La nascita di una nazione
tra lacrime, fango e sangue

Mark L. Smith (ideatore)
Peter Berg (regista)
American Primeval
Sei episodi
Cast principale: Taylor Kitsch,
Betty Gilpin, Dane DeHaan,
Shea Whigham, Kim Coates.
Produzione e distribuzione:
Netflix, 2025.

Mark L. Smith (ideatore)
Peter Berg (regista)
American Primeval
Sei episodi
Cast principale: Taylor Kitsch,
Betty Gilpin, Dane DeHaan,
Shea Whigham, Kim Coates.
Produzione e distribuzione:
Netflix, 2025.


Su Netflix c’è American Primeval, una miniserie western da sei episodi carichi di violenza grafica, emotiva e politica. Nel cuore della Guerra dello Utah a metà dell’Ottocento (una sorta di anticipo della Guerra di Secessione americana), American Primeval parte dal massacro di Mountain Meadows e narra una storia di conquista del West attraverso le solitudini di personaggi come Sara (sola con il suo figlioletto), il rude montanaro Isaac Reed (solo con la sua triste back story), Jacob Pratt (solo con il suo sogno mormone), Abish Pratt (sola con i suoi dubbi sul sogno mormone del marito), il capitano Edmund Dellinger (solo con i suoi dubbi sul genocidio dei nativi americani). Tutti in fuga più o meno disperata verso lo Utah, territorio di frontiera dove la ferrovia arriverà solo di lì a poco.

L’eterno ritorno del western
Gli intrecci tra le solitudini dei protagonisti evidenziano come ciascuno di essi viva la sua versione del Viaggio dell’Eroe (cfr. Campbell, 2012). Sara e Isaac si incontrano nel segno del recupero di un’umanità soppressa in seguito a eventi luttuosi. Ben più tortuoso l’intreccio tra Jacob e Abish. I protagonisti di American Primeval si muovono tutti in campo aperto e, parallelamente, anche all’interno delle proprie menti. Il nucleo arcaico e tribale dell’immaginario western si traduce anzitutto nel fatto che le avventure sono ambientate in scenari cosmici dominati da una natura debordante e non da rumorose città europee dense di architetture e di storia. In questo vuoto dell’umanità colmato dal pieno della natura si aprono infinite sponde per il recupero di antichi schemi letterari e mitologici legati alle odissee.
Jordi Ballò e Xavier Pérez hanno studiato i modelli narrativi proposti dai generi industriali individuandone le radici più profonde nella storia della letteratura. Sottolineano in moltissimi racconti d’avventura che spaziano dal western alla fantascienza, l’eco di un “primo gesto mitico, quello di Giasone e degli Argonauti, la più limpida fonte tematica di tutti quei viaggiatori che sono partiti alla ricerca di un tesoro” (Ballò, Pérez, 1999). Il poema Le argonautiche di Apollonio Rodio (III secolo a.C.) raccoglie frammenti relativi a un’antica leggenda ed evidenzia il fatto che anche nella letteratura dell’antica Grecia si insinuano profonde lacerazioni psicologiche. Alla ricerca del Vello d’oro, gli argonauti non sono più semplicemente in viaggio per un terreno di scontro tra umanità e divinità. Il viaggio fisico si sviluppa parallelo a un viaggio interiore. I due studiosi catalani notano nell’affondamento morale del protagonista Giasone una prima perturbazione rispetto alla linearità del Viaggio dell’Eroe.

Le argonautiche trae il titolo dalla nave Argos, per cui i membri dell’equipaggio sono appunto “argonauti”. La funzione narrativa di Giasone non è separabile dalle traiettorie dei suoi compagni e di Medea che si unisce al gruppo. Nel corso di una fuga Medea suggerisce uno stratagemma che risulta decisivo per la sopravvivenza del gruppo: il crudele omicidio con squartamento dell’innocente Absirto (fratello di Medea stessa), i cui pezzi vengono sparsi in mare. Da questo atto dipende la prosecuzione dell’avventura degli argonauti. Da semplice oggetto meraviglioso, il Vello d’oro si trasforma in un obiettivo trascendentale. Le azioni compiute per far proseguire il Viaggio diventano più importanti della meta in sé. Balzano in rilievo tutti i co-protagonisti che ruotano intorno all’Eroe e che incarnano volti diversi della medesima etica. Lo stesso avviene nei viaggi dei protagonisti di American Primeval: percorsi disseminati di scelte morali difficili e azioni che definiscono identità precise. Un bagno di sangue e fango da cui si può solo fuggire.
La ricostruzione del Far West richiama a fondamentali scontri armati tra civiltà e mentalità. Per gli USA e per la vecchia Europa è uno specchio nel quale osservare i propri fallimenti e le proprie origini violente. Ma il difficile confronto con l’Altro da sé e con i biomi prevede anzitutto un viaggio introspettivo. Così il genere western riesce a fare lo slalom tra le mode e a tornare sempre in piedi. Non può scomparire perché è ormai chiara la forte simbiosi (ancora viva e pulsante) tra le sue strutture e le radici del capitalismo. Non è un caso che spesso la parola Far West torna a fare capolino nella cronaca nera quando si parla di violenza metropolitana e di tessuti civili degradati. Sembra che negli ultimi anni, tra cinema, TV e videogiochi, il genere western abbia ampiamente dimostrato di poter proliferare anche nel nuovo millennio.

Sara Rowell interpretata da Betty Gilpin.

Nel giro di una manciata di anni il selvaggio West si è riconnesso con il pubblico mainstream. Nel 2016 ha riaperto le danze il popolare serial HBO Westworld. Attenzione a cowboy e pistole poco dopo rilanciata da Yellowstone che riesce a portare quelle tensioni territoriali western in un dramma pienamente contemporaneo. La serie tv Open Range cucina ulteriormente gli ingredienti di quel western-drama contemporaneo mescolandolo con i paradossi temporali e le sfide del multiverso. Tutto questo in un periodo in cui il videogioco Red Dead Redemption 2 (uscito nel 2018) ha sorprendentemente imposto l’amore per il western al pubblico videoludico. Con il suo kolossal elettronico, la software house Rockstar propone l’ingrediente azione-avventura in un mondo aperto unitamente a un’accurata rappresentazione fotorealistica di paesaggi stupendi: una irresistibile formula destinata a un pubblico trasversale che va ben oltre i confini di una nicchia di nostalgici dei vecchi western novecenteschi. Come si nota i titoli citati sono tutti interessanti ibridi tra fantascienza, tecnologia e western. Oppure drammi contemporanei ambientati in scenari western. American Primeval sorprende anche perché è un racconto autenticamente e inequivocabilmente western. Ma forse è proprio la carica violenta del suo racconto politico e dei suoi percorsi emotivi a rendere questa narrazione ancora più vivida e contemporanea rispetto alle altre citate.
Miniserie scritta e ideata da Mark L. Smith (sceneggiatore di The Revenant, premio Oscar alla regia del messicano Alejandro González Iñárritu e all’interpretazione di Leonardo Di Caprio) offre una pagina di storia maledetta in grado di fungere da appoggio per interpretare il presente. Cosa aggiungere al quadro del selvaggio West, quando ormai abbiamo capito che i nativi americani sono stati perseguitati e scacciati dagli europei? Nella serie Netflix c’è voglia di riannodare i fili tra quegli eventi e l’attualità ondata di sovranismo, di migrazioni forzate, di civilizzazioni militarizzate. Si viaggia sempre più lontano da qualsiasi istanza di internazionalismo o di interesse collettivo. Tutto l’universalismo che negli ultimi decenni si è imposto all’attenzione pubblica con la rete globale del www, tutti i discorsi sulla dialettica tra materia e bit digitali, appare ora sminuito dall’irrompere nel discorso pubblico di nazioni che sentono l’urgenza di schiacciare per non farsi schiacciare.

Isaac Reed interpretato da Taylor Kitsch.

In American Primeval l’unica ombra di una possibile globalizzazione o almeno di un qualche istanza superiore in grado di pacificare le parti è presente solo quando si parla di soldi. Ma nell’attualità globale degli scontri militarizzati nemmeno il Dio Dollaro salvifico e unificante sembra più in grado di mettere la museruola alle istanze di chi vuole isolarsi dal mondo e dalla realtà e regnare sovrano in un determinato territorio. Lasciamo il secolo del taylorismo e dell’imperialismo capitalistico ed entriamo in quello dell’homo homini lupus delle nazioni. (Nazioni digitali ma fino a un certo punto.) Diventa fondamentale individuare il più debole e colpirlo, invadere territori, rubare risorse, mettere le mani su un fantasmatico spazio vitale prima che lo faccia l’altro, chiunque esso sia. In American Primeval tutte le istanze civili sono oscurate dalla rapacità e dalla violenza ben nascosta nella bellezza delle vallate tra il Wyoming e lo Utah. I mormoni di American Primeval vanno in mezzo al nulla (un nulla popolato dai nativi americani politicamente e militarmente quasi inermi) con la pretesa di costruire la loro teocrazia autonoma e sovrana, approfittando di una vastità territoriale ingestibile dal governo federale. American Primeval espone le più orripilanti cicatrici che si trovano nella origin story degli Stati Uniti d’America: pulizia etnica e sovranismo. Ma ciò che viene represso in qualche modo è sempre lì, seppellito da qualche parte. E può sempre ritornare come il personaggio dell’esploratore redivivo Hugh Glass in The Revenant. O come il personaggio del giovane Jim Bridger presente in The Revenant e che torna in American Primeval da anziano, al tramonto della sua impresa di fondatore dell’avamposto che porta il suo nome.

Indiani, pallottole e pillole
Il critico letterario Leslie Fiedler ha sottolineato i poli del Sogno americano: l’incubo del genocidio indiano e la schiavizzazione degli africani (cfr. Fiedler, 2011). Il pellerossa americano in particolare è l’immagine repressa di una sintonia con la natura, di una finezza di percezione, di una modalità cognitiva che può essere infinitamente rallentata o accelerata, ma sempre e comunque fuori sincrono rispetto ai tempi e ai modi del capitalismo e della cultura tecno-scientifica di marca occidentale. Il romanzo più popolare di Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo (1988), si pone tra la generazione beat e le nascenti istanze lisergiche dei figli dei fiori. Un viaggio verso la libertà ma senza esplicite implicazioni geografiche. Indicato da Fiedler come autore neo-western, Kesey è profondamente connesso con il discorso sul trauma all’origine della frontiera americana. Il protagonista del romanzo (a dispetto della versione cinematografica di Milos Forman in cui il McMurphy interpretato da Jack Nicholson è più centrale) è il Grande Capo Bromden, un gigantesco nativo americano inconfondibile referente di quel rimosso fiedleriano. Bromden finge di essere sordo-muto e lascia fare all’istituzione psichiatrica che tiene prigioniero il suo corpo: emblema di un’umanità che resiste in ogni modo possibile al sistema. Il Grande Capo si scontra con la Grande Infermiera Mildred Ratched, referente di Big Pharma che manipola la percezione del tempo e l’immaginazione a forza di pillole. Ken Kesey offre una suggestiva visione del manicomio come macchina della nebbia.

Brigham Young interpretato da Kim Coates e Alex Breaux nei panni di Wild Bill Hickman.

In American Primeval il tema delle allucinazioni più o meno collettive basate sulla distorsione della realtà si colloca come premessa a quasi tutte le azioni più significative. Il fiume delle menzogne e dell’allucinazione travolge il buon Jacob Pratt, ingenuo e devoto alla causa della tribù mormone, uno dei vettori involontari su cui si muove l’insanabile conflitto con la civiltà degli Scioscioni, la tribù nativa che la sorte ha messo sul tragitto del rullo compressore dell’occidentalizzazione. Le allucinazioni di Jacob sono dapprima dei flashback dell’orribile massacro che sembrano funzionali a un classico subplot di investigazione, poi diventano gradualmente sintomi di follia. Ecco i generi del reale e del vero declinati alla maniera delle narrazioni audiovisive post-moderne, analogamente a quanto facevano gli autori di neo-western nel secondo Novecento. Non si può più ricreare la stessa meraviglia che affascinava il pubblico dei generi novecenteschi posti per la prima volta di fronte alla novità dei paesaggi americani catturati e magistralmente connotati dai capolavori di John Ford. Ma si può, raccogliendo la bellezza cosmica delle scenografie naturali, definire percorsi spirituali inconfondibilmente attuali, attraversando le luci e le ombre della modernità. Hanno cominciato a farlo verso la fine del secolo scorso registi come Clint Eastwood (Gli spietati su tutti) e Michael Cimino (in particolare col bellissimo e dimenticato (Verso il sole). Le metafore e le figure retoriche dei generi narrativi tipicamente industriali (come è per l’appunto il western) costruiscono uno spazio mentale striato dove, a un primo sguardo, si impone l’inconsueto (l’altrove e l’altroquando) per poi lasciare emergere importanti allusioni alla società contemporanea. Striature non molto diverse da quelle del romanzo di Ken Kesey e di gran parte del cinema revisionista americano degli anni Sessanta e Settanta, ben sintetizzati nell’epopea western di Piccolo grande uomo che Arthur Penn porta sul grande schermo nel 1970.

Il grande fiume delle allucinazioni
In American Primeval, la voce off del capitano Dellinger riassume le intenzioni degli autori della miniserie:

“Sono arrivato a credere che queste terre siano in possesso di grandi forze, contro le quali noi uomini civilizzati non possiamo difenderci. Queste terre penetrano dentro di noi, nelle nostre ossa, nel nostro sangue e poi ancora più in profondità, occupando la nostra anima. Queste terre si animano dentro di noi, vivono di potere, vivono di violenza, vivono di chiarezza di spirito e di molte altre grandi sensazioni che finora sono sfuggite alla nostra lingua. Di fronte a tali forze mi scopro a non provare alcuna emozione se non una grande umiltà”.

Una voce off che ricorda quella di John Dunbar (Kevin Costner) in Balla coi Lupi: l’ufficiale dell’esercito statunitense che prende coscienza gradualmente dell’ineluttabile cacciata dei nativi americani dalle loro terre. Quella del personaggio è, in pratica, una funzione di mediatore culturale tra il pubblico americano del Novecento e il genocidio su cui si fondano gli Stati Uniti d’America. La stessa funzione svolta dal capitano Thomas Archer (Richard Widmark) in Il grande sentiero di John Ford, pellicola del 1964 che preannuncia una folta ondata di popolari western detti “revisionisti” come Soldato Blu o Un uomo chiamato cavallo. Il senso di questi personaggi che emergono improvvisamente dalla macchina militare è: solo chi combatte in prima persona e si sporca le mani di terra e sangue può capire davvero cosa è successo durante quell’orribile scontro di civiltà. Proprio nella differenza tra le sorti dei personaggi di Dellinger e di Dunbar si manifesta un primo importante salto in avanti di American Primeval rispetto ai western crepuscolari novecenteschi come quello di Kevin Costner. Mentre in quei western revisionisti, trionfano la tristezza per l’enorme ingiustizia politica e la nostalgia per una ferita ecologica che riguarda tutta l’umanità, in American Primeval si perviene a un territorio molto molto più dark, in cui la lotta per la sopravvivenza tende a sfociare nell’horror e tutti ma proprio tutti devono sporcarsi le mani.

Jacob Pratt interpretato da Dane DeHaan.

Quando si parla di America c’è sempre una facciata illusoria e un dietro le quinte. Forse è per questo che la grande narrativa americana non ha mai dimenticato di fare cartografie, di connettere specifici territori che esistono realmente a movimenti sociali e istanze ideologiche. Si cerca di partire da un fatto oggettivo e reale come la geografia per ancorare una narrazione. Mappe, viaggi e direzioni (compreso inversioni e detour) hanno un importante ruolo mitologico e letterario nella narrativa a stelle e strisce. In American Primeval ci sono il mitico Fort Bridger e le vallate del Wyoming, set naturali per le storiche carovane che portavano i coloni verso la California. Il ruolo del viaggio verso Ovest è quello della linea di fuga al tempo stesso materiale e immaginaria, economica e ideologica. Dalla narrazione salta fuori l’incontro con l’Altro e con Madre Natura: i conflitti che scaturiscono lungo il tragitto trasformano spesso il viaggio in un’allucinazione, in un sogno/incubo fatto di paesaggi stupendi e di sopraffazione sanguinolenta. Si plasma così il subconscio collettivo degli Stati Uniti d’America.

Saura Lightfoot è Abish Pratt.

Il futuro dopo Fort Bridger e i suoi avventurosi trapper ubriaconi è l’edificazione di una fabbrica di ingiustizie e di astrazioni burocratiche. Una moderna macchina della nebbia democratica simile all’ospedale psichiatrico del romanzo di Kesey attraverso la quale i governi possono manipolare il tempo e lo spazio, preparandosi a scatenare in ogni momento la mano militare pur mantenendo una parvenza di civilizzazione. La nebbia dell’ipocrisia è un moderno abito mentale che aiuta gli occidentali ad affrontare la complessità del reale e gli incredibili conflitti che secoli di imperialismo capitalista hanno seminato in tutto il mondo. Le storie di Sara, di Isaac, di Jacob e di Abish sono lì a indicarci come ciascuno può costruirsi il proprio universo di verità individuale a dispetto di qualsiasi verità collettiva. Così come Brigham Young può costruire la sua teocrazia, la sua nazione nella nazione a dispetto del governo federale. Non ci sono limiti alla umana capacità di esorcizzare traumi e violenza con maschere e simulazioni.

Letture
  • Jordi Ballò, Xavier Pérez, Miti del cinema, Ipermedium Libri, Napoli, 1999.
  • Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, Torino, 2016.
  • Leslie A. Fiedler, Il ritorno del pellerossa, Guanda, Milano, 2011.
  • Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Rizzoli, Milano, 1988.
Visioni
  • Michael Cimino, Verso il sole, Warner, 1996.
  • Kevin Costner, Balla coi Lupi, Eagle Pictures, 2023 (home video).
  • Clint Eastwood, Gli spietati, Warner, 2007 (home video).
  • John Ford, Il grande sentiero, Butterfly, 2015 (home video).
  • Milos Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Warner, 2011 (home video).
  • Alejandro González Iñárritu, Revenant – Redivivo, Eagle Pictures, 2016 (home video).
  • Arthur Penn, Piccolo grande uomo, Universal, 2021 (home video).
  • Rockstar Games, Red Dead Redemption 2, Rockstar Games, 2018 (videogame).
  • Taylor Sheridan, John Linson, Yellowstone, Now TV, 2018-2024 (streaming).
  • Brian Watkins, Open Range, Prime Video, 2022-2024 (streaming).