivare il Messia (tesi XVIII).

Anselm Kiefer.

Un testo preparativo alle tesi svela un altro aspetto interessante. Secondo il filosofo tedesco, questo ridestarsi del passato passerebbe attraverso la “rammemorazione involontaria, un’immagine che s’impone improvvisamente al soggetto della storia nell’attimo del pericolo” (Marchesoni, 2018). Il concetto di rammemorazione involontaria viene elaborato da Benjamin facendo interagire quello di “memoria involontaria” proustiana, che aveva incontrato nel saggio Per un ritratto di Proust (1929) e quello di rammemorazione (Eingedenken), ripreso dallo Spirito dell’utopia (1918) di Ernst Bloch (ibidem). Questa rammemorazione è quindi essenziale in Benjamin, ma apre anche ad una riflessione molto stimolante sul rapporto tra passato e memoria. Questo non vuol dire che il passato sia semplicemente qualcosa da ricordare o da conoscere a fondo; esso è piuttosto lo spazio imprescindibile attraverso cui relazionarsi con la verità (Gentili, 2019). Allo stesso tempo, la memoria in Benjamin non è solo uno strumento per riferire eventi passati ma un vero e proprio “medium di ciò che si è esperito”, ossia ciò che rende davvero possibile “la ricognizione del passato” (Benjamin, 2012b).

L’angelo di piombo
Alla Galerie Paul Maenz di Colonia viene esposta una grande struttura in metallo. È un aeroplano in piombo lungo cinque metri. Sei libri, anch’essi in piombo, sono posti su ciascuna ala e un tredicesimo sullo stabilizzatore posteriore. Tra le pagine dei libri spuntano semi secchi di papavero che a prima vista sembrano sterpaglie gialle e morte. È la fine del 1989 e l’opera si chiama Der Engel der Geschichte (Mohn und Gedächtnis), ossia L’angelo della storia (papavero e memoria).

L’opera Der Engel der Geschichte (Mohn und Gedächtnis), ovveo L’angelo della storia (papavero e memoria) di Anselm Kiefer.

“L’angelo della storia” è la celebre figura ispirata all’acquerello Angelus Novus (1920) di Paul Klee e presente nella nona tesi Sul concetto di storia. Essa ha una posizione centrale nel testo ed è una descrizione allegorico-visiva del sistema di pensiero benjaminiano. L’angelo guarda il passato, un passato doloroso, fatto di rovine, e vorrebbe trattenersi per ridestarne i morti e ricomporne i frammenti. Ma una bufera (il Progresso) spira nelle sue ali e lo spinge inarrestabilmente verso il futuro. Il momento descritto è dunque quello dell’istante “della decisione presente in cui sono concentrati passato e futuro. Il non decidere comporta l’essere travolti dalla bufera del progresso” (Gentili, 2019). Benjamin riprende la figura dell’angelo direttamente dalla cabala, come racconta in un saggio reso noto per la prima volta da Gershom Scholem:

“La qabbalah racconta che Dio crea ad ogni istante un numero sterminato di nuovi angeli, ciascuno dei quali è destinato soltanto a cantare per un attimo le sue lodi davanti al suo trono, prima di dissolversi nel nulla. L’Angelo Nuovo si palesò per tale prima di volersi nominare”
(Benjamin, 2012c).

Nell’interpretazione di Scholem, l’Angelus Novus è di questa stessa fattura. Come allude anche Benjamin, l’angelo “si palesò per tale”, ossia uguale agli altri. Egli vive in un istante (la Jetztzeit) e la sua bocca aperta sembra in procinto di cantare (la verità della storia), proprio come la schiera degli angeli nella cabala canta per un solo attimo le lodi di Dio. L’angelo di Kiefer è però un aereo di piombo. Se potesse volare, non canterebbe altro che distruzione e morte. Dal dialogo tra i due “angeli” emerge tutta l’attitudine benjaminiana di Kiefer nel ricomporre una memoria, quella tedesca, troppo scomoda da ricordare. Il suo obiettivo è sempre “rimuovere la rimozione” (Marramao, 2018): riportare alla luce quel passato segregato che secondo Ernst Nolte si doveva invece “consegnare alla storia”, ossia abbandonare all’oblio del suo scorrere (Prosperi, 2021). Ma l’angelo kieferiano non sembra lasciare spazio alla stessa redenzione dell’immagine benjaminiana: a primo impatto appare solo un monito sull’eredità della Germania. E così sarebbe se l’arma bellica dell’aereo non avesse come contrappunto il rimando alla poesia di Paul Celan.
In Celan, lo sterminio nazista è il trauma più doloroso.

L’atelier La Ribaute a Barjac uno degli spazi di lavoro di Anselm Kiefer (dal docufilm Anselm (2024) di Wim Wenders.

Nella sua prima raccolta, Papaveri e memoria (1952), ripresa dal titolo di Kiefer, lo sguardo al passato (la memoria) è opposto a quello al futuro (il papavero, fiore dell’oppio). Dalla loro convivenza quasi inconciliabile può nascere nuova vita. L’unico modo perché questo avvenga è far entrare nel presente le ombre (Schatten) del passato, in chiara analogia con il pensiero di Benjamin. Allo stesso modo, i semi di papavero in Kiefer rappresentano il futuro, l’oppio che lascia il ricordo al suo scorrere. I libri in piombo, invece, la memoria, un passato da ricordare che pesa come un macigno. La loro compresenza sulle ali dell’aereo riattiva quella contemporaneità salvifica tra passato e futuro. La sua arte assume spesso la forma del libro. Oltre ai libri-piombo di Der Engel der Geschichte, Anselm ne mostra molti altri impilati su grosse librerie metalliche: sono pezzi pesantissimi, impossibili da sfogliare e maneggiare. La loro stessa forma li carica di significato. Per l’alchimia antica il piombo è il metallo più impuro, quello più lontano, fisicamente e spiritualmente, dalla trasmutazione in oro. Veniva inoltre associato a Saturno, sotto la cui influenza Benjamin ricordava di essere nato:

“l’astro della rivoluzione lentissima, il pianeta delle diversioni e dei ritardi”
(Benjamin, 2012a).

In una scena eloquente dello stesso film, Kiefer fa colare del piombo fuso su un’opera con l’aiuto di una ruspa. L’operaio che la guida gli chiede se non è il caso di abbassare l’altezza del braccio meccanico per evitare che il piombo schizzi ovunque, ma Kiefer risponde: “No, è proprio quello che voglio”. Come riflette Fabrizio Desideri:

“Solo in prossimità della temperatura di fusione il piombo diviene lucido: riflette la luce. È lo stato che viene chiamato «fioritura del piombo». Di questa fioritura ogni opera di Kiefer pare in attesa come della promessa della sua alchemica trasformazione in oro”
(Desideri, 2016).

Questa dimensione pesante e materica, che pare attendere un qualche tipo di redenzione, è conferita alla sua intera opera anche dagli altri elementi che la compongono: terra, sassi e cocci, vesti di ogni tipo, innumerevoli sterpaglie. In un’altra scena del film, le manda a fuoco per farne fiamme e fumo: il passaggio di stato è l’unica, vera trasmutazione verso il cielo fisicamente possibile.
Ma è nel mostrare gli atelier di Walldürn-Hornbach, Buchen, Höpfingen e soprattutto Barjac che Anselm disvela la vera forza del lavoro di Kiefer. Lo spazio a Barjac è denominato La Ribaute, un vecchio setificio ora rimpiazzato da padiglioni e hangar che sorgono su una collina a tre chilometri dalla città. Kiefer attraversa il podere su una bici, passando tra edifici pieni di enormi installazioni di ispirazione a volte epica e letteraria, altre autobiografica e privata. Ma è l’impatto generico del luogo a colpire. Tra calcinacci e detriti, La Ribaute ha la forma del bombardamento, delle stesse rovine a cui guarda l’angelo della storia benjaminiano. La rovina è quel luogo “distrutto”, cioè de-strutturato, che è quindi riconfigurabile. La forza salvifica che attraversa le rovine passa proprio per questo concetto. Non si può, tuttavia, ripartire da zero. Nel farsi carico delle macerie di quel passato, Kiefer si misura di continuo con le cicatrici europee e tedesche più profonde, dando voce alla loro rimozione.

L’angelo caduto
Accanto al Muro, Homer (Curt Bois) passeggia seguito da Cassiel (Otto Sander). “Non riesco a trovare la Potsdamer Platz – dice l’anziano, poi rinsavisce ed accelera il passo – No, credo sia qui”. Quello spiazzale brullo e vuoto è ciò che ne resta. Eppure, Homer ricordava “il Caffè Josty” e la tabaccheria Loeser&Wolff, un’azienda ebrea fino al 1937, la gente per strada. “Allora, non può essere qui la Potsdamer Platz”, conclude. La macchina da presa fa una panoramica verso destra e segue i due da dietro con un carrello in avanti. Il ricordo del vecchio riemerge in immagini di repertorio girate dagli americani nel 1945: solo scheletri dei palazzi che un tempo erano lì. Tra i Venti ed i primi Trenta, Potsdamer Platz non era solo il centro di Berlino e della Repubblica di Weimar, ma di tutta Europa. Uno snodo commerciale e culturale che di lì a poco avrebbe vissuto la dittatura nazista. “Poi, all’improvviso, là, sventolarono delle bandiere. L’intera piazza ne era piena, e la gente non era più gentile”, afferma Homer. I bombardamenti Alleati, come lui stesso ricorda, l’avrebbero poi ridotta in rovine. Nessun posto rappresenta il passato più di Potsdamer Platz, soprattutto nello stato in cui si trova in Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987): uno spiazzale raso al suolo per far spazio al Muro che divideva due mondi opposti. Da centro nevralgico a zona di confine. Ma è tutta la città di Berlino ad essere luogo della memoria. Da ogni suo angolo può riemergere il ricordo. Il riferimento a Benjamin è esplicito verso inizio film. Una donna riflette nella Biblioteca di Stato: “Nel 1921 Walter Benjamin comprò l’acquerello di Paul Klee intitolato l’Angelus Novus”.

Qui e sotto immagini da Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders.

La Storia riemerge da Berlino attraverso i suoi edifici ed i suoi abitanti e sono sempre gli angeli ad esserne un tramite, come un medium che permette la loro rammemorazione. Accade in Potsdamer Platz, ma anche con la Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche su cui poggia Damiel (Bruno Ganz) nella settima inquadratura, gravemente danneggiata in un bombardamento del 1943 e mai ricostruita. Così come con l’imponente Statua della Vittoria, la cui figura angelica doppia più volte quella dei due protagonisti. La colonna che la sorregge è una stratificazione di epoche diverse: realizzata per commemorare le tre guerre che diedero origine al Secondo Reich tedesco, venne poi implementata di un quarto blocco nel 1941 per celebrare la vittoria nella campagna di Francia. Damiel non ne attiva il ricordo, ma la sua presenza sul campanile è il tramite attraverso cui la sua immagine si mostra. Infine, la Biblioteca di Stato, archivio della memoria per eccellenza, sembra legata a doppio filo con gli angeli che l’abitano.
Diverso è il discorso per gli abitanti di Berlino, per cui la rammemoriazione non è implicita, ma esplicita: Damiel e Cassiel ne leggono i pensieri e visualizzano i ricordi. Oltre al flashback di Potsdamer Platz, materiali d’archivio riemergono in altre tre circostanze: sempre da Homer (nomen omen, cantore depositario della memoria collettiva), sfogliando un libro illustrato ancora nella Biblioteca di Stato, da un tassista, due volte da dietro i vetri della sua auto, e da una signora che fa la comparsa in un film sulla Germania nazista. Sono tutte immagini postbelliche, di macerie e morte. Il primo è forse il più rilevante. Homer sfoglia Uomini del ventesimo secolo, di August Sander, e dal confronto con le fotografie torna indietro alle immagini terribili di morti infantili. Le immagini (Bild) hanno funzione essenziale in Benjamin, perché possono garantire al passato la comprensione adatta a collocarlo nel presente. Qualcosa che “apparenta strettamente l’immagine dialettica alla rammemorazione”, generando “una vera e propria contrazione del passato nell’attimo della conoscibilità” (Marchesoni, 2018).

L’immagine per Benjamin è “dialettica” perché in essa convivono elementi opposti con tensione così forte da arrestare il pensiero, in un momento quindi immobile. Non c’è, in altri termini, un passaggio progressivo e lineare nel tempo come nella dialettica hegeliana. Anzi, essa emerge proprio nella sua interruzione. Tuttavia, nonostante il concetto di “immagine” in Benjamin non sembri rinviare primariamente “all’ambito della visione, né a quello della rappresentazione, bensì alla sfera propriamente linguistica” (ibidem), è Giorgio Agamben a individuare il passo benjaminiano più esplicativo:

“«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o che il presente getti la sua luce sul passato; l’immagine è piuttosto ciò in cui il passato viene a convergere col presente in una costellazione. Mentre la relazione dell’allora con l’ora è puramente temporale (continua), la relazione del passato col presente è dialettica, a salti». Bild è dunque, per Benjamin, tutto ciò (oggetto, opera d’arte, testo, ricordo o documento) in cui un istante del passato e un istante del presente si uniscono in una costellazione, in cui il presente deve sapersi riconoscere significato nel passato e questo trova nel presente il suo senso e il suo compimento”
(Agamben, 2018).

Questa sensazione è in qualche modo confermata da un’altra circostanza simile nel sequel Così lontano, così vicino (In weiter Ferne, so nah!, 1993). Cassiel, ora divenuto uomo, si imbatte in un dipinto di Max Beckmann intitolato Morte, ma che Wenders chiama L’angelo caduto. Attraverso l’incontro con l’opera, Cassiel torna angelo per un istante, catapultato in una percezione diversa del tempo. Per un attimo è nel passato, nel 1937, alla mostra nazista sull’arte degenerata in cui il dipinto era stato esposto.
Il tema dell’angelo caduto è anche parte del nucleo narrativo de Il cielo sopra Berlino, oltre ad essere centrale nell’ultima mostra di Anselm Kiefer a Firenze (Angeli caduti). La grande opera Engelssturz (Caduta dell’angelo), posta nel cortile rinascimentale di Palazzo Strozzi, accoglieva i visitatori con un soggetto tratto dal libro dell’Apocalisse:

“Michele si staglia sul fondo dorato, simbolo del mondo metafisico, mentre gli angeli [ribelli] precipitano nella zona scura del dipinto, il mondo terreno”.

L’opera Engelssturz (Caduta dell’angelo) di Anselm Kiefer esposta a Palazzo Strozzi (Firenze).

Al Piano Nobile, il dipinto Luzifer (Lucifero) raffigura l’angelo ribelle per eccellenza che precipita nell’abisso. La sua ala è quella di un aereo in piombo che esce dal muro e sporge minacciosa verso la sala. Ma cadere può voler dire anche addentrarsi più a fondo nelle cose. Il cielo sopra Berlino vive di questa dicotomia tra percezione sospesa degli angeli (il bianco e nero) e quella fisica degli uomini (il colore). Cadere nel mondo può voler dire riuscire a coglierne l’essenza, quell’“ora”, “Jetz”, che Damiel invoca a inizio film. Nel compiere questo passaggio, Damiel deve rinunciare alla sua esistenza eterna ed onnisciente ma incompleta, in cambio di una piena ma mortale. Deve, in altri termini, cedere a quel “desiderio” a cui faceva riferimento la prima versione del titolo, poi rimasta nella traduzione inglese Wings of Desire. Come se l’angelo potesse vedere il passato e le rovine senza potervi incidere. Ed è, in effetti, proprio quanto avviene nel celebre passo di Benjamin sull’Angelus Novus.

Il dipinto Luzifer di Anselm Kiefer esposto a Palazzo Strozzi (Firenze).

L’unico modo per avvicinarvisi, per passare da osservatori ad attori – in un’interpretazione di certo molto letterale – è liberarsi di quelle stesse ali in cui il vento del progresso s’impiglia e che impediscono l’arresto. Fuor di metafora, bisogna scegliere l’azione. Damiel così decide, coglie l’adesso e compie quel “balzo di tigre nel passato”. Non a caso, il passaggio avviene proprio nello spazio interno al Muro, in quella zona di confine che è anche soglia. Ma questa “caduta” potrà avere senso solo a patto di mantenere lo stesso sguardo sospeso dell’infanzia, a cui l’angelo è accomunato per tutto il film. Oltre alle Elegie duinesi di Rilke, che rivelano qui la loro grande influenza letteraria sui testi poetici di Peter Handke, anche Benjamin ha dedicato numerose riflessioni sul tema. In Infanzia berlinese intorno al millenovecento, il filosofo racconta memorie che rivelano in realtà alcuni angoli profetici, motivi fondamentali del suo pensiero. Come nota Maria Felicia Schepis,

“l’infanzia, osserva, lascia tracce nel ricordo in forma di figure; figure che a un tratto rivelano quanto credevamo di conoscere come qualcosa che deve ancora essere scoperto”
(Schepis, 2013).

Nell’incontro tra questo sguardo infantile e il desiderio di Damiel, può essere possibile infrangere il tempo e sfuggire al vento del Progresso.

L’angelo della Storia
I bambini hanno un rapporto molto particolare con il gioco. Il termine con cui Benjamin lo descrive meglio è “imitazione”, che avviene non a seconda del giocattolo, ma del gioco stesso. Vale a dire che il giocattolo non incide in effetti sul divertimento, anzi, più esso è attraente ed esplicito nelle sue funzioni, meno il bambino riesce davvero a giocare e a liberare la sua fantasia creatrice. Al contrario, il gioco del bambino “si alimenta di materiali informali, di scarti residuali, che vengono salvati dalla distruzione e dall’oblio e risignificati” (Pinotti, 2018). A Donaueschingen, nel Secondo dopoguerra tedesco, il giovane Anselm gioca tra le rovine. Sono detriti della sua casa distrutta dai bombardamenti la notte in cui è nato. Con quei mattoni costruisce case, anche di diversi piani, sotto cui si ripara (Amadasi, 2022). Negli stessi anni, nella Brno cecoslovacca, Woody vive vicino ad un aeroporto militare ormai ridotto a discarica. Si diverte a smontare e rimontare le armi che trova sui caccia tedeschi (Bellour, 2010).
Se è vero che le macerie accomunano l’infanzia di quasi tutti i bambini europei nati durante la guerra, è forse più curioso che due opere realizzate da due di quei bambini e ispirate all’angelo della storia di Benjamin abbiano lo stesso anno d’uscita. Nel 1987, Woody Vasulka completa Art of Memory, lo stesso periodo in cui le sale proiettano Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders.

Qui e sotto immagini da Art of Memory (1987) di Woody Vasulka.

Art of Memory è forse l’opera più matura e narrativa della ricerca pioneristica dei coniugi Vasulka nell’ambito della videoarte. Oltre alle teorie benjaminiane a cui è legata e al suo significato più letterale, segna una cesura concettuale interna alle immagini in movimento: l’analogico e l’elettronico qui convivono in due configurazioni spazio-temporali diverse ma simultanee. In altri termini, Art of Memory è una dissolvenza incrociata tra due matericità del cinema che sono anche due modi d’esistere.
L’opera è divisa in otto atti. Ogni cambio d’inquadratura avviene con una sorta di iris a tendina sempre più complesso di atto in atto. La divisione tra gli atti è sancita dalla stessa transizione ma verso il nero e rafforzata da un rumore sordo. Dopo i titoli di testa, l’immagine che apre la prima sezione, una sorta di overture, è il deserto arido del Nuovo Messico. Un “oggetto video” enorme, di pura trama elettronica, fluttua tra i suoi canyon. L’enorme monolite emette un’immagine da cui si scorge una scritta: “UFA”, il più grande produttore cinematografico tedesco, che a partire dal 1933 servì la propaganda e la macchina da guerra nazista. Cinque transizioni dopo, una figura alata guarda lo stesso deserto. L’immagine metaforica del deserto è quella del tempo in cui l’angelo della storia volge il suo sguardo al passato, che invece emerge in queste “forme grigie” digitali dall’alto significato storico e politico. Nel II atto, l’angelo incontra l’altra figura fisica dell’opera: un uomo (Daniel Nagrin) che Raymond Bellour definisce “attore-personaggio” e che lo fotografa cinque volte. In seguito agli scatti, “il cielo si tramuta da sfondo paesaggistico in forma grigia (è il solo esempio, credo, di trasformazione diretta dall’analogico al digitale, dal figurativo all’astratto)” (ibidem). Questi “oggetti video” proiettano e allo stesso tempo sono loro stessi la memoria collettiva del Novecento. È così che l’uomo è costretto a rivivere la sua memoria di specie.

Materiali di repertorio, già incontrati ne Il cielo sopra Berlino con funzione simile ma in forma del tutto diversa, si susseguono per gruppi tematici: la bomba atomica (III e IV atto), la Guerra civile spagnola (V atto), la Rivoluzione sovietica (VI atto), la Guerra nel Pacifico (VII atto). Ne è esclusa almeno all’apparenza la Germania nazista, anche se la lingua tedesca riecheggia a più riprese tra i rumori infernali dell’opera. Questo avviene per due motivi. Il primo è che il nazifascismo è rappresentato dalla Guerra in Spagna, in cui comunque la Germania figura con Bombenfliegermarsch der Legion Condor, una canzone popolare che celebrava la “Legion Condor”, un’unità aeronautica militare mandata a supporto della falange franchista. Il secondo è la centralità dell’altro grande orrore della Seconda guerra mondiale, la bomba atomica, che occupa infatti due sezioni esplicitamente (III e IV) e quella della Guerra nel Pacifico implicitamente (VII). Il Nuovo Messico, è sia il luogo in cui i Vasulka spostarono il loro laboratorio nel 1980, sia quello in cui nel 1945 avvenne il Trinity test, la prima detonazione di un ordigno nucleare della storia.
L’incontro/scontro tra l’angelo e l’uomo è una collisione in fin dei conti costruttiva: è anche e soprattutto un invito a raccogliere un lascito, a farci carico dell’attesa messianica di cui siamo destinatari. L’“attore-personaggio”, è in qualche modo un nostro intercessore. In questo arduo compito è accompagnato dalla stessa natura di Art of Memory, che sollecita una dicotomia tra organizzazione del tempo lineare (pellicola) e discontinua (video). In questa opposizione tra immagini della memoria, che qui assumono una forma plastica e tangibile grazie al video, e sfondo paesaggistico analogico su cui si stagliano, si trova un secondo significato che doppia il precedente: il nostro passato è anche il passato del cinema e viceversa. Come afferma Marita Sturken:

Art of Memory riflette sul come la costruzione della memoria e della storia venga mediata dalla macchina da presa. Presenta la storia come dei “flash” nei quali le narrative storiche […] vengano ricostruite e riformulate […]. La forma di Art of Memory rivela non solo la malleabilità delle immagini storiche, ma anche la differenza tra le rappresentazioni culturali del film e del video” (Sturken, 1995).

L’operato decostruttivo del video sul tempo e sulle immagini esplicita quella forma di oppressione e violenza attraverso la storia da cui Benjamin metteva in guardia nella sua VII tesi. Se è vero che l’immagine è per Benjamin tutto ciò in cui un istante del passato e uno del presente si uniscono in una costellazione, allora Art of Memory sa costruire alla perfezione questa circostanza nella sua natura bifronte. Tra analogico del presente ed elettronico del passato, lavora su quelle particolari congiunzioni che possono portarci a guarire un ignoto futuro.

Ricomporre l’infranto
Secondo l’antropologa Aleida Assmann, “la memoria culturale è la somma di quanto si ricorda e di quanto si dimentica”. Solo una parte delle esperienze entra nel canone, mentre all’altra è riservato l’oblio dell’archivio (cfr. Prosperi, 2021). C’è grande differenza tra deposito da conservare e capacità di ricordare. Una differenza che si estremizza quando le istituzioni deputate alla conservazione (biblioteche, archivi. musei) divengono digitali: all’aumento del memorizzabile non corrisponde un aumento del memorabile.

Si profila così, tra ricordo e oblio, una seconda funzione della storia e della memoria, quella che Adriano Prosperi definisce del “dimenticare”
(ibidem).

La propensione che accomuna le opere incontrate è cercare in questo oblio quella rammemorazione che costruisce il ponte tra vivi e morti. Ma l’investimento salvifico sulle rovine di un passato violento ha senso solo se mediato da un’incessante elaborazione del trauma. È necessario, in altri termini, non solo “destare i morti”, ma anche “ricomporre l’infranto” (tesi IX) (Benjamin, 2012a). Questa espressione risale alla “rottura dei vasi” di Yitzhak Luria, che giustifica l’inconcepibile compresenza tra onnipresenza divina e creato imperfetto. Il primo passo per la creazione sarebbe la “contrazione” originaria di Dio (tzimtzum), a cui seguirebbe la creazione dei vasi (ha-kelim) nello spazio vuoto e la loro rottura (shevirath), che è anche una forma di esilio: alla rottura segue sempre la dispersione dei frammenti. La sheviratt ha-kelim (la rottura dei vasi, per l’appunto) rende necessaria la “ricomposizione dell’infranto” (tiqqun). Dall’atto originario, ogni cosa è dunque esiliata e infranta, deve essere ricondotta al suo posto e redenta. Kiefer esplicita la ricezione del concetto in un’opera omonima, Bruch der Gefäße (Rottura dei vasi, 1990), ma anche il modo in cui gli altri autori trattano il materiale d’archivio tradisce il tentativo di redenzione, come un’incubazione continua da cui “ciò che è stato” non può essere compreso, ma ricacciato fuori dal tempo.

L’opera d Ansel Kiefer Bruch der Gefäße (Rottura dei vasi, 1990).

“Ricomporre l’infranto”, è dunque un atto verso il passato, ma la speranza verso il futuro non è scomparsa, essa si è solo spostata indietro. Benjamin parla di forza rivoluzionaria retroattiva per liberare gli oppressi, ma appare ovvio che i vinti resteranno vinti, i morti morti, e il passato passato. Viene da sé che il fine ultimo di conoscerlo e studiarlo è riservato alla generazione presente, per prepararla al futuro. Perché la distinzione tra presenza e assenza può essere marginale finché esiste la memoria, che genera quelle connessioni profonde tra passato e presente, quelle brillanti “costellazioni” benjaminiane per combattere l’oblio e preparare al domani.

* Questo articolo è l’esito di un lavoro di ricerca svolto all’interno del corso di “Storia e teoria dei media” tenuto da Antonio Rafele presso l’Università La Sapienza di Roma.

Letture
  • Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino, 2018.
  • Giovanna Amadasi, Anselm Kiefer in conversazione con Giovanna Amadasi, in I Sette Palazzi Celesti 2004-2015, a cura di Giovanna Amadasi, Mousse Publishing, Milano, 2022.
  • Raymond Bellour, Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, Bruno Mondadori, Milano, 2010.
  • Walter Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino, 2007.
  • Walter Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Opere complete III. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino, 2010.
  • Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Milano, 2012a.
  • Walter Benjamin, Scavare e ricordare, in Aura e Choc, a cura di Andrea Pinotti, Antonio Somaini, Einaudi, Torino, 2012b.
  • Walter Benjamin, Agesilaus Santader, in Aura e Choc, a cura di Andrea Pinotti, Antonio Somaini Einaudi, Torino, 2012c.
  • Ernst Bloch, Spirito dell’utopia, Rizzoli BUR, Milano, 2009.
  • Fabrizio Desideri, Le ali dell’angelo. Benjamin/Kiefer – Kiefer/Benjamin: contrappunti della memoria, in Rivista di estetica, 61, 2016.
  • Merlin Donald, L’evoluzione della mente, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.
  • Dario Gentili, Il tempo della storia, Quodlibet, Roma, 2019.
  • Giovanni Gurisatti, Jetztzeit, in Costellazioni. Le parole di Walter Benjamin, a cura di Andrea Pinotti, Einaudi, Torino, 2018.
  • Stefano Marchesoni, Memoria, ricordo, rammemorazione in Costellazioni. Le parole di Walter Benjamin a cura di Andrea Pinotti, Einaudi, Torino, 2018.
  • Giacomo Marramao, L’esperimento del mondo. Mistica e filosofia nell’arte di Fabio Mauri, Bollati Boringhieri, Torino, 2018.
  • Andrea Pinotti, Infanzia, in Costellazioni. Le parole di Walter Benjamin, a cura di Andrea Pinotti, Einaudi, Torino, 2018.
  • Adriano Prosperi, Un tempo senza storia, Einaudi, Torino, 2021.
  • Maria Felicia Schepis, L’immaginario della crisi nello sguardo dell’angelo. Attraversando Il cielo sopra Berlino, in Im@go. Rivista di Studi Sociali sull’immaginario, 2, 2013.
  • Marita Sturken, Esplorando la fenomenologia dell’immagine elettronica, in Steina e Woody Vasulka. Video, media e nuove immagini nell’arte contemporanea, a cura di Marco Maria Gazzano, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 15 dicembre 1994-11 gennaio 1995), Edizioni Fahrenheit 451, Roma, 1995.
Visioni
  • Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino, RHV, 2011 (home video).
  • Wim Wenders, Così lontano, così vicino, Gem KFT, 2024 (home video).
  • Wim Wenders, Anselm, 2024 (in sala).
  • Woody Vasulka, Art of Memory, Video Data Bank, 1987 (VDB catalogue).