“In questo nuovo LP, l’Autore offre una vasta gamma di disponibilità idonee a sottolineare situazioni diverse di grande attualità”. Sono righe poste sul retro di copertina dell’album Farfalla del Maestro Alessandro Alessandroni (pubblicato nel 1971 dall’etichetta Sermi Film), che spiegano alla perfezione il significato di biblioteche musicali, altrimenti dette librerie musicali, sound libraries (o library), quei sottofondi musicali destinabili a commento sonoro per il cinema, la televisione e in origine anche per la radio che impazzarono negli anni Sessanta e Settanta. Note all’album di questo tipo non devono meravigliare. Stampare sul retro di copertina delle istruzioni per l’uso era pratica diffusa tra le etichette discografiche specializzate nel genere; completavano il lavoro svolto dai titoli che venivano dati ai brani, suggerimenti spesso espliciti che indicavano quali scene erano commentabili al meglio. Un lavoro didascalico svolto anche dalla strumentazione stessa che veniva adottata. Si prenda ancora il retro del citato Farfalla, dove si legge: “In alcuni brani, flauto, arpa e clavicembalo creano atmosfere di umana intimità e di delicato romanticismo”. Titoli indicativi come quelli che si ritrovano anche nella più recente ristampa delle musiche di Alessandroni, Industrial, raccolta dedicata al mondo della produzione industriale. Un disco originariamente uscito nello stesso anno in cui aprivano le danze gli inventori del genere industrial, i Throbbing Gristle, ma qui le sonorità sono tutt’altro, claustrofobiche sì, ma ancorate a un senso della melodia affatto presente nella band inglese che molto si affidava al rumore. Industrial è una libreria musicale di prim’ordine, che viene rieditata nell’originale supporto in vinile, ma disponibile anche in versione liquida, digitale. Inglesi erano originariamente le stesse librerie musicali, che arruolarono in Italia il fior fiore dei compositori in attività tra i Sessanta e i Settanta, artisti come Alessandroni attivi soprattutto nel cinema o dediti quasi esclusivamente al genere e anche non pochi jazzisti. Sono musiche oggetto di periodica riscoperta, spesso di grande valore, che sfidano il tempo mostrando meno rughe di altre più blasonate musiche di ricerca. Già, perché le librerie musicali erano un po’ dei laboratori dove sperimentare con libertà sconosciuta in altri ambiti ed erano anche delle botteghe dove esercitare al massimo il sapere artigianale del fare musica.
Erano anche o potevano essere delle fonti di reddito, come ebbe a dire lo stesso Alessandroni in un’intervista rilasciata nel 2005 a Colonne Sonore: “Musica un tanto al chilo” e funzionava perché lo stesso Alessandroni di registrazioni di musica per sonorizzazioni ne ha fatte circa un migliaio, come ricordava nella stessa occasione. Eppure, il Maestro è noto soprattutto per altro: per il suo celeberrimo fischio, quello che si ascolta in Per un pugno di dollari di Sergio Leone. La musica la scrisse Ennio Morricone con cui Alessandroni collaborò un’infinità di volte, non solo con il fischio, ma anche con le voci che sapientemente venivano orchestrate per il cinema: quelle de I Cantori Moderni. Ne faceva parte la soprano Edda Dell’Orso, altra voce chiave del sound morriconiano nella trilogia western di Leone. Il Maestro vi fece confluire la sua esperienza precedente in un altro celebre combo vocale, I 2+2 di Nora Orlandi in seguito ampliato a ottetto. Prima di lasciare il quartetto, Alessandroni viene immortalato nel film La Malafemmina, dove i 2+2 (Nora e la sorella Paola, Massimo Cini e Alessandroni alla chitarra) accompagnano Teddy Reno nell’esecuzione di Piccolissima serenata. L’assetto de I Cantori Moderni – evoluzione di un proprio 2+2, il Quartetto Caravels – era il medesimo, anche se talvolta, proprio lavorando con Morricone, gli capitò di adottare un 6+6 e anche un 8+8 voci. Composizione, fischio, voce e prima ancora chitarra, perché Alessandroni nasce chitarrista, autodidatta, anche nello studio di altri strumenti (in primis il pianoforte) e come tale frequenta per anni un po’ tutte le grandi orchestre in circolazione nella Capitale (arrivava dal viterbese), da quella di Armando Trovajoli a quella dell’Unione Musicisti di Roma. Riassumendo, la vicenda musicale del Maestro è un intreccio riuscito da un lato, di autore di colonne sonore e sonorizzazioni, dall’altro di esecutore per i propri lavori e in quelli altrui, come multistrumentista e fischiatore. Il celebre fischio, un dono di natura, come spiegò Alessandroni nell’intervista citata:
“Io ho una peculiarità: di solito, quando fischi, dalla bocca esce 50% di fiato e 50% di suoni, nel mio caso è 90% di suono e 10% di fiato”.
Le sue musiche e il suo fischio si ascoltano in tanti film, in altri western come Lo chiamavano Trinità (1970) di E.B. Clucher (nome d’arte di Enzo Barboni), o Vado l’ammazzo e torno di Enzo Castellari (1967), ma anche in commediole erotiche, per esempio La signora gioca bene a scopa di Giuliano Carnimeo (1974) e in soft porno come Porno Esotic Love (1980) di Joe D’Amato, e horror, ad esempio La terrificante notte del Demonio di Jean Brismée (1971). Non si contano le musiche per sonorizzazioni, alcune recentemente recuperate da opportune ristampe, come quelle contenute in Inchiesta, con brani utilizzati in un programma Rai in otto puntate dal titolo Finestra aperta, una serie di reportage sui paesi dell’Europa Unita. Altrettanto prezioso il carnet di Prisma sonoro, con brani multiuso come Punti di vista, Dialoghi d’amore o Galleria d’immagini. Album riediti dalla stessa storica etichetta Cometa attiva in campo cinematografico e televisivo sin dagli anni Sessanta. Degna di menzione è anche la raccolta I cantori Moderni di A. Alessandroni pubblicato dalla Penny Records, ristampa di un album del 1972 contenente altre polaroid sonore come Aria di Provincia, Nella balera o La partenza. Sempre musica d’atmosfera, calda ed eccitante, sognante e malinconica, scattante, rilassante, frenetica, melliflua, un cocktail mix di soavi melodie e ritmi variegati, con arrangiamenti che filtravano tutto il superfluo, lasciando in due/tre minuti l’assolutamente essenziale. Caratteristiche che si ritrovano anche nell’ultimo ripescaggio dagli archivi del passato, il citato Industrial. Non era la prima volta che il Maestro si dedicava a commentare il mondo della produzione industriale.
C’era stato, per esempio, un Ritmo dell’industria n°2 uscito nel 1969 per l’etichetta Grand Prix, anch’essa specializzata in library. In questo album registrato negli studi di Piero Umiliani nel 1976 e pubblicato originariamente dalla Octopus, Alessandroni cercò di restituire più che nel precedente, il senso del ritmo della fabbrica, l’ossessività, la ripetitività dei tempi di produzione, il respiro delle macchine, senza aver bisogno di ricorrere a rumorismi, ma con riff energici, tempi di marcia, una coloritura funk a più riprese ed effetti e clangori vari affidati al sintetizzatore. Suoni più vicini a quanto il Maestro in parte fabbricava nel gruppo di rock psichedelico Braen’s Machine, gruppo prodotto (guarda caso) da Piero Umiliani all’inizio dei Settanta e anch’esso oggetto di recenti recuperi grazie alla Schema Records. Non fu l’unica incursione nel pop rock di Alessandroni che diede vita, nello stesso periodo, al progetto denominato Pawnshop, che ci ha lasciato solo un paio di quarantacinque giri. Tornando a Industrial, salta subito all’occhio, prima e più che all’orecchio, la destinazione d’uso suggerita dai titoli, espliciti, netti, chiari, rigorosi, come esige il funzionamento di una macchina e a maggior ragione quello coordinato di un insieme di macchine, una fabbrica: Discesa tensione, Compressione, Demolizione e via di questo passo. È un triplo tuffo nel passato, perché oltre ad ascoltare musiche di un’altra epoca musicale e ad ascoltarle, volendo, grazie a un giradischi, immaginiamo scorrere anche immagini di un’altra era del lavoro, il cui revival non è dato in Occidente, ma di sicuro laddove, in Asia, l’industrializzazione a tappe forzate è tuttora in corso. Viene quasi da accostarsi religiosamente a questo mondo scomparso e ai suoi fantasmi, ne più ne meno di come succedeva a chi vi entrava per la prima volta quando quel tipo di industria iniziava a fiorire nell’Italia del dopoguerra, come scriveva nel 1949 Leonardo Sinisgalli:
“Io entro in una fabbrica a capo scoperto come si entra in una basilica, e guardo i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito”
(Sinisgalli, 2003).
Appena un piede dentro e parte il primo brano, Stozzatrice, dal ritmo ossessivo, duro, metallico, artificiale, vicino alla proto techno di quei musicisti tedeschi – Conrad Schnitzler, Asmus Tietchens, Pyrolator, ovvero Kurt Dahlke, tra gli altri – che negli stessi anni si sganciarono dall’elettronica cosmica alla Tangerine Dream prima maniera facendo entrare in scena il ritmo. È un ritmo che assale e conquista, a cui sembrano far eco le parole di Paolo Volponi, datate 1962:
“Il rumore mi rapiva; il sentire andare tutta la fabbrica come un solo motore mi trascinava e mi obbligava a tenere con il mio lavoro il ritmo che tutta la fabbrica aveva. Non potevo trattenermi, come una foglia di un grande albero scosso in tutti i suoi rami dal vento”
(Volponi, 2015).
Incessante, anche l’andamento del brano acustico Moto sincrono, affidato a una chitarra acustica. Brano rigorosamente reiterativo, buon commento alla catena in fabbrica, che Nanni Balestrini aveva dipinto con rapidi ed essenziali schizzi appena qualche anno prima, nel 1971:
“Io prendevo questo fascione col paraurti, sopra di me c’era la carrozzeria della 500 che arrivava, dall’altra parte arrivava il motore, io piazzavo questo fascione col paraurti, che peserà un dieci chili fra tutt’e due. Lo prendevo da un altro posto che lo preparava un altro, lo mettevo sopra il motore, ci mettevo i bulloni sopra. Avvitavo con sta chiave automatica a aria, veloce, trrrr trrrr due bulloni, e tutto andava via mentre un altro arrivava. Venti secondi ci dovevo mettere”
(Balestrini, 2004).
In fondo, lo si è detto, le library music spesso ribadivano la finalità dei singoli brani anche con delle istruzioni generali poste nel retro della copertina e qui spulciando da un immaginario zibaldone delle lettere italiane sulla fabbrica, ci si attiene al medesimo principio. Eccoci quindi nel bel mezzo di reparti di produzione, con l’accompagnamento quasi epico delle tastiere adoperate in Collata dal ritmo ondulato, sospinto da ruvidi colpi di batteria, Diceva bene Emilio Tadini, quando nel 1956 scriveva:
“Qui arrivano i pezzi di ghisa e di acciaio ancora troppo grossolanamente formati in fusione. E qui vengono calibrati con una precisione di centesimi di millimetro. Torni giganteschi che concentrano tutta la loro estensione di decine di metri e tutta la loro forza di centinaia di tonnellate sulla punta unica e perfetta dell’attrezzo, che lavora, che incide lentamente il blocco per giorni e giorni fino a ridurlo nei limiti stabiliti. E rettifiche, il cui corpo enorme ruota intero ad azionare la carezza rugosa della mola, che toglie ogni residuo di inutilità, che liscia i pezzi fino a farli scintillare”
(Tadini, 2008).
È il preludio al successivo Fusione, dove il metallo inizia a stridere, il suono è più artificiale, l’atmosfera più irrespirabile. Annotava Ottiero Ottieri nel 1963:
“Fuoco rosso e macchine nere. Il cammino autonomo del lingotto infuocato. Il battere ritmico, convulsivo dentro il laminatoio che lo deve forare, spolpare: lavorano contemporaneamente i due cilindri per sfibrare l’acciaio e allungarlo, e una specie di scalpello per renderlo cavo. Così il tubo nasce da un lingotto rettangolare, che diventa tondo e bucato, allungandosi. Il semilavorato si fa malleabile come la plastilina, ma a prezzo di violenza precisa e di fuoco”
(Ottieri, 2012).
Reparto presse ripropone il gioco altalenante dei ritmi cupi e dei colpi stridenti, mentre il riff tecno-funk di Idrolisi ci porta in un mondo alieno, dove le macchine conversano con le macchine in un batti e ribatti che sembra non avere fine. Suoni sintetici scorrono nel citato Compressione, mentre Amperometri ha movenze più da ballata, sembra commentare una fase di produzione di passaggio, di transito, prima di ottenere il prodotto finito, un andamento che ricorda quello descritto da Giovanni Pirelli nel 1965:
“Dondolano lungo l’intero spacco, bobine e culle insieme, lievemente. La gabbia prende a rotare, tende i fili, li trascina verso lo stampo. Accelera rapidissimamente. Dal fondo sale un vento misto a voci, molte, discordanti. Crescono fino a diventare un’unica, costante voce. Gabbia e fili sono dileguati. Rimangono le bobine dondolanti nelle loro culle, lievemente, nel vortice del vento. Di là dello stampo, come dal nulla, nasce, regolare, compatta, lucente, la nuova corda. Sul nascere si tende, abbraccia il volano di tirata, investe la bobina di raccolta, la stringe in spire compatte…”
(Pirelli, 1974).
Una deliziosa apertura è regalata da Avvicendamento, dall’andamento brioso pur mantenendo in sottofondo suoni artificiali e altrettanto propone Highway, con una linea di basso ostinatissima. Sono i passaggi meno oscuri del disco, mentre si ripiomba nel bel mezzo dell’attività di reparto in brani come Discesa tensione e Demolizione, che procedono senza pausa alcuna, come una tabella di produzione, con i ritmi rigidamente fissati, un carico di lavoro prefissato, una tabella da rispettare, un ritmo musicale che si snoda per giungere al suo inizio, circolare come il processo di lavorazione, reiterativo, alienante. Lo fotografò così Vasco Pratolini nel 1962:
“Sbullono, smonto; e durante delle ore sto davanti alla fresa, controllo la barra di metallo da sezionare a misura. Questo quando l’ago della fresa è a disco, quando è a manicotto spiano le barre che ci vengono ancora grezze di fusione, le attesto, fo delle incassature in certi alberi d’acciaio dove va infilata la zeppa che collega l’albero con la ruota dentata da calettarci sopra”
(Pratolini, 2013).
In seguito il maestro tornò in fabbrica, con un’altra raccolta intitolata Light and Heavy Industry uscita nel 1982, ma il mondo stava cambiando. In un certo senso le music library erano da un lato una variante primigenia delle colonne sonore di film immaginari), dall’altro il commento sonoro alla vita, prima che le tecnologie mobile consentissero a ciascuno di portarsi a spasso la propria colonna sonora. Antesignane della moderna ambient music, che ricordiamolo nasce per essere sottofondo, accompagnamento immaginario alla vita negli aeroporti e in altri non luoghi, queste musiche erano potenzialmente in ogni angolo del tempo libero, di solito trascorso a casa davanti alla tv e talvolta al cinema, undici mesi su dodici; suoni impastati con quelle immagini che scorrevano altrettanto fluide o statiche, noiose o avvincenti. È singolare che il passaggio alla civiltà degli immateriali si sia accompagnato a una perdita di fisicità del suono nelle musiche di commento, ma proprio un disco come Industrial nato soltanto due anni prima di Music for Airports di Brian Eno bene ne indica il passaggio di testimone e il declino delle library. Salvo poi ritornare a essere d’attualità, magari per retromania, come accade oggi anche al Maestro, oggi arzillo novantenne presente anche su Facebook, al quale, però, ricordiamolo, basta solo un fischio per catturare l’attenzione.
- Alessandro Alessandroni, La signora gioca bene a scopa, DigitMovie, 2010.
- Alessandro Alessandroni, Inchiesta, Cometa, 2011.
- Alessandro Alessandroni, Prisma Sonoro, Cometa, 2011.
- Alessandro Alessandroni, I Cantori Moderni di A. Alessandroni, Penny Records, 2013.
- Alessandro Alessandroni, Alessandro Alessandroni (include l’album Farfalla con aggiunta di inediti), Cometa, 2014.
- Braen’s Machine, Underground, Schema Records, 2013.
- Braen’s Machine, Quarta pagina (poliziesco), Schema Records, 2014.
- Nora Orlandi/Alessandro Alessandroni, A Doppia Faccia / La Terrificante Notte Del Demonio (Original Soundtracks), Lucertola Media, 1998.
- Pawnshop, Telegraph Is Calling, in AA.VV., Sonorissima Series: Italian Library Music Party Vol. 01, Black Cat, 2000.
- Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, DeriveApprodi, Roma, 2004.
- Ottiero Ottieri, La linea gotica. Taccuino 1948-1958, Guanda, Parma, 2012.
- Giovanni Pirelli, L’altro elemento. Quattro romanzi, Einaudi, Torino, 1974.
- Vasco Pratolini, La costanza della ragione, BUR Milano, 2013.
- Leonardo Sinisgalli, Pneumatica, Edizioni 10/17, Salerno, 2003.
- Emilio Tadini, Ritorno alla Sant’Eustacchio in Giuseppe Lupo, Gianni Lacorazza (a cura di), L’anima meccanica. Le visite in fabbrica, in Civiltà delle Macchine (1953-57), Avagliano, Roma, 2008.
- Paolo Volponi, Memoriale, Einaudi, Torino, 2015.