Che sul Cile si stendano ancora le scure propaggini del bellicoso Novecento, e che il regime di Pinochet (e con esso lo “spirito” che lo mosse) non sia ancora totalmente un fatto del passato, lo stanno a testimoniare alcuni ben noti eventi degli ultimi mesi, culmine ideale di un processo di ridefinizione della vita politica e sociale di un Paese che ancora sconta il trauma del terrore dittatoriale e le sue durevoli conseguenze: dalle proteste di massa dell’autunno passato, innescate da studenti universitari e superiori dopo i rincari sul prezzo dei biglietti della metro, si è arrivati fino al voto del 25 ottobre 2020, quando l’80% circa degli abitanti della nazione andina risponde “Apruebo” alla domanda referendaria “¿Quiere usted una Nueva Constitución?”, per dare così vita, finalmente, al processo che vedrà la scrittura di una nuova Costituzione a soppiantare quella redatta manu militari nel 1980 sotto l’infame don Augusto.
Alle spalle di questi eventi, di questi ultimi mesi di sollevazione e di temporanei traguardi raggiunti, ci sono tre decenni in cui il popolo cileno ha tentato di fare i conti con il proprio passato, anche in letteratura: e con questo veniamo a noi. Già dopo la morbida fine del regime negli anni Novanta del secolo scorso, e più compiutamente negli anni Dieci di questo, abbiamo infatti assistito, in Cile, all’emergere e al consolidarsi della cosiddetta “letteratura dei figli”, una sorta di movimento a narrazione diffusa animato da autrici e autori, nati tra il 1970 e la fine degli anni Ottanta, che hanno vissuto in famiglia o nella comunità appena più estesa un’infanzia e un’adolescenza caratterizzate dal silenzio o dal terrore, da omissioni o da menzogne, dalla complicità o (soprattutto) dalla resistenza nei confronti della dittatura.
Si prendano a questo proposito, per citare solo titoli usciti in traduzione dalle nostre parti, l’antologia Tintas. Tredici racconti dal Cile (Autori vari, 2017), il breve romanzo per frammenti Passeremo per il deserto di Diego Zúñiga (2012), i racconti di Alejandra Costamagna pubblicati sotto il titolo di C’era una volta un passero (2016) e il suo romanzo Il sistema del tatto, o ancora i lavori di Nona Fernández Space invaders (2015) e Mapocho (2017) e infine l’opera di Alejandro Zambra, di cui qui segnaliamo la raccolta di racconti I miei documenti (2015) e il romanzo Modi di tornare a casa (2013), testo che dichiaratamente definisce la strategia letteraria delle figlie e dei figli venuti fuori dalla dittatura cilena, segnandone in qualche modo i confini e la metodologia.
Si tratta, in tutti i casi, di esempi di come quell’infanzia sopra evocata riviva nel ricordo attuale, nel tentativo di definirne una dolorosa ricostruzione e fare finalmente i conti col passato familiare, da una parte, e con quello politico e sociale del Paese, dall’altra: ma sempre cercando di colmare gl’innumerevoli vuoti, se vogliamo anche narrativi, che avevano caratterizzato l’uno e l’altro; cercando cioè di mettere insieme frammenti di storie domestiche di resistenza, accettazione o connivenza; storie spesso narrate in prima persona; storie di “partenze”, “incidenti” e “disgrazie”; di carcerazioni, di esili, di morte e dasapareción forzada.
In tal senso, si prendano alcuni stralci tratti da quattro delle opere appena citate. Quattro brani che, messi nella sequenza qui liberamente proposta, sembra possano (e vogliano) contribuire a raccontare in termini corali un’unica trama collettiva:
“Fu una di quelle notti, completamente al buio, che mamma mi raccontò dello zio Neno. Mi disse che c’erano molte cose che non sapevo, che non era stata un’idea sua mentirmi, che era un patto che aveva fatto con i nonni. E mi raccontò la storia. Con dettagli. Con silenzi. Nei giorni successivi ci sarebbe stata un’altra storia che nessuno avrebbe avuto voglia di raccontare. […] La storia era un’altra. Mamma certamente la raccontò saltando i particolari. Pronunciò diverse volte la parola incidente, come chi chiede perdono. Poi mi disse di mantenere il segreto, che non era il caso di rimuginarci troppo. Lo disse così, con il tono di chi racconta una storia che non interessa a nessuno”
(Zúñiga, 2012).“Mio padre è il protagonista di questa storia, ma mio padre non c’è più. Devo andare all’indietro e grattarmi la testa per farlo comparire. Con la sua partenza molte cose cambiarono in casa. Non sto parlando della carta da parati o degli elettrodomestici. Mi riferisco al fatto che tutti cominciarono a dare un po’ di matto”
(Costamagna, 2016).“Nessuno ricorda chiaramente il momento esatto, ma tutti ricordiamo che all’improvviso cominciarono a vedersi bare, funerali e corone di fiori e non potevamo più fuggire, perché tutto sembrava essersi trasformato in qualcosa di simile a un brutto sogno. Forse le cose erano sempre andate così, senza che noi ce ne rendessimo conto. Forse […] prima eravamo troppo piccoli. […] All’improvviso le cose si mostrarono differenti. L’aula dove facevamo lezione si aprì verso la strada”
(Fernández, 2015).“Capii che un modo efficace per garantirmi un’appartenenza era stare zitto. Capii o cominciai a capire che i telegiornali mascheravano la realtà, e che facevo parte di una moltitudine conformista e neutralizzata dalla televisione. Adesso la mia idea di sofferenza era l’immagine di un bambino che ha paura di vedere assassinati i propri genitori, o che cresce senza conoscerli se non in poche fotografie in bianco e nero”
(Zambra, 2015).
All’interno di questa nutrita schiera di narrazioni elaborate dalle figlie e dai figli della dittatura cilena a cui fin qui abbiamo accennato, grazie alle edizioni Sur e alla traduzione di Gina Maneri possiamo oggi annoverare in Italia anche La sottrazione, romanzo di esordio di Alia Trabucco Zerán, autrice nata a Santiago nel 1983 e già comparsa dalle nostre parti con un racconto incluso nella succitata antologia Tintas. Tredici racconti dal Cile. Ci troviamo ai giorni nostri, in una Santiago disseminata di cadaveri veri o presunti su cui piovono ceneri metaforiche ed eruttive, a seguire per loro voce le vicende di alcuni di quei “figli” nati da madri e padri oppositori del regime: si tratta di Iquela, traduttrice ossessionata dall’esattezza terminologica, e di Felipe, macabro “contabile” ossessionato dall’impossibile intento di sottrarre uno alla volta i cadaveri che affollano la “sua” città dalla lunga lista dei desaparecidos, per arrivare infine a zero. Accanto a loro e alle loro voci narranti, ottimamente caratterizzate in un’alternanza stereofonica di prosa fluviale (Felipe) ed esatta (Iquela), c’è Paloma, motore vero per quanto silente della narrazione, ovvero un’amica d’infanzia dei due tornata in Cile dalla Germania con uno scopo ben preciso: seppellire a Santiago la madre recentemente defunta al termine di un lungo esilio al centro dell’Europa.
Un ostacolo si frappone però tra Paloma e il suo desiderio di dar requie alla madre nel suolo natio: l’eruzione vulcanica che fa piovere cenere su Santiago ha impedito l’atterraggio in città della salma, dirottandola a Mendoza, in Argentina, al di là del confine, ai piedi dell’altro versante delle Ande. Così, tra ricostruzioni introspettive dell’infanzia e tentativi più o meno riusciti di mettersi al riparo dall’assenza per trovare infine la propria strada (in quanto singoli e in quanto parte di una generazione), i tre decidono di valicare il confine a bordo del Generale, un vecchio carro funebre preso in affitto, così da recuperare via terra il cadavere insepolto e traslarlo per sempre nella capitale cilena.
Ne viene fuori un road trip che, allo stesso modo di quello dei Neochilenos messi in versi da Roberto Bolaño, è “pura ispirazione / e niente metodo” (Bolaño, 2018). Un viaggio, tuttavia, meno chiassoso e di certo più intimista, per quanto altrettanto allucinato. Un viaggio, metaforico anch’esso, che sembra tuttavia porsi come cominciamento di una nuova storia, e non soltanto come fase finale di un processo di dolorosa ricostruzione del passato. È infatti anche grazie al viaggio, a questo viaggio, e al favore offerto dalla prospettiva soprelevata delle Ande che i nostri sono chiamati a valicare, che sembra per loro possibile proporre una visione complessiva, non più soltanto frammentata, non più soltanto rivolta alle faccende familiari, delle cose per come sono. Si prenda, in proposito, quando le due voci narranti raccontano all’inizio e alla fine del viaggio:
“Davanti a noi, come un’apparizione, la cordigliera, che ci sorvegliava da sempre. Commentai il cielo opaco, i campi sepolti sotto la polvere, il vento che aveva assunto una consistenza visibile (un sudario grigio su Santiago). Avevo bisogno di confermare a me stessa che stavo partendo, è un viaggio, succede davvero, mi dissi, e spinsi il carro funebre al limite delle sue possibilità, un fremito nuovo alla bocca dello stomaco. Felipe sfogliava assorto una pila di giornali e Paloma si dava da fare con una cartina, come se fin dalla Germania avesse pianificato di noleggiare un carro funebre e attraversare le Ande: prendi la 5 a nord e poi la 57, prosegui per Río Blanco e Guardia Vieja. Le diedi retta finché mi accorsi degli errori nei nomi, delle distanze sbagliate, della geografia di una città vecchia (ci lasciavamo alle spalle una città del passato).
E accelero forte per non sprofondare nel cemento molle, in questo fango grigio, in questo pus, ecco, per non impantanarmi nel pus secreto dalla montagna, dalla cordigliera che bisbiglia di andare avanti, di accelerare, a tutto gaaas, cantavamo quando si cantava, urlavamo in coro io e la Iquela per non sentire, per non ascoltare quello che dice la bocca della montagna, perché bisbiglia di salire, di passare dall’altra parte, non importano i venti, i quindici, i dieci chilometri all’ora che ingolfano il motore del Generale, ma non è così semplice, no, non è facile attraversare la cordigliera grigia, io però salgo e sudo e apro i finestrini per arieggiare il carro funebre, abbasso i vetri anche se fuori c’è il pus, il maledetto pus che mi entra come un’onda dalle maniche, già, e mi si attacca alla pelle, quel veleno, quel virus che vuole infettarmi gli occhi, e quindi piango lacrime di piombo che mi bagnano e il pus e le mie gocce si mescolano e la cenere mi copre per intero”.
La sottrazione è insomma un romanzo che, recuperando e facendo propri gli stessi temi sopra richiamati (l’infanzia, l’assenza, le biografie frammentate, le separazioni, la distanza, la morte di un genitore, il ritorno), e costruendosi ellitticamente già dal titolo attorno all’assenza, intende probabilmente porsi come un’opera che da una parte rientra a pieno titolo nella “letteratura dei figli”, mentre dall’altra sembra forzare e oltrepassare il modello, coniugandolo in maniera del tutto innovativa. Ne siano testimonianza l’allontanamento dal realismo, un diffuso ricorso all’ironia e soprattutto, per concludere, il ruolo riservato agli stessi “figli”: non più soltanto soggetti passivi di un passato ingombrante da subire ancora e provare a ricostruire mettendo insieme narrazioni familiari assenti, bensì soggetti attivi impegnati in una difficoltosa opera di rivolgimento verso il futuro, per quanto a partire da un orizzonte presente frammentato e ricoperto di cenere come la Santiago che si vede dall’alto, una città del passato.
- Autori vari, Tintas. Tredici racconti dal Cile, antologia a cura di Maria Cristina Secci, Gran Vía, Trevi, 2017.
- Roberto Bolaño, Tre, Sur, Roma, 2017.
- Alejandra Costamagna, C’era una volta un passero, Edicola Ediciones, Ortona, 2016.
- Alejandra Costamagna, Il sistema del tatto, Edicola Ediciones, Ortona, 2020.
- Nona Fernández, Space invaders, Edicola Ediciones, Ortona, 2015.
- Nona Fernández, Mapocho, Gran Vía, Trevi, 2017.
- Alejandro Zambra, Modi di tornare a casa, Mondadori, Milano, 2013.
- Alejandro Zambra, I miei documenti, Sellerio, Palermo, 2015.
- Diego Zúñiga, Passeremo per il deserto, Caravan, Roma, 2012.